Da Khartum, in meno di due ore di volo atterriamo a Sana’a, capitale dello Yemen del Nord. Sull’aereo c’è pure il console yemenita che ci ha concesso il visto: è ubriaco e simpatico. Sono le 6 del mattino, siamo ad un’ora avanti dal Sudan e due dall’Italia. Dall’aeroporto non ci sono servizi per il centro ma solo taxi al prezzo di 12 dollari, da dividere comunque in tre, poiché lo spagnolo Francisco è sempre con noi. Prima di salire sul taxi, Aldo chiede informazione ad un sudanese che, in viaggio con noi sull’aereo, lavora ed abita nella capitale. Gentilissimo, come tutti i sudanesi, in auto ci accompagna prima a casa sua per un “leben chay”, tè al latte, e dopo incarica un giovane di nome Alì a portarci in centro a cercare per noi una locanda economica.
Colpo di fortuna insperato perché abbiamo appena trascorso la notte in bianco e siamo “fusi” dalla stanchezza. Le locande, cosiddette economiche, sono super lerce e costano un minimo di 7-10 dollari a letto, ed oltre. Come disse lo stesso console dell’ambasciata nord yemenita a Khartum, le locande popolari si trovano in gran numero attorno a Bab al-Yemen, ovvero la porta dello Yemen, ma noi le troviamo tutte piene o forse preferiscono non avere degli occidentali tra i piedi. Troviamo posto in una locanda “fetida” di nome al-Kher, vicino a piazza at-Tahrir Medan. Ci concedono di sistemarci in tre in una camera doppia per tre dollari a testa: lo Yemen è più caro del Sudan. La città però è bellissima!
Situata su di un vasto e fresco altipiano di oltre duemila metri, la capitale è cinta da mura color ocra che racchiudono i tipici palazzi a più piani ed è divisa al suo interno in tre quartieri: arabo, turco ed ebraico. Nell’impatto con la gente del luogo, la prima sensazione è quella di persone molto introverse e poco inclini a socializzare, percezione che si rivelerà sbagliata. Sana’a è una città entusiasmante che vive una quotidianità dai ritmi lenti e costanti ed è impreziosita da architetture uniche al mondo grazie a straordinari capolavori di rara bellezza. Non ci sono turisti. Arrivare fin qui è complicato, ma ne vale certamente la pena. Affascinati dalla sua singolarità, definiamo lo Yemen il “Nepal del mondo arabo”, o anche il “Tibet Arabo”, forse ancora più appropriato.
Comprendiamo ora le scelte di Pier Paolo Pasolini che girò a Sana’a alcune scene dei film “Il Decamerone” e “Il fiore delle Mille e una notte”. Infine, colpito dalle bellezze della città, iniziò a girare un documentario destinato all’UNESCO perché Sana’a fosse dichiarata patrimonio dell’umanità.
Ci inoltriamo con curiosità per viverne le sfaccettature, le palesi contraddizioni, i cosiddetti pro e i contro, secondo la nostra cultura ed i nostri personali e limitati parametri di valutazione. Le strade e le piazze, tutte in terra battuta, sono affollate da uomini con la barbetta, giacca ed ampie e lunghe sottane che mostrano fieri il loro tipico coltello-pugnale ricurvo, tenuto in cintura ma non mostrano segni di particolare interesse perché siamo stranieri, anzi, non ci considerano proprio. Se però chiediamo un’informazione rispondono con gentilezza ed anche l’autostop è facile come lo era a Khartum. Gli uomini si salutano baciandosi le mani a vicenda, portandole all’altezza della bocca. Le donne, invece, sono completamente avvolte da tessuti variopinti ed hanno quasi tutte il viso coperto.
Rimediato l’alloggio, per sentirci liberi da impegni, dobbiamo prima cambiare un centinaio di dollari e registrare il nostro arrivo sul passaporto all’ufficio immigrazione. Il cambio valuta in banca è sfavorevole, ci indicano un ufficio di cambio vicino all’hotel Makhar: US$ 1 = 4,56 Rial. Entriamo nella caffetteria del Makhar gestita da Mauro, un italo-eritreo arrivato a Sana’a nel ’75. Il cappuccino ci costa 3 rial, il dolce altri 3 rial ed il pacchetto di Marlboro ancora 3 rial. A parte le sigarette, tutto il resto è caro. Mauro spiega che nello Yemen quasi tutto viene importato: “Anche le uova arrivano dalla Svezia”. Approfittiamo per farci consigliare cosa vedere e Mauro, felicissimo di parlare italiano, non si fa pregare: “Se riuscite, vi consiglio di fare il giro completo del paese in senso orario, ovvero Summa, Taizz, Mokha, la spiaggia di Khoka, Hodeida, Manacha, da qui camminate fino a Safan, e ritorno a Sana’a.
Un giro di circa 750-800km. L’autostop è possibile ma in molti casi bisogna pagare chi ti carica, è il costume locale”. Impariamo che il famoso caffè “Moka” viene proprio da Mokha, villaggio sul mare dove pescano anche molti pescicani. Ci tranquillizza anche sui pericoli: “I combattimenti alla frontiera meridionale sono terminati. Alcuni reparti del nord sono scappati nel sud e per ora è tutto tranquillo. Qui al nord, la guerra civile tra monarchici e repubblicani è terminata nel 1970 anche se, sotto sotto, non è mai finita”. Salutiamo Mauro ed entriamo nel ristorantino della porta accanto ad ordinare due semplici uova al tegamino per 5 rial. Ci fermiamo anche all’ufficio del turismo ma non hanno del materiale gratuito e le mappe sono costose. Un ragazzo yemenita presente, certamente benestante, ci fa dono di un paio di mappe e si offre di portarci a Taizz, distante 260km, “con la sua BMW”.
Rifiutiamo, è lontano e siamo stanchi. Ci accompagna comunque all’Immigration Office che si trova fuori città. Torniamo in centro in autostop, basta fare un cenno e subito si fermano contenti di poterci aiutare. Ci gustiamo ora un tè allo zenzero nel vecchio ed affollato mercato di al-Rawda, nella parte nord del centro. Luogo magico, dai mille colori e mille odori e di colpo ci troviamo indietro di secoli, fuori dal tempo. Un ottimo luogo anche per mangiare, i cibi sono buoni e gli ambienti puliti. In questo punto di ristoro popolare, sia il tè che la “fasulia” con l’uovo e l’insalata costa tutto la metà che altrove.
Tornando verso il centro a piedi, qua e là vediamo case vuote, diroccate o con lavori in corso, che attirano la nostra curiosità tanto da inoltrarci al piano terra per vederne gli spazi. Purtroppo, vengono usate come latrine e quindi sono impraticabili e sudice. Ma ce “uno stronzo” talmente esagerato che ho dovuto chiamare Aldo e Francisco per osservarne insieme le dimensioni in modo “scientifico”. Aldo esprime un suo pensiero: “Se avesse lasciato l’indirizzo, era da andare a trovare a casa, per complimentarci”. Proseguendo, davanti all’hotel al-Ihkwa sentiamo due giovani uomini che parlano italiano e viene naturale fermarsi per fare due chiacchiere e raccogliere informazioni. Hanno appena concluso un’escursione a Taizz: “Andateci, conserva il fascino della monarchia”.
Sono di Milano, dipendenti in una ditta di costruzione, pagano 50 dollari per la camera più 12 per la colazione ed hanno una visione generale da imprenditori: “In Italia bisognerebbe lavorare di più!”. Sullo Yemen sparano a zero: “La rovina degli yemeniti è la droga, spendono un sacco di soldi per il kat e poi non fanno un cazzo!”. Quello che dicono potrebbe anche essere condiviso ma dai toni si ergono a giudici e questo li rende “pesanti”. Nello Yemen, come nei paesi del Corno d’Africa, tutti quanti succhiano l’erba di kat, un alcaloide di natura anfetaminica che reprime gli stimoli della fame e della fatica ed è consentito dalla legge. La stessa cosa accade con l’assunzione della noce di betel nel Sudest Asiatico e delle foglie di coca in Sud America, tutte però provocano forme di dipendenza. Pare che il khat sia consumato ogni giorno da circa venti milioni di persone ed è, da secoli, parte integrante della vita sociale in questa parte di mondo.
Tutti masticano il kat a bocca piena, dai ragazzini ai poliziotti. Lo vendono a rami e la parte migliore è la punta. È un vizietto che costa, 25 rial a mazzetto e ne comprano mazzi enormi. Essendo molto richiesto il prezzo di mercato è alto anche se è di produzione locale. Appena arrivano i ramoscelli freschi, questi vengono distribuiti ai venditori seduti al suolo lungo le vie del centro e soprattutto alle katterie, stanzoni nella penombra arredati con tanti lettini, proprio come le fumerie d’oppio solo che qui invece di fumare si mastica. Subito presi d’assalto dalla gente che per prima cosa esamina attentamente i rami con occhio esperto per scegliere quelli migliori. L’uso è semplice: si arrotolano alcune foglie, si mettono in bocca tra i denti e la guancia sinistra e lentamente si succhia e mastica.
Essendo una merce altamente deperibile, che perde, cioè, il suo effetto man mano che passano le ore, anche il prezzo varia in egual misura. Un ragazzo ci regala una polvere marrone che “stona”, sempre da masticare ma ha un sapore pessimo. L’hashish, che qui chiamano shisha o anche medhaa, è proibitissimo e difficile da trovare, poco richiesto visto l’assuefazione generale di kat.
Eccoci di nuovo all’al-Kher “hotel” che qui, a ragione, usano chiamare locanda. Finalmente coricati nella nostra stanza al piano terra, dai muri bagnati per l’enorme umidità. Andare in bagno è un dramma: il suolo è ricoperto da cinque centimetri d’acqua dove galleggiano gli stronzi. Per arrivare al water e alla doccia c’è un apposito percorso: occorre mettere i piedi su dei mattoni che qua e là emergono dall’acqua fetida. Mai visto una schifezza simile, nel suo genere è un bagno da record. Inoltre, sarei curioso di sapere come hanno fatto a defecare anche sul davanzale della finestra del bagno?
Venerdì 16 marzo. Dormiamo vestiti a causa dei panni del letto sporchi e dal timore di insetti vari. Anziché un sacco a pelo, che è pesante e voluminoso, dovremmo farci cucire da un sarto una sacca di tela da usare in hotel sporchi come questo. Tuttavia, per la stanchezza, abbiamo dormito profondamente. Notte comunque fredda. Di giorno fa caldo, la sera rinfresca e di notte occorre coprirsi per bene. Assieme a Francisco, alle 9 ripartiamo a curiosare in giro, il cielo è coperto da nubi e, incredibile, anche per strada, in un fossato sulla via principale troviamo tutti in fila a defecare insieme. Qui funziona così, per il resto è bella gente. Vediamo delle bimbe con occhi chiari di una bellezza eccezionale, sino ai 6-7 anni, poi in molti casi, non tutte, vengono coperte. Alcune interamente da un velo ed altre invece gli lasciano scoperti gli occhi.
Le donne sono divise in tre tipologie, quelle vestite di nero, quelle con stoffe colorate e quelle ai mercati a viso scoperto. Forse dipende dalle regole famigliari di genere maschile sicuramente… A Sana’a, quando imparano che siamo italiani non dicono “mafia” come in altri posti, qui ci chiamano ”Mussolin”, memori dell’ex colonia d’Eritrea sulla sponda opposta del Mar Rosso. Entriamo a sbirciare nell’importante moschea di Aroua al-Djameh ed ogni volta che chiedono se siamo Muslim, noi rispondiamo scherzosamente “yes, Mussolin”. Seduti al pavimento ed adagiati ai muri, qui e là ci sono anziani che in assoluto silenzio pregano e leggono il corano da grossi libroni.
Tutti, comunque, cortesi e “tolleranti” nei nostri confronti. Francisco ha un vecchio libro con immagini in bianco e nero di questa moschea ed è curioso vedere che tutti i presenti conoscono le persone del libro, fotografate una decina d’anni prima. Anche in moschea indossano il coltello-pugnale, chiamato “jambiya”, è più un simbolo decorativo di prestigio che una vera arma. Guardando meglio, in alcuni casi il jambiya ha il manico in legno duro o anche rivestito in metallo e la lama è larga e corta, affilata su ambo i lati, mentre il fodero è marcatamente ricurvo, a volte ad uncino, sovraccarico di intarsi e decorazioni in argento e pietre dure. Ci dicono che è il tipico accessorio d’abbigliamento maschile a partire dai 14 anni.
Più è sontuoso l’apparato decorativo e più è alto lo status sociale di chi lo indossa. Ogni coltello è motivo di vanto e porta impresso il marchio dell’artigiano che lo ha fabbricato. Tale marchio è associato al materiale con cui è costruito, alla qualità ed al disegno. Ciò fa sì che i prezzi variano da pochi euro a centinaia di migliaia di euro.
Oggi pranziamo al ristorante dell’hotel al-Anwar, di fronte all’Alitalia. Ambiente molto pulito e toilette decenti al piano superiore. Gli spaghetti alla “Bolognese”, secondo gli standard africani e medio orientali, sono passabili e costano 7 rial (US$ 1,50 ca.), mentre riso, fagioli, patate, crème caramel, sono tutti piatti da 5 rial. Mentre mangiamo, fuori in strada vediamo un gran movimento di militari ed ufficiali in alta uniforme. Il cameriere e tutti quanti sanno bene di cosa si tratta: “Oggi in città si svolge il congresso tra Nord e Sud Yemen per cercare di unificare il paese. La gente del nord teme che i comunisti ed i sovietici vogliano imporre il loro sistema, come hanno già fatto in diverse città yemenite.
Per fortuna Arabia Saudita e Stati Uniti si oppongono”. Nel tavolo accanto chiede di dove siamo una signora francese non più giovane ma elegante e molto femminile. È in compagnia del suo autista, viene da Gibuti e quando sente che in una decina di giorni saremo anche noi a Gibuti e poi in Somalia, inizia a parlare a raffica: “Gibuti è molto cara, ma soprattutto fate molta attenzione alla gente, non date confidenze, l’80% dei suoi abitanti sono ladri scatenati. Mentre uno ti chiede una cosa, un altro dietro prova a rubarti. Anche la polizia ruba, è un luogo molto corrotto e pieno di prostitute … Da vedere ci sono due isolotti di fronte a Gibuti, bellissimi, tipo Tahiti”. Aggiunge qualcosa anche sulla Somalia: “Le donne somale sono molto colorate e belle. A Berbera e in tutto il nord della Somalia la gente non è amichevole e occorre fare attenzione, mentre a Mogadiscio sono bravi e si sta ancora bene”.
Ci troviamo spesso a camminare “a naso in su”, ipnotizzati da queste case-torri in pietra e fango di otto e nove piani, coi balconcini chiusi per osservare e non essere visti, proprio come i veli delle donne. Finestre piccolissime dai vetri colorati che creano atmosfera e calore, porte basse e pregiatissime rifiniture esterne a bassorilievo dipinte di bianco ed alcuni, secondo noi, vaghi richiami che riconducono a Venezia. Anche la sede dell’ambasciata d’Italia è in uno di questi edifici tipici vicino al centro e decidiamo di andare a dare un’occhiata al suo interno, che scopriamo essere molto bello.
Ci vorrebbe un amico yemenita che ci aiutasse ad entrare in qualche casa privata, pare che alle famiglie non dispiaccia essere fotografate. Oggi è venerdì e il personale in ambasciata è ridotto, tuttavia conosciamo Giorgio Calabresi, un elettrotecnico che lavora nello Yemen da quattro mesi e si è documentato sulla meraviglia delle case-torri: “La maggior parte di questi edifici risale al 1700 e dalla base, di mattone in mattone, di terra cruda, nel tempo i palazzi si sono innalzati in funzione delle necessità delle famiglie che le abitavano. Fino a raggiungere in alcuni casi i trenta metri di altezza. È un tratto distintivo delle città dell’intero Yemen”. Giorgio ha un contratto annuale e racconta che il suo stipendio è di 1.500.000 lire al mese pulito. Una cifra enorme. Lo raggiungono due suoi colleghi marchigiani che, come i due milanesi incontrati ieri, non risparmiano critiche sugli yemeniti. È evidente che non sanno apprezzare. Parlano solo di lavoro, dell’Italia, si muovono goffamente e sono banali.
Giorgio lamenta la mancanza di donne e preferisce esprimersi in inglese: “Sex by left hand”. Nello Yemen le donne sono sposabili dai dodici anni. E tiene a precisare: “Sono i genitori che stabiliscono i matrimoni. Per uno sposalizio si spendono da 15mila a 200mila dollari, se la sposa non è vergine la famiglia deve restituire la somma e viene disonorata”. Anche per i figli maschi funziona uguale: “I genitori cercano una moglie per il figlio, gli dicono che in un certo posto c’è una ragazza che si sa essere bella e gentile ed iniziano gli incontri e le infinite trattative per combinare il matrimonio”.
Alle 16 entriamo allo stadio, che si trova di fronte alle sedi della Somali Airlines e Sudan Air, per vedere la partita di calcio Sana’a contro Ibb, finita 3 a 2. Poca presenza di pubblico, resti di kat un po’ dovunque e tifo contenuto ma comunque interessante. Ci fermiamo anche a valutare i prezzi nei negozi esentasse, le stecche di sigarette estere costano poco, anche se non c’è molta scelta. Adocchiamo una radio Sanyo con gli speaker ma poi al pensiero di portare del peso rinunciamo. Ceniamo con una pannocchia di mais e del pane bianco buono in compagnia di Roland, un viaggiatore tedesco che ci racconta di essere appena stato a Wadi Dhahr, una vallata molto fertile tutto l’anno perché protetta da una spaccatura della montagna, a soli 15km a nord-ovest di Sana’a.
Nella valle, piena di alberi di frutta, sorge il Palazzo della Roccia, un’eccellenza architettonica che è diventata una sorta di simbolo dell’intero paese per la sua ardita posizione. Alle 22 le strade di Sana’a sono deserte e noi passiamo ore ad ammirare in assoluta solitudine questa meraviglia di costruzioni, via dopo via, in ogni quartiere. Nel buio della notte, vediamo la luce che esce da una finestrella posta sopra alla porta d’ingresso di una abitazione. Con Aldo, proprio perché proibito, per gioco passiamo mezzora ad ipotizziamo di arrampicarci per dare una sbirciatina. Giriamo tranquilli fin verso l’una, quando non resta che tuffarci sui nostri letti di corda in stile afgano.