Oggi è domenica 4 marzo, il nostro sesto giorno a Khartum. Faccio ora un breve cenno su come intendo vivere il “viaggio”, in autonomia e senza l’ausilio di altri, ovvero da protagonista e non da semplice spettatore. Più che scrittore sono un viaggiatore grafomane. A me piace scrivere quello che dicono “gli altri”, realtà di mondi diversi che si rivelano attraverso i racconti, i gesti e le emozioni di chi si incontra. L’intento è quello di “fare propria” una cultura, uno stile di vita e cercare di intendere quanto più possibile la “normalità altrui”.
È mia abitudine annotare ogni situazione che vivo, cogliere le informazioni generali ed ascoltare quello che dice la gente. Mi aiuta a capire meglio l’atmosfera che si respira in quel determinato luogo. In particolare, prediligo i racconti dei nativi, come le storie curiose di funzionari con cui vengo a contatto per dovere o necessità. Dietro a conversazioni apparentemente banali si nasconde spesso un universo sconosciuto e affascinante. Il mio interesse prende colore quando mi raccontano confidenze di ogni tipo o anche credenze, leggende e riti indigeni degni di nota: una valanga di notizie che giudico interessantissime, ma che temo di scordare. Così, quando non posso estrarre carta e penna, chiedo una pausa per andare in bagno, dove di nascosto e in modo frenetico mi annoto fatti e racconti.
Se non ho nulla su cui scrivere, raccolgo quello che trovo dal pavimento, fosse anche un pacchetto di sigarette vuoto. Poi, alla sera prima di coricarmi, riordino il materiale degli appunti sul diario e rivivo la giornata attraverso quei racconti: spesso scrivo fino a notte fonda. Viaggiare esercita ed affina l’ascolto e si acquisiscono più termini di paragone: il viaggio di una settimana ti darà alcune cose, quello di un mese altre, quello di un anno modifica lentamente le tue chiavi di lettura e, inevitabilmente, ti cambia.
L’incontro con Judith, l’americana di Portland che ora divide la camera con me ed Aldo, mi intriga particolarmente perché è in costante ricerca di gente danarosa, possiede una sua personale teoria e tecnica atte a farsi mantenere durante i suoi viaggi per il mondo. Con grande leggerezza e in tutta onestà Judith confida i punti salienti della sua filosofia: “1 - viaggiare sole si è più abbordabili; 2 - essere sempre friendly and funny, espansiva in modo semplice e autentico, in stile americano; 3 - essere carina, non fare la figa ma l’amica; 4 - non cedere subito se no pensano che sia una prostituta; 5 - agganciare la gente giusta, quella con soldi”. E aggiunge: “In quasi ogni paese ho trovato un ricco coglione che mi ha portato in giro senza pagare nulla e si è preso cura di me”.
Judith è una specialista del genere, a cominciare dal Vietnam, dove intratteneva le truppe nel 1975. In questo suo ultimo viaggio racconta di essere riuscita a viaggiare quasi sempre gratis: “Ho iniziato questo viaggio dalla Cecoslovacchia, dove ho parenti ed amici e non ho speso nulla. In Italia, sono stata con un dottore di Roma, a Napoli con un ufficiale della marina americana che mi ha pure pagato un viaggetto a Majorca e a Malaga in hotel di prima categoria - like a dream; in Tunisia sono andata ad un party dell’ambasciata USA e mi sono messa con un alto funzionario, molto ricco - with so much money; in Marocco, a Tangeri ho coinvolto una famiglia che mi ha ospitato con cibo e letto.
A Casablanca ero con un industriale irlandese e a Marrakech con un giovane marocchino spaccaballe, ma pagava tutto lui e mi andava bene ugualmente; in Egitto, prima ho trovato la solita famiglia per vitto e alloggio e poi un egiziano che mi pagava ogni cosa; qui in Sudan stessa cosa, prima una famiglia e adesso un pilota della Sudan Airways che indossa un meraviglioso orologio pieno di diamantini e mi ha promesso il biglietto per Juba gratis”. Nell’attesa, in caso il pilota cambiasse idea, Judith questa sera va ad un party col direttore del Youth Ministery, “a very rich person”, che già gli ha promesso uno sconto sulla nave per Juba.
Ogni viaggio lo imposta in questo modo - “every trip is like this” - e tiene a precisare che l’incontro più bello lo ha vissuto in Iran. Scoppiamo a ridere quando Judith afferma: “Io non m’intendo di business!”.
Usciti dall’hotel e salutato la spiritosa, ironica e spregiudicata Judith, ci rechiamo a fare colazione nella piazzetta del Cafe Athenaa, alle spalle dell’ambasciata britannica, la zona frequentata dai “white people”. Qui incontriamo due dei tre italiani in Land Rover già visti il giorno prima all’ambasciata italiana, i quali ci raccontano di un’esperienza massacrante appena terminata: due mesi in giro per i paesi dell’Africa sahariana, in un viaggio allucinante e pieno di difficoltà che ci descrivono nei dettagli per ore. Sono Gerardo Bamonte* di Roma, 38 anni, ed Enzo Rossetti di Milano, 29 anni, entrambi docenti etnologi in un viaggio di studio scientifico finanziato dall’università degli Studi di Roma “La Sapienza”.
Il terzo collega insegnante, Piero di 48 anni, è tornato ieri in Italia indebolito e con i nervi a pezzi per lo stress da fatica. Sono entrati in Sudan dal Kenya. Mi annoto sul diario la mappa del loro percorso che trovo avventuroso e decisamente interessante: da Napoli con auto sono sbarcati a Tunisi e poi giù a Tamanrasset in Algeria, il cimitero dei dinosauri in Niger e via di seguito con ampi giri a vuoto nel deserto a causa di frontiere segnate aperte ma in realtà chiuse. Hanno dovuto legare le pareti interne per evitare che l’auto si sfasci per le forti vibrazioni causate dalle pessime condizioni delle piste che, addirittura, hanno mandato in frantumi il parabrezza del Rover. In Niger, ad ogni villaggio che si attraversa la polizia fa un grosso timbro sul passaporto ma per fortuna ci sono pochi centri abitati, mentre in Nigeria è tutto un villaggio e adesso non hanno più pagine libere per i visti.
Ad ogni dogana la polizia crea problemi per scroccare grosse mance, da 100 a 300 dollari. Sempre in Nigeria, racconta che erano disperati poiché nessuno gli cambiava valuta, quando hanno incontrato un greco-inglese che gli ha regalato un pacco di banconote locali, pari ad un centinaio di dollari. Kano e le città della Nigeria hanno un traffico allucinante, sono molto inquinate e affollate di gente dai volti incazzati da far paura. Sono tutte nazioni carissime e, secondo la loro esperienza, abitate da tribù spesso ostili nei loro confronti o comunque poco amichevoli. La loro cronaca si accende quando raccontano di essere arrivati in ritardo nel villaggio di Kousseri, sulla sponda occidentale del fiume Chari che segna il confine tra Camerun e Chad.
Dovevano prendere il traghetto per Fort Lamy, la capitale del Chad che si trova sulla sponda opposta: “Per fortuna siamo arrivati con qualche ora di ritardo e abbiamo perso il traghetto. Poche ore dopo a Fort Lamy è infuriata una battaglia con missili terra-aria durata una settimana e pare abbia causato circa 700 morti e 1500 feriti. Se fossimo arrivati in tempo per il ferry ci saremmo trovati in mezzo alla guerra, mentre dalla sponda opposta camerunense abbiamo potuto seguire la battaglia come fossimo al cinema”. Nonostante Gerardo ed Enzo non ci appaiano in perfette condizioni di salute, rimaniamo insieme fino a tarda ora a parlare e a bere birra seduti nel pub che si trova nella piazzetta vicino al Sahara Hotel, circondati da prostitute eritree che però non disturbano. Si stonano di erba e sono simpatici. Gerardo Bamonte racconta di aver pubblicato un libro di fotografie, di scrivere articoli e vendere foto alle riviste, come Atlante ed Epoca.
Assieme alla moglie scrive novelle romanzate per i ragazzi ambientate in Amazzonia, una parte del Sud America molto famigliare a Gerardo avendo trascorso due anni sull’Orinoco. Gerardo è appassionato di tutto ciò che riguarda il mondo primitivo, una persona con la quale è interessante e piacevole conversare.
Il mattino seguente, il segretario dell’ambasciata italiana, signor Indelicato, dice di aver accompagnato i due italiani dal medico, il quale gli ha diagnosticato la malaria e l’epatite. Andiamo nel loro hotel per sentire se hanno bisogno di aiuto e troviamo Enzo a letto con la febbre a 41 e che lamenta dolori alle ossa. Nonostante il malessere fisico riescono a scherzare. Tra le tante cose, Enzo racconta che in Pakistan alcuni pastori portano a spasso delle belle pecore: “Tutte pulite, pettinate, e le affittano per una notte”.
Per fortuna c’è Indelicato, i due ragazzi sono in buone mani, si prenderà cura di loro e verranno rimpatriati al più presto. Le ambasciate italiane per questo genere di assistenze sono in assoluto le migliori. La Land Rover rimane a Khartum, servirà ad altri studiosi italiani in arrivo a giorni per continuare il progetto interrotto dai nostri amici. Ci salutano con scambio di indirizzi e l’invito ad andarli a trovare, sia a Roma che a Milano.
Viaggiare è spesso davvero impegnativo, bisogna correre da un ufficio all’altro per banche, visti e permessi. Ci rechiamo all’ambasciata dello Yemen del Nord, per ottenere il visto occorre tornare domani con un biglietto aereo che attesti l’uscita dal Paese. La segretaria ci informa che non è un buon periodo per visitare lo Yemen: “C’è agitazione per gli scontri al confine tra i due Yemen, i sud yemeniti e i russi sono entrati per molti chilometri in territorio nord yemenita, fino alla città di Taiz”.
Speriamo che questo non ci vieti di andare a Sana’a. Davvero interessante comunque sentire a viva voce quali sono i due schieramenti internazionali in questo confronto: Arabia Saudita, Giordania, Egitto, Iran, Regno Unito e Stati Uniti sostengono lo Yemen del Nord, mentre Unione Sovietica, Cecoslovacchia, Iraq, Libia e Cuba quello dello Yemen del Sud. Curioso, costatare che in altri scacchieri strategici gli stessi paesi che qui sono uniti altrove si trovano su fronti opposti, secondo gli interessi della situazione e del momento. Prima l’Egitto di Nasser filosovietico tutelava lo Yemen del Nord e sia Arabia Saudita che Giordania erano contro l’Egitto mentre ora sono alleati.
L’Arabia sunnita e l’Iran sciita confliggono da sempre, eppure qui convivono. L’Unione Sovietica dallo Yemen del Nord passa poi a tutelare lo Yemen del Sud. Nell’Ogaden, i russi prima erano con i somali contro gli etiopi ed ora sono con gli etiopi contro i somali. Parlando con la gente comune nei rispettivi paesi coinvolti una cosa emerge con chiarezza: i russi sono rudi e burberi e non piacciono a nessuno.
Andiamo quindi all’ambasciata dell’Uganda, dove il funzionario ci disegna una situazione simile: “In questi giorni siamo in guerra, l’esercito della Tanzania ha invaso una parte del territorio ugandese”. Da circa un anno è in atto un conflitto tra i due paesi. Sono già stato in Uganda nel 1972, paese già allora presieduto dal regime sanguinario Idi Amin Dada, il “dittatore cannibale” per niente amato dal popolo. All’epoca vi arrivai via terra dal Kenya ma, in qualità di visitatore, non ebbi alcun problema a raggiungere Kampala ed Entebbe sul lago Victoria.
È un momento di pausa e riflessione, seduti alla caffetteria del Khalil Hotel, quando si presenta Kidan, un ragazzo eritreo di 25 anni che parla un perfetto italiano ed è appena tornato dal fronte di Teseney-Sabderat, la linea di difesa contro gli etiopi al confine col Sudan. È carico di energia ed ha voglia di parlare di queste guerre che si intrecciano in un’area geografica davvero turbolenta. Subito estraggo taccuino e penna pronto a cercare di annotarmi ogni cosa.
Kidan si accende una Biringi, le sigarette nazionali economiche e per questo difficili da trovare, e inizia a parlare: “Gli etiopi sono ormai a pochi chilometri dal confine con il Sudan, nei pressi di Kassala, e per gli eritrei è tutto perso. Teseney è già in loro mani. Questi sono gli ultimi selvaggi combattimenti, ogni giorno gli aerei bombardano il confine e le postazioni eritree. Le zone in mano a noi eritrei sono ormai soltanto tre: la prima è al confine con Kassala, la seconda al confine col Sudan sul Mar Rosso e la terza è dalla parte di Gibuti nella regione della Dancalia.
In due mesi gli etiopi, con l’aiuto di russi e cubani, hanno preso tutto il resto”. Due tiri di Biringi e riparte a spiegare: “Massaua è su due isole ed una penisola, le due isole erano etiopi e l’istmo era eritreo ma sono arrivate le navi russe a bombardare e siamo dovuti scappare via tutti. Le isole di Dahlak di fronte a Massaua ora sono delle basi aeree e navali sovietiche”. Credo siano isole bellissime e un giorno, quando sarà possibile, mi piacerebbe moltissimo andarci.
Kidan è una sorta di paramedico che al fronte aveva il compito di curare i feriti. Kidan è impegnato nella politica e nel sociale: “Adesso il problema più grande è fare studiare i ragazzi che con la guerra non hanno potuto andare a scuola e ora non sanno neppure scrivere. Altro problema è sistemare i feriti, poi c’è la riorganizzazione dei guerriglieri per poter combattere fino alla fine. La nostra è ormai una situazione alla palestinese, per fortuna il governo del Sudan, nel recente vertice con Menghistu, non ha legato con l’Etiopia e continua ad aiutarci, diversamente ci butterebbero tutti a mare”.
Kidan, al mercato nero ha acquistato un passaporto somalo, cambiando solo la foto, ed ha intenzione di migrare in Kuwait. Essendo politicizzato e intelligente, ne approfitto per chiedergli il suo punto di vista sugli italiani colonizzatori in Eritrea. Altri due tiri di Biringi e mi accontenta subito: “Con gli italiani fascisti era una situazione da apartheid, sul genere del Sudafrica, facevano studiare gli eritrei solo fino alla quarta elementare, giusto per imparare l’italiano e null’altro. Asmara era recintata e solo gli italiani potevano entrare in centro. Negli autobus gli italiani stavano seduti e gli eritrei in piedi.
Nei treni gli italiani stavano dentro e gli eritrei fuori, sul tetto del vagone. Non usavano però gli eritrei per combattere. Gli inglesi che sono venuti in seguito erano più furbi: facevano studiare oltre la quarta per indottrinarli meglio ed usarli poi come soldati per l’esercito inglese. Due sistemi diversi di colonizzazione, ma ormai questo non esiste più, negli ultimi anni italiani ed eritrei erano uguali, i matrimoni misti erano all’ordine del giorno e sembra che andassero tutti molto d’accordo”. La lunga conversazione viene interrotta da altri suoi due amici che parlano pure loro molto bene l’italiano. Nel momento dei saluti ci siamo addirittura abbracciati, come fratelli.
In fondo, l’incontro con gli altri diversi da me per cultura, età e visione del mondo, mi permette di specchiarmi e chiedermi chi sono io, qual è la mia cultura e il mio modo di pensare e di vivere. Ogni volta che torno a casa sono sempre un po' diverso.
*Da Wikipedia - Gerardo Bamonte (Roma, 18 dicembre 1939 - Roma, 23 aprile 2008), è stato uno storico e scrittore italiano. Etnologo, antropologo, storico delle religioni e studioso originale dei culti dei popoli primitivi. Ricercatore del CNR dal 1976, fu in seguito ricercatore universitario confermato nel 1984, ecc. Nel 1991 è ordinario di Religioni dei Popoli Primitivi all'Università degli Studi di Roma "La Sapienza". Presidente della sezione generale di etnologia del XLII Congrès International des Amèricanistes nel 1976 a Parigi e Vice Presidente del XXV Convegno Internazionale di Americanistica. Partecipò all'ONU di Ginevra, in qualità di delegato della Lega Internazionale per i Diritti e la Liberazione dei Popoli e, dal 1981, partecipante ai lavori del "Working Group on Indigenous Populations" della Sottocommissione dei Diritti Umani, dove ha presentato vari interventi.