Tra i film in lingua italiana in proiezione oggi nei cinema del centro di Mogadiscio c’è Ciackmull, l’uomo della vendetta e Maciste, nella valle del re del 1960 e questo ci fa capire quanto la gente non sia aggiornata sull’offerta cinematografica attuale e sia orientata verso il genere maschile più immaturo e violento. Tutti vanno al cinema alle 18,30 dove fa tendenza sedersi in galleria al costo di 3 scellini (mezzo dollaro). Della serie di cinema presenti a Mogadiscio, l’edificio in stucco bianco del cinema Hamar rimane il più bello e prestigioso, il preferito dai somali benestanti per i suoi sedili imbottiti posti su un piano inclinato verso l’alto, sia in platea che in galleria. Il film viene sempre introdotto dall’inno nazionale che si ascolta in piedi, mentre sullo schermo sventola la bandiera azzurra somala con al centro una stella bianca a cinque punte.
Come quasi ogni sera Aldo ed io passiamo dal Giuba a salutare le amiche le quali ci riferiscono che Amina, Fortuna e Fossia (“Bretella”) sono state arrestate per avere litigato con alcuni arabi e forse questa volta le terranno in prigione un paio di mesi. Si presenta Julia, un’italiana nera di 17 anni, figlia del colonnello Benedetti, ben curata e dai modi eleganti, libera e brillante e ne resto folgorato: è la prima che mi piace davvero. Ha vissuto tre anni a Roma e il suo italiano è perfetto. I genitori sono proprietari terrieri nel Sud della Somalia, la loro azienda si trova a Giamama sul fiume Giuba, località a 10 km da Kisimaio.
Tra noi nasce subito una grande intesa che ci induce ad aggirarci abbracciati per le vie di Mogadiscio, sempre attenti a non essere intercettati dalla polizia. È un po’ come giocare a nascondino. Ci rifugiamo nel parchetto attorno all’Arco Umberto di Savoia e, seduti al fresco della brezza marina, ascolto assorto tratti del suo vissuto: “A 15 anni hanno scoperto che facevo l’amore con l’autista di famiglia, è successo uno scandalo e sono scappata di casa. In due giorni di bus nel deserto sono arrivata a Merca, dove ho trovato lavoro come governante. Per tre mesi ho dormito per terra nell’androne di un cinema e al mattino mi lavavo con l’acqua del mare”. Mi confida di essere innamorata di un italiano di 42 anni sposato, un dirigente di qualche grossa azienda e ammette che ogni tanto stanno assieme ma lamenta di non essere corrisposta. Nel buio che ci circonda, in un cielo ricoperto da una Via Lattea splendente, Julia mi indica la costellazione della Croce del Sud e allunghiamo le braccia assieme come per toccarla. Poi, alle 3 di notte, si rompe l’incantesimo: la polizia ci scova e ci divide.
Il giorno dopo, assieme alla cuginetta, Julia offre la cena a me ed Aldo al Trocadero, il ristorante all’interno dell’albergo Croce del Sud, poi ci saluta per andare dal suo amore, dandomi però appuntamento per le 2 di notte all’Arco Umberto di Savoia: in pratica mi promuove a “vice amante”. Il giorno dopo tocca a me invitare a pranzo la Benedetti family: Julia, sua madre e la cugina, le quali a loro volta mi invitano per l’indomani ad andare assieme a Merca, distante un centinaio di chilometri a Sud di Mogadiscio, in visita a parenti. Alla sera ceno con Julia, ormai siamo indivisibili e sto guadagnando consensi. Al Trocadero si sta bene, atmosfera serena, si può mangiare all’esterno nel giardino alberato protetto da alte mura o nella sala interna, accanto ad un curioso caminetto maiolicato. I gestori Carlo Alvaro e la moglie Betty lo hanno prelevato nel 1974 da Alessio Caponi, uno chef molto apprezzato in città per le sue meringhe e rullate di cioccolato alla panna.
Alle 8 faccio colazione alla Croce del Sud “in famiglia” e alle 8,30 saliamo tutti sull’auto di zia Genoveffa Benedetti, anch’essa proprietaria di estese piantagioni di banane, pompelmi ed altri frutti, a Giamama. Già il suo nome è un tuffo nel passato, traccia di un vissuto coloniale “dei bei tempi che furono”. A Merca siamo ospiti in una fattoria di cugini, altri “fazendeiros” italiani. Per prima cosa noto che le donne si chiudono in bagno per un tempo lunghissimo ed è Julia a spiegarmi che è un’usanza comune nel Paese: “Quando si entra in una casa è costume somalo accompagnare le donne venute a far visita nel bagno a rinfrescarsi e truccarsi”. E aggiunge ridendo: “Gli uomini anche se puzzano non devono compiere questo rito”. Sono tutti molto ospitali, tranquilli e simpatici, per pranzo fanno servire in veranda delle squisite e fumanti lasagne. Il mangiare delle lasagne così buone, in una piantagione di banane in Somalia, è già di per sé uno sballo.
I convitati sono tutti molto ricchi e da quel che raccontano fanno una vita invidiabile. Lamentano solo l’assurda assenza di mano d’opera per qualche inghippo legislativo e per i salari imposti dal governo. Con la rivoluzione di Siad Barre per loro pare non sia cambiato molto: “Al regime conviene lasciare che i coloni coltivino le terre come sempre perché sa bene che se le confiscasse in poco tempo andrebbero in malora”. Alvaro, un loro cugino, sentenzia: “Qui il bianco ha sempre torto, specialmente quando ha ragione, e il miglior sistema per ottenere giustizia è quello di non chiederla”. Accompagnano Julia e me alla spiaggia e ci lasciano soli per un paio d’ore. Davanti a noi un Oceano Indiano pulito, odoroso di salsedine, immenso e luminoso, con al largo la linea bianca spumeggiante della barriera corallina. A parte qualche pescatore in lontananza la lunga striscia d’arena è deserta e mi tolgo lo sfizio di fare il bagno nudo.
Tornati a Mogadiscio Julia ed io andiamo sempre in giro come due fidanzatini ma Sabrina Palesati, segretaria al consolato italiano, si dice preoccupata per noi: “Anche se Julia è italiana è comunque nera e dovete fare attenzione”. Infatti, come non detto, Aldo ed io portiamo Julia al dancing La Terrazza, il luogo meno indicato, “covo” di rissosi ubriaconi e litigiose sciarmutte (prostitute) capaci però di rendere questo locale intrigante e ricco di vita. Nel ristorante annesso pare inoltre si mangi divinamente. Alcune ci chiamano “mafia” o anche “truffaldi”, il buffo modo per definirci perché non offriamo mai da bere a quella schiera di scroccone, per altre invece siamo i “professori”, solo perché al Lido ci hanno visti usare gli spogliatoi dell’università. Arriva la polizia nel locale per un controllo generale e arrestano Julia, la portano alla centrale essendo senza documenti e in compagnia di due bianchi in questo locale ingiustamente screditato. Tuttavia, è italiana e figlia del colonnello Benedetti quindi, in un paio d’ore, la rilasciano.
Si è spaventata: “Che strizza!”. Dice che le hanno chiesto di noi: “Cosa fanno? Come sono entrati? Come escono?”. La situazione appena vissuta le ha mosso dei ricordi riconducibili alla paura: “Anni fa mi bagnavo nel fiume Giuba a Kisimaio, non sapevo ancora nuotare bene e la corrente mi ha spinto all’interno di un gorgo profondo una decina di metri, mi ha trascinata giù fino al fondo e poi mi ha espulsa all’esterno del gorgo. Quel fiume è anche pieno di coccodrilli”. L’accompagno a casa, una villa alle spalle dell’hotel Giuba. Ci salutiamo teneramente, domani torna a Kisimaio con tutta la famiglia, sappiamo già che non ci rivedremo mai più. Sulla via del ritorno incontro Amina, Fortuna e Fossia contente, sono appena uscite da una settimana trascorsa in prigione.
È il mattino del nostro tredicesimo giorno a Mogadiscio e ci troviamo alla Casa d’Italia a conversare con Beirut, un giovane smilzo educato e ben vestito, di chiara estrazione borghese. Si muove con una Fiat 1100 di famiglia e propone di portarci a vedere il porto nuovo, le oreficerie indiane nel dedalo di viuzze sabbiose di Hamaruèn, il quartiere più antico della città, ed altri luoghi nei dintorni della capitale. Gli bastano però poche centinaia di metri per dichiararsi apertamente omosessuale e allungare le mani sulle parti intime di entrambi in modo nevrotico. È un simpatico gay in calore, esilarante, totalmente incontenibile e fatichiamo a liberarcene. Ma Beirut non si arrende e viene a cercarci anche in hotel, avvilito per il nostro rifiuto. Insiste ad oltranza ma infine se ne va rassegnato.
Puntuali come ogni mattina le donne posano sui marciapiedi i loro cestoni ricolmi di mazzi verdissimi di khat, l’erba dall’azione stimolante, si siedono poi sui propri sgabelli e iniziano a strillare: “Khat fresco, khat fresco”. L’assembramento di clienti è inevitabile. Qualcuno ci fa notare che nelle ore più calde del pomeriggio le strade si svuotano: “Sono tutti a casa a masticare”.
Dopo un paio di bollenti “shaah” (tè speziato) seduti nel locale del buon Ismail a Shingani, entriamo per tagliarci i capelli da Omar, chiacchierone come tutti i barbieri: “Ero in Italia nel 1965, sono stato trattato talmente male, da sporco africano tanto che, una volta tornato in Somalia, mi ero riproposto di uccidere il primo italiano che avessi incontrato”. È un profondo conoscitore della boscaglia, di ogni pianta ed ogni albero: “Ho camminato per migliaia di chilometri nel deserto, da Mogadiscio ad Addis Abeba, mi nutrivo col sangue delle gazzelle che cacciavo lungo la via, un sangue iperproteico e vitaminico”. E aggiunge: “Per chi vive in Italia la vita nel deserto è inimmaginabile, non esistono i soldi, ma solo il baratto, lo scambio merci con dromedari e capretti”. Approfittiamo per conoscere il suo parere sul regime attuale: “Con l’altro governo, prima del 1969, c’era molta corruzione. Ogni notte la gente si ammazzava e derubava a vicenda. Ora è molto meglio, le strade sono tranquille, le scuole e l’assistenza medica sono gratuite per tutti, anche per i più poveri”.
Entra in negozio il socio di Omar e restiamo colpiti dal viso sfregiato dalla zampata di un leone avvenuta una decina di anni prima: “Era un leone vecchio, i più pericolosi, poiché non essendo più in grado di rincorrere la selvaggina ripiegano attaccando qualche capo di bestiame ma soprattutto le donne e i bambini che, per attingere l’acqua o pascolare, si allontanano anche di pochi metri dai villaggi”. Episodi simili sono molto frequenti nella zona di Kisimaio, all’ordine del giorno.
Oggi il vento monsonico Tangamini rende l’aria particolarmente umida. Passeggiamo lungo l’assolata rada del vecchio porto nel quartiere indigeno di Shingani, abbellita dal massiccio faro a pianta ottagonale e dalla fila di case dall’architettura riconducibile alla riviera ligure e al meridione del nostro paese. Qui incontriamo in solitudine e annoiate Mariella, romana di 17 anni, assieme alla piacevole Barni di appena 15 anni, somala di Roma, scappata con la famiglia durante la rivoluzione e tornata a Mogadiscio per la prima volta a trovare alcuni parenti. Sono molto simpatiche ma purtroppo Barni, così giovane, si trova già nel pieno di un down da droga pesante e non sta bene, si “rompe”, visibilmente insofferente a tutto. Ci danno appuntamento per le 18 alla Croce del Sud, sono deliziose ma anche molto introverse, piene di problemi dovuti probabilmente alla giovane età e si fatica a stare in loro compagnia.
È un susseguirsi tale di eventi interessanti che sono spesso costretto ad aggiornare gli appunti sul diario per non dimenticare nulla. Questa sera, ad esempio, dietro il cinema Xamar, assistiamo ad un linciaggio. Una folla di gente con bastoni, pugni e schiaffi colpisce un quarantenne che urla e piange. Il poliziotto presente aiuta la folla sferrando forti colpi nella schiena del malcapitato con il calcio del fucile riducendolo quasi in fin di vita. Quando il poliziotto si accorge che lo stiamo osservando, ci guarda con imbarazzo e vergogna e di colpo si arresta, cercando di metterla addirittura sul ridere. Poi timidamente si allontana lasciando che la folla continui a menare selvaggiamente. Raccontiamo la curiosa reazione del poliziotto all’esperto amico Giuseppe che ci illumina sul motivo: “Ai somali non piace che gli stranieri vedano queste cose, temono che al ritorno in patria le raccontino mettendo in cattiva luce la reputazione dell’intero Paese”.
Ieri sera, mentre ero a conversare seduto sul muretto del dancing Giuba, Aldo è andato con l’amico taxista Adulai, detto “Senza-governo”, a farsi una birra al Terrazza, dove ha vivacemente litigato con una ragazza già brilla, offesa per una consumazione negata. La stessa ha denunciato entrambi alla “polizia di sicurezza”, sostenendo falsamente che abbiamo scattato foto in luoghi proibiti. Senza mai fermarci o chiedere niente, impariamo che a nostra insaputa la polizia oggi ha prelevato i nostri passaporti dall’hotel e chiesto di noi ai clienti, con “grande gioia” del burbero titolare Gurey, che non vede l’ora di metterci alla porta. Verso sera hanno però rimesso i documenti al loro posto senza dire nulla.
Secondo Mohamed, tipografo e giornalista del quotidiano Stella d’Ottobre, l’organo ufficiale del governo rivoluzionario, adesso la polizia comincerà a pedinarci, come fossimo spie: “Probabilmente vi aspettano all’aeroporto per controllare bagagli, rullini, diari e carta di cambio”, augurandoci che non ci facciano perdere il volo. Il giorno della partenza sarà utile presentarsi in largo anticipo. Oppure, suggerisce l’amico giornalista: “Uscite dal Paese via terra o via mare, evitando l’aeroporto”. Mohamed, fervente comunista impegnato in politica, ci tiene a dimostrarci la sua amicizia. Ci sorprende quando sottovoce, in sordina per non farsi sentire, esprime il suo malcontento verso i membri del regime: “In questi ultimi anni, specialmente con la guerra in Etiopia, i pezzi grossi del partito si sono arricchiti, di colpo hanno comprato grosse auto e ville lussuose ma il sistema è ben saldo e non c’è modo di ribellarsi – si sono arricchiti coi soldi del popolo. Guai a parlare”.
Sono le stesse cose già sentite da Giuseppe e che serpeggiano un po’ dovunque, ma espresse da un giornalista sostenitore del governo, assumono una dimensione diversa ed incauta e ci stupiamo per la fiducia riposta in noi. Ci confida pure la serie di libri e opuscoli italiani stampati in tipografia e pagati dall’ambasciata su cose e fatti non veri, a scopo di propaganda. Mohamed è una persona seria, osserva con interesse il nostro modo di apprendere viaggiando e vorrebbe farci un’intervista da pubblicare sul quotidiano locale.
Facciamo colazione con pizzette e bomboloni siciliani nel profumato forno che si trova esattamente accanto all’entrata del dancing La Terrazza, entrambi gestiti da Anna Azan, assieme al cugino Gigi Azan e allo zio Beppuccio, impiegato al consolato. Sul banco non mancano neppure i friabili e delicati “icun” (in somalo “mangiami”), biscotti di burro, farina e zucchero velo aromatizzati con polvere di cardamomo, una spezia della famiglia dello zenzero. Qui incontriamo Gigetto Della Casa, l’archivista romano dell’ambasciata italiana il quale ci intrattiene a lungo sul vissuto ed il carattere intraprendente di Anna Azan con tono ammirato: “Suo padre fu ucciso in quella caccia ai coloni italiani del 1948, fomentata dagli inglesi, quando aveva solo 6 anni. Adesso è la compagna del celebre documentarista Folco Quilici, il grande regista, scrittore e fotografo attivo nella divulgazione naturalistica. Una bella coppia, entrambi molto innamorati”. Resto piacevolmente sorpreso, conosco bene i lavori di Folco Quilici, assieme a quelli di Walter Bonatti: i due esploratori italiani che mi hanno ispirato verso i grandi viaggi.
Gigetto ci invita a casa sua nel pomeriggio per fare due chiacchiere con amici davanti ad un whisky e noi siamo puntuali. È un cordiale ed estroverso 48enne che convive con Sada, una bella somala ventenne. Vorrebbero sposarsi ma Sada racconta che sta “uscendo pazza” perché ha tutti contro, vittima di ricatti e minacce da parte di parenti e della polizia, nessuno vuole che si sposi con un bianco, l’accusano di rovinare la razza e la religione. Alla Casa d’Italia ci sono molti bambini mulatti avuti da matrimoni misti e Gigetto interviene a riguardo: “È ciò che il governo non vuole, vietando alle somale di girare o anche solo parlare con i bianchi. La polizia è dovunque per dividerli”. Da diplomatico sente però l’obbligo di spiegare una delle tante contraddizioni di questo Paese: “Tuttavia, in grande maggioranza ai somali piacciono gli italiani: è brava gente e ci vogliono bene”. Spiega che tutti i giorni vengono arrestati sia donne che uomini: “Ma poi li mollano subito”. E chiude ironico: “Quando non li fucilano”.
Gigetto ha invitato anche alcuni marinai della nave italiana R.Emme (Robertoemme) della linea Messina per parlottare in merito a qualche trasporto di favore e noi approfittiamo per rivelare la storia della denuncia alla polizia per le fotografie, confessando il timore che all’uscita dal Paese ci vengano sequestrati i rullini. Sono ormai 23 giorni che siamo in Somalia, tra una settimana ci scade il visto e Pasquale, il cuoco somalo della nave che abita a Livorno, si offre di aiutarci prendendo lui in consegna i rullini da restituirci in uno dei prossimi scali, come Mombasa, Dar es Salam o Durban in Sudafrica, le stesse nostre destinazioni.
Usciti da casa di Gigetto e Sada, passiamo dall’hotel e facciamo l’autostop per portare i rullini al porto. Ormai non usiamo più i taxi, in qualsiasi punto ci troviamo e a qualsiasi ora del giorno e della notte basta fare segno alla prima macchina che passa e quasi sempre si ferma. In questo caso è un signore in Fiat 600: “Vi carico perché vedo che siete ‘dei nostri’ e non quei fantasmi bianchi che alloggiano nel lusso dell’Uruba hotel”. Si chiama Alì ed è un professore somalo pachistano che parla bene italiano e inglese ma anche un po’ pedante. Confessa di essere un ex fanatico religioso, che ha rivisto il proprio credo grazie al socialismo scientifico di Siad Barre, al punto che giunti al porto ci offre una birra curioso di confrontarsi su alcuni punti di vista riguardo alla vita in generale. Consegno il sacchetto contenente una decina di rullini fotografici a Pasquale, mi piange il cuore ma devo farlo per evitare problemi con la polizia, certo di riaverli a costo di andare a casa sua in Toscana. A questo punto, consideriamo che l’ideale per noi sarebbe lasciare anche noi la Somalia via mare.
Già alle 7 del giorno dopo siamo di nuovo sulla R.Emme a chiedere la possibilità di un passaggio per Mombasa ma il capitano, descritto come uomo burbero e poco amabile, fa sapere che rifiuta il permesso senza neppure vederci. Entriamo all’agenzia Somali Shipping dal responsabile Ahmed Jamar, bravissimo e dispiaciuto: “Se fosse una nave somala non avreste problemi ad avere il passaggio, anche gratis”. Alla R.Emme invece non hanno mai fatto un ticket per passeggeri e non sanno come valutare la cosa.
Alle 14 andiamo allora a cercare di coinvolgere la dottoressa Sabrina Palesati, consci che non ci nega mai niente, la quale scrive una lettera del consolato in nostro favore da presentare al capitano. Alle 18, grazie alla lettera, il capitano dà il consenso ma non ha idea del prezzo. Per timore di rimetterci spara delle cifre altissime, a partire da 290 mila lire per poi calare fino a 100 dollari a testa, comunque molti per un giorno di mare. Costa meno l’aereo. Alla fine troviamo un accordo e ci informano che la nave parte domani all’alba.
Bisogna cercare di andare a letto presto perché dovremmo alzarci alle 5, ma Aldo decide ugualmente di andare “un attimo” al Terrazza da Fortuna. Va poi in giro con l’amico taxista Adulai e torna in hotel alle 2,30 completamente cotto. Alle 5 Aldo non reagisce e vado da solo al porto con la speranza che si presenti per tempo ma lo attendiamo tutti invano. Il capitano aspetta noi per togliere le ancore e partire. Il programma salta. Abbiamo fatto tanto per riuscire a partire con questa nave e adesso siamo noi ad eluderla. Sono tentato di salire sulla nave, tuttavia, oggi è il giorno di Pasqua e non posso lasciare Aldo solo perché per lui il viaggio in solitudine sarebbe un enorme calvario.