A Portofino i vacanzieri arrivano da tutto il mondo. Ci vengono nei mesi estivi. Giungendovi via mare, la bellezza della baia li ammalia. Ne ammirano lo skyline dell’ubertoso quanto scosceso promontorio che, modellato dai venti e proteso in acque incredibilmente terse, separa i golfi Paradiso e Tigullio, sovrastando il colorito borgo di pescatori divenuto meta esclusiva del jet set internazionale.
Per chi abita queste rive il Monte di Portofino è un riferimento costante, un angolo di mondo dove il passato più antico e il presente convivono in un armonico mosaico di coltivi, giardini e boschi, contribuendo a trasformare questa terra selvaggia e segreta in un museo a cielo aperto, tutelato dall’Ente Parco di Portofino.
Nel Medioevo il ristretto e isolato spazio del promontorio -o, più correttamente- Capite Montis- circondato per buona parte del suo perimetro dal mare e toccato solo marginalmente dalle vie di comunicazione, fu sede di importante un’isola spirituale, tuttora tangibile nella presenza di cinque complessi monumentali, differenti per dimensioni, esistenze e impatto sull’ambiente circostante.
Porta d’accesso al Monte è il valico di Ruta, incrocio di viabilità remote e quindi di contatti precoci e continui. Qui convergono quattro tracciati, sviluppatisi dalla Preistoria all’Età Moderna e qui, non a caso, troviamo la chiesa di San Michele de Ruga che, conosciuta con l’evocativo nome di Millenaria, probabilmente risale all’epoca longobarda.
Impossibile non notarne la grezza facciata a capanna. Lasciato l’abitato di Camogli curva dopo curva la sua sagoma ci appare sulla sinistra, ornata da alberi secolari.
Un tempo quest’architettura, innalzata come edificio rurale al servizio di case sparse e documentata dal 1192, si ergeva in posizione strategica sulla strada di Bana.
Oggi il tempietto, immerso in un incantevole panorama, rappresenta una chiesa de via, ossia un luogo di culto collegato alla via pubblica che corre lungo il litorale, ricalcando la strada romana Aurelia nova/Aemilia Scauri.
Di modeste dimensioni, esso possiede una bella abside, costruita da maestranze antelamiche utilizzando un ambiente preesistente, e un leggiadro campanile che, anche se più tardo (XV secolo), risponde nel volume e nella forma ad aula unica, -a cui nel ‘400 se ne aggiunse una seconda-, alle esigenze connesse ai posti di transito. Tale vocazione è pure ribadita dalla presenza di un hospitale adiacente all’edificio cultuale e indicato dal 1191.
Alquanto diverso l’aspetto della chiesa di San Nicolò di Capodimonte, dedicata al vescovo di Mira, san Nicola, vissuto fra il III e il IV secolo e ritenuto il protettore di naviganti, pellegrini e pescatori.
Il tempietto, citato per la prima volta in un atto notarile del 1141, si raggiunge imboccando una crêuza, un sinuoso viottolo ligure diretto al mare e a Punta Chiappa.
A erigerlo nella parte del Monte anticamente chiamata Fravega furono i canonici regolari di San Rufo.
Avvolti dall’intenso profumo della macchia mediterranea ne osserviamo la tipologia costruttiva che, dovuta al susseguirsi di tre distinte fasi edilizie sviluppatesi da un primo nucleo identificabile nel transetto a monte e nell’abside maggiore, restituisce una chiesa dall’impianto triabsidato, a una sola navata e dalla forma a tau.
Invece Paraggi, dalla parte opposta del promontorio, è il punto di partenza del cammino per l’eremo di Sant’Antonio di Niasca. Nel 1318 nel romitorio risiedevano tre uomini, nelle fonti d’archivio tre fratres, che si consociarono per dedicarsi al servizio di Dio mettendo in comune i propri beni, tra cui quest’ecclesiola, adatta alla vita ritirata, poiché sita in una zona ben soleggiata, ricca di corsi d’acqua e terre da coltivare.
Agli inizi del XIV secolo i beni di Sant’Antonio divennero proprietà dell’abbazia di San Gerolamo della Cervara, che li gestì fino al 1798.
Il manufatto non conserva quasi nulla dell’originaria facies architettonica. La sua dinamica edilizia, però, contraddistinta da usi differenti delle strutture, si è protratta fino al XIX secolo.
Dei cinque complessi monumentali che punteggiano il promontorio l’abbazia di San Fruttuoso di Capodimonte, nel 1983 ceduta dalla famiglia Doria Pamphilj al FAI, Fondo Ambiente Italiano, è quello più conosciuto e visitato.
Ci si arriva a piedi, scegliendo cammini più o meni difficoltosi, o via mare. All’origine della sua fondazione vi è la Translatio delle reliquie del martire Fruttuoso e dei suoi diaconi Augurio ed Eulogio. Il documento narra che in seguito alla conquista araba di Tarragona, avvenuta nel 711-714, alcuni profughi guidati dal vescovo Prospero siano approdati nell’insenatura di Capite Montis, oggi nota come San Fruttuoso, e abbiano creato una piccola cellula monastica. Impossibile non rimanere meravigliati dal fascino della lunga facciata duecentesca del monastero.
La fronte, simile ai coevi palazzi civili commissionati dal ceto dirigente genovese, affaccia col suo loggiato e le sue eleganti bifore su una minuscola spiaggia, bagnata da un mare dalle infinite sfumature dell’azzurro, del turchese, del verde e protetta dalla statua del Cristo degli abissi, posata nelle acque a 17 metri di profondità.
Altrettanto originale appare la torre nolare. Considerata un unicum nel territorio controllato da Genova, si erge sopra una sorgente d’acqua perenne e domina l’esterno della chiesa, posta parallelamente alla linea di costa, a lato del monastero.
L’impianto basilicale, a tre navate articolate attorno a un piccolo chiostro disposto su due piani, poggia su una piattaforma ad archi ed è distribuito su livelli differenti.
Infatti la navata maggiore e la minore con la sua abside a sud risultano più basse di circa tre metri rispetto alla navata minore nord e all’area presbiteriale. Inoltre lo spazio interno, in osservanza delle regole dettate dalla Riforma gregoriana, è separato all’altezza della terza campata da un alto muro, che isola la porzione della nave maggiore.
Nel 1361, a distanza di un centinaio d’anni dalla duecentesca abbazia di San Fruttuoso, fu il cappellano di Santo Stefano di Genova Lanfranco di Ottone, con il supporto dell’arcivescovo di Genova Guido Sette, a scegliere ancora il promontorio di Portofino per erigervi l’abbazia di San Gerolamo della Cervara (da Cervaria/Servaria/Sylvaria/Cervaea= silvestre).
Conosciuto anche come San Gerolamo della Sylvaria o Cervara questo istituto sacro, in origine abbazia benedettina cassinese e ora struttura a gestione privata destinata ad accogliere eventi di rilievo, si trova in posizione appartata rispetto agli abitati, non lontano dalla baia di Portofino, ritenuta un approdo sicuro fra Genova e Portovenere.
Nel ‘400 la Cervara era una vera potenza economica. Possedeva tante terre, incassava l’affitto di numerose case, investiva nei luoghi del Banco di San Giorgio e assemblava una decina di comunità religiose oltre che nel Genovesato, anche in Lombardia, Emilia, Piemonte.
Il suo prestigio e il pericolo di incursioni corsare motivano l’ampliamento del chiostro, la costruzione di altre sei cappelle nella chiesa e la creazione di un sistema di fortificazione con un punto di guardia sullo scalo.
L’abbazia, visitata da Alessandro Piccolomini e Francesco Petrarca, ospitò anche santa Caterina da Siena e il re di Francia Francesco I, prigioniero di Carlo V dopo la sconfitta nella battaglia di Pavia (1525).
Minacciata dalle incursioni barbaresche nel ‘500, abbandonata con la soppressione delle congregazioni religiose nel 1789, occupata dai certosini di Mougères e Montrieux fino al 1937, fu infine venduta a privati. I lavori di restauro risalgono al 1990.
Nonostante il referente sia sempre il capoluogo ligure, il monastero si distingue dagli altri monumenti esistenti sul Monte sia cronologicamente che culturalmente.
Nella chiesa a tre navate, divise da colonne a rocchi bianchi e neri e capitelli in pietra a crochet, lo spazio centrale è scandito da una serie di campate, che conducono verso il catino absidale con un’inedita copertura a ombrello.
A costituire il file rouge tra la Millenaria, la chiesa di San Nicolò di Capodimonte e l’eremo di Sant’Antonio di Niasca appartenenti a una cultura architettonica cosiddetta bassa e i complessi abbaziali di San Fruttuoso e della Cervara, vertici di una contigua cultura architettonica alta è il paesaggio, forgiato, plasmato dalla fatica e dalla tensione contemplativa di generazioni e generazioni di monaci, testimoni di una vivace esperienza religiosa che nei secoli X-XIV unì eremitismo e apertura al mondo.