Sabato 16 giugno
Il volo delle 11 da Johannesburg della South Africa Airways ci porta in poco meno di due ore a Blantyre, la città più antica del paese sulle sponde del fiume Shire, nella parte meridionale del Malawi. Una nazione notoriamente reazionaria, guidata da un’ala paramilitare che la governa in uno stato di regime autoritario. Lo si avverte subito, da mille dettagli. L’aeroporto è tappezzato da avvisi, a caratteri cubitali, che proibiscono l’ingresso nel Paese a comunisti, hippy e capelloni vari. Speriamo non creino problemi per i nostri visti sul passaporto di paesi socialisti, come Somalia e Madagascar. Sull’aereo, per fare buona impressione, prima dell’atterraggio ci mettiamo gli abiti della domenica, nonostante ciò, alla dogana bloccano Valentina perché è una donna e indossa i pantaloni.
L’accompagnano in toilette, si mette una gonna e solo così ci timbrano l’ingresso in Malawi sul passaporto. Adesso la cosa che più ci preoccupa è come gestire i pochi soldi rimasti, circa 450 dollari a testa. Alla banca del terminal cambiamo il minimo indispensabile: la moneta locale si chiama “kwacha”, suddivisa in cento “tomba”. Ogni dollaro equivale a 0.81 tomba. Il bus ci conduce in downtown Blantyre, seconda città del paese ma considerata la capitale economica ed industriale del Malawi, opposta alla capitale politica di Lilongue. Il Malawi è un piccolo paese senza sbocchi sul mare che si allunga per quasi mille chilometri lungo la Rift Valley ed è dominato dall’omonimo lago, che segna buona parte del confine orientale con la Tanzania e il Mozambico.
Vediamo il Ryalls ed il Mount Soche, i due hotel più esclusivi preferiti dagli occidentali, facciamo colazione alla caffetteria del Travelling Resthouse e alloggiamo al Zomba Guest House per 1,75k a testa, il più economico, collocato leggermente fuori dal centro. Nonostante per la legge locale occorrano i documenti di matrimonio per consentire ad un uomo ed una donna di dormire nella stessa camera, i titolari dell’albergo non si oppongono. Alla guest-house conosciamo Boris, pilota di aerei leggeri sudafricano, che ci racconta delle sue esperienze.
Sostiene che la zona di Maun in Botswana, dove non siamo riusciti ad arrivare noi a causa della pista impraticabile, è la più bella, la più ricca di fauna e la più selvaggia di tutta l’Africa. E continua entusiasta da farci sentire in colpa per non esserci arrivati: “Maun è un posto da sogno, animali dovunque, liberi, fuori dai parchi. A dieci chilometri da Maun c’è il Crocodile Camp, dove si possono noleggiare barche per girare le paludi.
Molti cacciatori vanno a Maun in caccia di trofei”. Racconta che i boscimani usano ubriacarsi con la palma Malala, basta tagliarne la corteccia ed esce l’alcol. È comunque una zona infetta e all’uscita da Maun ci sono due blocchi per disinfettare sia le auto che i passeggeri. Secondo Boris, con un pulmino come il nostro abbiamo sbagliato a scegliere di raggiungere Maun dalla Namibia, per quella pista occorre un camion: “La via da Francistown, ad est, per voi sarebbe stata molto meglio”. Lo avevamo capito pure noi ma forse è stato meglio così: con la fine che ha fatto il pulmino avremmo rischiato di lasciarlo in Botswana.
Boris è un fiume di parole inarrestabile che dalle meraviglie della natura passa a parlare di politica, stimolato anche dalle domande di tre italiani inesperti, disposti ad ascoltarlo e a stupirsi: “Il Malawi, come Botswana, Zambia e Lesotho, dipendono dal cibo e dal petrolio dal Sudafrica. Se il Sudafrica gli taglia i ponti dei rifornimenti loro muoiono. Ci ricambiano invece mandando guerriglieri perché vogliono prendersi il Sudafrica. L’Apartheid è solo una scusa, loro vogliono il potere economico del Sudafrica. La Russia finanzia e sostiene i terroristi e se la Russia prende anche il Sudafrica diventa potentissima. Il nostro esercito è molto forte ma i terroristi sono dovunque ed è troppo difficile vincere.
Tra una decina d’anni può darsi che il Sudafrica debba arrendersi. I russi sono comunque bianchi, come noi, e per i neri africani con i russi al comando sarebbe molto peggio di oggi”. E aggiunge con rammarico, sconsolato: “I’m sorry for my country. I was born here”.
Piove, tira vento e fa freddo, e noi che credevamo di andare al caldo. Mangiamo una pizza orribile al ristorante del Mount Soche, in Glyn Jones Road, in compenso il gestore ci fornisce buone informazioni sui luoghi da visitare. In primis Zomba e il lago Malawi. Dice che l’autostop per dei bianchi è facile, tuttavia l’autobus per il lago parte ogni giorno alle 6 dal Bus Terminal che si trova di fronte alla nostra guest-house.
Domenica 17 giugno
Per andare al lago avremmo dovuto alzarci alle 5 ma rinunciamo, causa stanchezza ed altre cose da sistemare prima. Torniamo al Mount Soche per fare breakfast; tutti sanno che qui la colazione è buona e costa poco, mentre pranzo e cena sono costosi. Diversi negozi vendono artigianato locale, come maschere in legno, giochi costruiti col fil di ferro ed anche grandi collane in avorio a prezzi irrisori. Per la vendita dell’avorio, qui legale, gli artigiani lamentano i 27k per ogni chilo che il governo fa loro pagare per averlo. La gente è di tendenza umile, timida e per lo più abituata al servilismo; quando si rilassa mostra anche un piacevole lato estroverso e vivace.
Non c’è turismo e qui è tutto ancora molto naturale e autentico. La maggioranza della popolazione è costituita da neri africani, divisi in diverse etnie, con i Chewa che rappresentano il gruppo dominante. È loro anche la lingua nazionale, la più diffusa in tutto il paese. Ufficialmente la scoperta del lago Malawi (Yao, in lingua chewa) e delle zone circostanti è attribuita a David Livingstone nel 1859. Nonostante il Malawi sia stato un protettorato britannico, dal 1891 al 1964, la presenza di residenti bianchi nel paese non è così numerosa.
È domenica, giorno di festa anche in Malawi, ma l’agenzia di viaggi al mattino è ugualmente aperta e prenotiamo il volo di martedì 26 giugno per Lusaka, tra dieci giorni. Il volo per Lusaka c’è tutti i giorni, ma noi intendiamo fare solo il transito in Zambia ed il martedì è l’unico giorno che da Lusaka si vola a Douala, in Camerun, nostra successiva destinazione. Una sosta di 8-9 ore sarà sufficiente per vedere l’aria che tira nella malfamata capitale dello Zambia, abitata da gente nota per la loro avversione verso tutti i bianchi, in generale.
Il tempo persiste inclemente e la domenica in città è noiosa, senza nulla di interessante da vedere, così decidiamo di provare a fare l’autostop per raggiungere Mangochi, cittadina sul lago distante 190km, passando per Zomba, la prima capitale del Malawi fino al 1974 e attuale sede del parlamento. Alle 11 ci mettiamo sulla strada con il pollice alzato, la costanza e lo spirito di sacrificio ci fa avanzare di appena cinque miglia, fino al villaggio di Limbe, e niente più. Piove, fa freddo e siamo bloccati da tre ore senza che nessuno ci carichi, siano essi bianchi o neri: non si capisce se per timore o per timidezza. Per fortuna che secondo alcuni “l’autostop per dei bianchi è facile”. Esperimento fallito, torniamo mesti a Blantyre e ci buttiamo nel commercio spicciolo.
Andiamo alla guest-house e facciamo ritorno in centro con un paio di borse piene di cose da barattare con oggetti locali d’artigianato vario da spedire in Italia. I negozi di Blantyre sono forniti di artefatti stupendi, unici, difficili da trovare altrove. Questo perché il Malawi è un Paese isolato, senza sbocchi sul mare: qui manca ogni cosa e tutti chiedono di tutto. Il negozio più ampio e fornito è quello dell’estroverso Wishes Coston, già conosciuto al Mount Soche hotel, dal quale, per una stecca di sigarette Lucky Strike, acquistate sull’aereo, ed un paio di scarpe comprate alle Mauritius, ottengo in cambio: 4 maschere in legno, 4 ciondoli in avorio, 2 statue ed un animale anch’essi scolpiti in legno.
Nella colorita e divertente contrattazione, per una originale collana a palle, sempre in legno, il titolare del negozio accanto, di nome Obama, accetta i miei 30 scellini della Tanzania, che non ho cambiato, ed una randa sudafricana in monetine di metallo. Le maschere, chiamate “vinyawu”, sono quelle lavorate meglio e diverse dalle solite viste finora, poiché provengono da villaggi di tribù solitarie e poco note. Per gli amanti del genere il Malawi è una miniera d’oro. Domani torniamo per contrattare con altre cose.
Sulla via del ritorno in albergo incontriamo di nuovo Wishes. E’ ubriaco, un po' pesante, ma anche simpatico: “I’m not losing my time, I know what I’m doing, If I help friends I help myself ... this is what God said and this is Malawi”. Wishes conferma che il popolo del Malawi è molto passionale e, come ci avevano già detto prima di venirci, questo è un Paese abitato da gente davvero “calda”, definita per questo motivo “hot country” ed anche “il cuore dell’Africa”. Tuttavia, afferma che è proibito parlare di politica e del governo, di estrema destra, e consiglia di fare attenzione in tal senso.
Lunedì 18 giugno
Ci rechiamo subito in banca ma le uniche presenti nel Malawi sono la National e la Commercial, quest’ultima per fortuna ha inserito la Thomas Cook nei loro rapporti, importante per sollecitare il rimborso dei travellers cheque dichiarati smarriti da Aldo in Egitto. Per seconda cosa, ci tuffiamo per ore nel gioco del business interrotto ieri. Valentina cede il suo piccolo mangianastri Panasonic per 3 collane in avorio a palle lisce ed una a palle lavorate. Nel mio caso, ottengo una collana in avorio per 5 pacchetti di sigarette ed uno speaker da radio. Un'altra collana simile ma meno bella, Wishes me la cede per 100 scellini della Tanzania, da me conservati come souvenir. Ancora due pacchetti di sigarette per una statua rozza alta 50 cm, raffigurante un indigeno che sta in piedi. Belle maschere grintose a prezzi eccezionali, che variano da 2 a 20 dollari. Questo perché in Malawi non c’è turismo e lo standard di vita è molto basso. Nei villaggi dell’interno costano ovviamente tanto meno.
Girare con un’auto a nolo per i villaggi dell’interno si possono trovare oggetti da museo per poca spesa. Per ridere, ipotizziamo di tornare in Malawi non con del denaro, ma con valigie piene di vestiti, scarpe, radioline e cose simili. Il motivo è semplice, gli oggetti d’artigianato locale, per noi vere opere d’arte, qui non hanno valore e le puoi avere a prezzi irrisori, mentre tutti i prodotti occidentali esposti nei negozi sono ambiti e molto cari, in modo sproporzionato per lo standard di vita locale. Per un frigorifero chiedono l’equivalente di 1200 dollari e per una stufa elettrica a quattro fuochi ben 800. Pura follia!
Avorio e maschere a parte, gli oggetti però per noi più affascinanti e preziosi, sono quelli costruiti dai bambini col fil di ferro, grosse auto di circa quaranta centimetri e pupazzi meccanizzati che girano guidati da un volante. Acquisto quattro pezzi in fil di ferro, compreso una Volkswagen maggiolino e dei musicisti. Da altri prendo un camioncino con ruote ricavato da un flacone di plastica del talco Johnson & Johnson ed una stupenda borsetta usata normalmente dalle donne nelle passeggiate, ricavata da quattro lattine di birra saldate assieme, col coperchio, il gancio di chiusura ed il manico ritagliati su misura, tutto in latta. Vere opere d’arte, una meraviglia!
Ciascuno di noi tre ha accumulato un borsone di oggetti da spedire in Italia. Alla posta centrale, valutato i vari costi in base al peso, scelgo il pacco da 19 Pound che equivale a 8,600kg. e costa 14 dollari. Non c’è il servizio via aerea ma solo via mare passando prima via terra dal Sudafrica, da dove la nave in tre mesi raggiungerà l’Italia. Per confezionare il pacco, è obbligatorio andare dai sarti dietro la posta che danno cartone e corda gratis ma occorre acquistare da loro due yarde di tela e il servizio del sarto che cucendole su misura riveste e rinforza il pacco. Eseguiamo tutto con ordine. Alla posta non ci sono i telefoni, si riesce a chiamare l’Italia solo dal Mount Soche Hotel, ma è un servizio riservato ai soli clienti. Alla reception, abbiamo rotto e insistito a tal punto che, pur non essendo clienti ci concedono di telefonare, tuttavia la centralinista ci dice che il “collect call”, pagamento al destinatario, è consentito verso la Gran Bretagna ed altri paesi ma non per l’Italia.
All’uscita incontro Wishes che vorrebbe indietro la collana perché non riesce a cambiare gli scellini della Tanzania ma ormai il pacco è spedito e “la merce non si restituisce”.
Ci gustiamo un fish and chips con pesce di lago, birra e caffè americano. Per il mangiare, in Malawi si vive con 1k al giorno, poco più di un dollaro. Col passare delle ore sempre più prendiamo atto dell’assoluta beata semplicità di questa gente, in buona parte cattolici bigotti ferventi. Lo testimoniano anche le gambe nude delle donne sulle riviste occidentali, come ad esempio Vogue, coperte con uno stick nero. Sebbene molti pratichino culti animisti, la maggior parte della popolazione si dichiara cristiana, con una maggioranza di protestanti e una minoranza di cattolici.
La comunità musulmana non è numerosa ed è localizzata soprattutto al nord del Paese e sulle sponde del lago Malawi. Una piccola minoranza pratica anche il rasta, religione monoteista che si considera erede del cristianesimo. Quest’ultimi sono più spavaldi sul genere easy people alla giamaicana. Una via del centro di Blantyre è dedicata al suo fondatore Hailé Selassié, l’imperatore d’Etiopia incoronato nel 1930 e morto nel 1974, ritenuto dai fedeli una manifestazione di Dio in terra.
Nel sociale, gran parte della popolazione è legata alla tradizione tribale maschilista: girare abbracciati, come a volte capita con Valentina, crea curiosità e ilarità nella gente, un po' come succedeva in Papua Nuova Guinea. Anche qui l’uomo paga una somma ai genitori di lei per poterla sposare, ed anche qui l’uomo cammina davanti e le donne lo seguono dietro con pacchi sulla testa e i figli legati nella schiena. D'altronde, la riflessione sorge spontanea, fino ai primi del Novecento anche in Italia marito e moglie facevano figli a raffica senza mai darsi neppure un bacio.