Giò Barbieri
Collabora con Meer da giugno 2011
Scopri di più su Giò Barbieri in
Giò Barbieri

Giò Barbieri vive e lavora a Modena. Diplomato all’Accademia d’Arte di Firenze, negli anni ‘70 collabora con Bonvi (Sturmtruppen) e Silver (Lupo Alberto) presso l’editrice Plycomics, pilota aerei da turismo, naviga a vela ed è fotoreporter di guerra per il settimanale L’Europeo. Viaggiatore infaticabile ed appassionato di etnologia, nel 1982 entra nel Guinness dei primati per il numero di paesi visitati e nel 2004 inserisce suo figlio di appena 20 mesi nel medesimo libro col titolo di “viaggiatore più giovane che ha visitato tutti e sette i continenti”. Dal 1994 scrive guide turistiche per FuoriThema/Rough Guide, Vallardi e Polaris, racconti e libri di viaggio, dirige il reparto travel del periodico illustrato Terra e Identità, cura una rubrica personale sul Wall Street International Magazine ed è collaboratore storico della rivista di viaggi Caravan e Camper per la quale scrive articoli e reportage.

Nel 2001 ha pubblicato la guida completa sull’isola del Borneo, con descrizione approfondita su popolazioni ed etnie, storia, cucina multietnica, religioni, arti, idiomi, mappe e culture della terza isola più estesa del mondo (FuoriThema/Rough Guide). Sull’isola del Borneo, con FuoriThema ha prodotto altre cinque dettagliate guide, create per viaggiare in autonomia, complete di itinerari, trekking, trasporti fluviali, reclutamento guide, contesti culturali, città, villaggi, alloggi, parchi, shopping, mercati diurni e notturni e tant’altro ancora: Sarawak-Sabah-Labuan e Brunei (2002); Kalimantan Indonesia (2002); Kalimantan Timur (2002); Malaysia Orientale (2003); Dayakland (2003).

Nel 2010 ha pubblicato la riproduzione completa dei diari del viaggio a Bali nel volume Modena-Bali-Modena (ed. Colombini) a cui fa seguito nel 2014 il racconto di quella mitica esperienza, rivissuta e narrata quarant’anni dopo nel volume Modena-Bali-Modena 2 ( ed. Colombini). Nel 2012 è uscita la guida Malaysia Occidentale e Singapore (ed. Polaris). Nel 2013, 2015 e 2019 ha pubblicato Modenessere (1, 2 e 3). Ritratto dell’universo modenese (ed. Colombini). Nel 2015 ha curato il volume *Adriano Malavasi, poesia è quel che rimane (ed. Colombini). In fase di ultimazione il libro *Modena-CapeTown-Modena”, giro dell’Africa con mezzi di fortuna, 10 mesi all’insegna dell’imprevisto vissuti nel 1979 e raccontati oggi giorno per giorno.

Quello che si dice di Giò Barbieri, una biografia raccontata da altri:

La prima volta che sentii parlare di Giò Barbieri come del più grande viaggiatore del mondo, certificato dal Guinness dei primati, mi ero fatto un’idea sbagliata. Si viaggia anche per sbaglio, e una volta John, mica Giò, John, cognome Lennon, disse che la vita è quello che ti succede quando stai facendo altri progetti. Vabbè che anche il suo ultimo figlio, Giorgio, è sul Guinness come il bimbo che, a solo venti mesi, era già stato in tutti i continenti. Ma, tanto per cominciare, mi faceva sorridere quel Giò, che immaginavo scritto Jo, pensando che fosse uno che se la tirava, o se l’era tirata, tanto da internazionalizzarsi nel nome e cercare attestati che dessero un senso allo scialo dei soldi di papà e al suo stare nel mondo. Uno che aveva bisogno del timbro di un’associazione riconosciuta perché se no sarebbe passato come un colossale ballista mitomane.

Invece, fa te, se avessi visto una foto, probabilmente avrei potuto riconoscerlo tra gli amici matti della mia zia adorata, partita per l’India e la Thailandia dopo il Venturi, tra lacrime di nonna e fratelli e sogni miei di potere un giorno imitarla. Gente che ascoltava musica arrivata dall’America, vestiva giubbe di lana grezza dai pascoli del monte Ararat, aveva in tasca salviette della Thai Airlines, andava e tornava da Roma, scriveva regista sulla carta d’identità e Modena gli andava stretta, ma stretta un bel po’, mentre il mondo sembrava a portata di mano.

Giò Barbieri, Giuseppe all’anagrafe, lo scrivo per ricordarmelo anch’io che, se no penso sempre debba chiamarsi Giovanni, un nome più modenese avrebbe fatto fatica a trovarselo. In realtà mi ha poi spiegato che era stato Giò fin da bambino, in omaggio a uno zio d’America, militare della Seconda guerra mondiale che, ferito, aveva sedotto, e sposato, la sorella crocerossina del papà. Anche Barbieri senior, Falarìde detto Fally, non era un sedentario. Musicista jazz aveva girato il mondo e parlava cinque lingue. L’albero genealogico di famiglia porta a un Barbieri assai più noto con il soprannome di Guercino, grandissimo pittore secentesco. Dunque Giuseppe Giò era pronipote d’arte. Ma facciamo finta di non saperlo.

Con quel nome e cognome lì, Giuseppe Barbieri, sembrava obbligatorio leggergli davanti rag. o geom. sulla targhetta d’ottone della porta o sul biglietto da visita della banca. Ma se oggi in Borneo lo chiamano Sultan Yousuf El Br-Br vorrà dire che ne ha fatta di strada. E ne ha fatta sì, anche dopo l’epico viaggio raccontato in queste (tante) pagine. Non saprei dire quando e come ha cominciato, se avesse viaggiato anche prima o no, ma certo da quando è partito non s’è fermato più. Come se la biglia d’acciaio di un flipper lanciata tra i rimbalzoni percorresse all’infinito tutti gli special e restasse sempre su senza più tornare in buca, incurante anche degli inevitabili tilt che la vita con i suoi scossoni non risparmia neanche a chi è sempre alla stessa ora in poltrona davanti alla tv.

Chi sa se Giò, Giò come Giò Galaxi, il gran viaggione astrale dei fumetti di Frigidaire, sarebbe mai partito in cinquetti per l’oriente se fossero esistiti i telecomandi, la tv satellitare e i telefonini che fanno i film e le foto. Come sanno bene persino gli allenatori di calcio con il loro lessico ristretto come un dado da brodo “con i se e con i ma la storia non si fa”, dunque non importa saperlo. Si fa per scrivere qualche riga o forse perché la domanda, celante invidia, sorge spontanea. Va da sé che il buon Giuseppe e i suoi due sodali, uno innamorato di Bali vista in un documentario, decidono di partire convinti di avere in tre tutte le competenze necessarie a oltrepassare la Cortina di ferro del mondo comunista e varcare le colonne d’Ercole del mondo occidentale.

Uno sapeva cucinare, l’altro diplomato al Fermi si poteva occupare del motore, Giò, esteta con tanto di pezzo di carta del Venturi, aveva una macchina fotografica. Potevano andarci in aereo a Bali e sarebbe finita lì, senza neanche dover torturare gli amici a casa con disperanti proiezioni di diapositive, che non c’erano ancora. Invece no, e in questo mi tolgo il cappello con tanto di inchino, i tre avevano dentro una dimensione del viaggio talmente forte che a loro stessi sarebbe riuscito difficile spiegarla a parole. Si viaggia, quando si viaggia davvero, per narrare, certamente, ma prima di tutto a sé stessi. E il racconto è fatto di luce, di colori, di odori, di sobbalzi, di paure, di forature, di polvere e di tramonti.

L’esperienza, vissuta sulla propria pelle, al punto estremo di rischiare di giocarsela, la pelle, affrontando battaglie al fianco dei guerriglieri palestinesi sulle rive del Giordano, era tutta volta a una crescita interiore, al trovare una misura di sé stessi nel gioco misterioso e immenso della vita e dell’universo. Niente male per chi avrebbe potuto godersi uno status borghese garantito nella piccola città, tra sezioni di partito o messe domenicali con annessi pasticcini.

Ma in un mondo che poteva sparire in un attimo se di qui o di là dal muro di Berlino qualcuno spingeva un bottone per distruggere tutto con le atomiche, in un mondo che anche in largo di Porta Bologna si poteva perdere ogni punto di riferimento solo a chiudere gli occhi e ascoltare una chitarra elettrica, fermarsi assomigliava già a una resa. L’età dei desideri e più che dell’incoscienza della ricerca di una coscienza imponeva di andare, provare, sperimentare, cercare.

Gli eroi, avrebbe cantato di lì a poco l’amico Francesco del bar Grand’Italia, gli eroi son tutti giovani e belli. E i tre giovani e belli lo erano e sapevano di esserlo. Il prode Giò, divenuto mio grande amico in tempi recenti per affinità elettive e insospettabili incroci di vite parallele in un corto circuito spazio temporale, il suo viaggio per antonomasia me lo ha raccontato solo per frammenti, come quelli lasciati dai filosofi greci presocratici. Brandelli di verità luminosi ma interrotti e intermittenti. Luci arrivate dal cosmo di stelle forse già spente. Che tanto c’è sempre un viaggio più recente da raccontare, quello che sei tornato solo da una settimana, quell’altro che stai per partire, e magari invece in quel momento lì ti sembra più importante l’incontro che ha fatto per strada venendo a trovarti.

Si viaggia anche da fermi e credo che Giò lo abbia scoperto, o forse lo ha sempre saputo. Ma vuoi mettere arrancare sui valichi dell’Afghanistan e andare avanti a dispetto di tutto, cercare cibo e ospitalità, ascoltare i suoni di lingue misteriose, sentire il freddo più acuto e il sole più torrido, capire il valore assoluto di un sorso d’acqua o di un gesto d’amicizia da uno sconosciuto? Vuoi mettere perdere di vista la meta e accettare di proseguire perché ogni giorno, ogni ora, ogni minuto sono vita, pura vita: respiro e sangue che gira.

Sfogliare queste pagine lo fa capire bene. E trovo davvero meraviglioso, nel senso letterale del termine, da “meraviglia”, che il racconto passi attraverso parole che sono disegni e disegni che sono suoni. Qualcosa di più forte e sincero delle ricercate tavole parolibere futuriste, in fondo così ideologiche, e anche qualcosa di ingenuamente più fresco e stupefacente delle poesie verbovisive che circolavano già in quegli anni. Sembra di sentire tra le mani i fogliettini con gli appunti rielaborati alla sera perché niente andasse perduto di tutto quello che era passato dagli occhi per entrare nel cuore. E ogni volta quel resoconto è già un biglietto per la tappa del giorno successivo, per il viaggio del giorno dopo.

Alla fine, ci arrivarono, senza curarsi del senso del ridicolo di quella scritta sulla fiancata (utilissima però a Singapore dove Bompani aveva una filiale), a bagnarsi tra le onde dell’Oceano Indiano. Non credo abbiano gridato come nell’Anabasi di Xenofonte: Thalassa! Thalassa! (il mare! il mare!) come se avessero trovato la salvezza o la meta. Magari avranno detto solo, alla modenese: Che togo! Ma sapevano di non essere arrivati. Tanto per dire erano solo a metà. E loro non erano più quelli che erano partiti. C’era da tornare indietro. E sarebbe stato un altro viaggio.

(Roberto Serio, Ufficio Stampa del Comune di Modena)

Articoli di Giò Barbieri

Subscribe
Get updates on the Meer