Hadi si arrampica mani e piedi sulla palma da cocco per raccogliere la melassa prodotta dai fiori e portarla a terra. Lui è il più giovane della famiglia e gli tocca il compito più pericoloso, perché la palma è alta e bisogna essere agili per salire fino alla cima. Quel liquido appiccicoso dovrà poi fermentare per essere infine mescolato all’alcol etilico o al metanolo e distillato su un fornello rudimentale. Lo farà il resto della famiglia, genitori, fratelli e cugini, con un procedimento che si tramandano di padre in figlio.

Ne risulterà un liquore potente che chiamano arrack, non certo privo di pericoli per la salute. No arrack, no party, ammonisce Yeni sorridendo, mentre culla in braccio il suo bambino più piccolo e ci spiega a gesti il metodo un po’ rozzo per ottenere il prezioso liquido a disposizione della famiglia durante feste e cerimonie. È dura la vita nella giungla e bisogna organizzarsi bene per sopravvivere. L’arrack per loro è l’elisir che fa dimenticare le difficoltà, almeno momentaneamente. Le palme non mancano e tutte le famiglie se lo producono in casa, senza alcuna spesa, però anche senza alcun controllo. E non è difficile immaginare le conseguenze se si sbagliano le proporzioni o la qualità dell’alcol.

Sono poco più a est di Bajawa, nell’isola di Flores, uno dei territori dello sterminato arcipelago dell’Indonesia non ancora ‘corrotto’ dalla presenza di turisti. La famiglia di Hadi e Yeni vive alle pendici della giungla, in una zona più dolce, dove gli odori della vegetazione e dei rigogliosi fiori che nascono spontanei si mescolano a quelli del mare. Alle spalle mi ero lasciata i misteri della grande foresta tropicale, un mondo impenetrabile e severo, dalle regole non scritte che impongono una vita rigorosa ai suoi pochi abitanti.

Il mio compagno di viaggio ed io ci eravamo arrivati nel tardo pomeriggio di un giorno caldo, dopo un percorso tortuoso iniziato da Ruteng. Negli occhi avevo ancora le grandi risaie, distese su enormi pianure o inerpicate su colline terrazzate, dove uomini e donne lavorano nelle piantagioni mentre lungo la strada, davanti alle case, il raccolto viene disteso al sole perché possa seccare. Salendo sulle montagne il paesaggio campestre a poco a poco lascia il posto a gigantesche piante di bambù fino a quando lo spazio si chiude dentro una fitta vegetazione fatta di alberi sconosciuti dai mille toni di verde.

La giungla non te l’aspetti e quando ci sei dentro ti accorgi di aver perso del tutto il senso dell’orientamento. In alto balenano sprazzi di cielo, intorno solo foglie, tronchi, rumori sussurrati da fragili venti e animali che non vedi, ma di cui intuisci la presenza. Ti trovi a cercare un orizzonte, ma lo sguardo è bloccato da una barriera di piante sempre più folte che azzerano la luce.

Quello che provo è un misto di fascino e di paura. La giungla da una parte ti attrae come una calamita e dall’altra ti respinge come una catapulta. Mi rendo conto che un occidentale curioso, con il mito del Quattrocento e una media propensione al rischio come me può esplorarla solo con la fantasia. Ad accoglierci nella foresta è un bungalow bianco dalle molte vetrate che guarda il grande vulcano Inierie, come un gigante davanti a noi. Facciamo presto a renderci conto che il bagno non ha la porta, non perché sia rotta, ma perché semplicemente non c’è. Evidentemente ci sono cose più urgenti a cui pensare durante la giornata, più urgenti della privacy.

Il sole tramonta presto nelle zone equatoriali e quando alle 20 andiamo alla ricerca di un panino o di una cena veloce è ormai buio pesto. I due ragazzi all’ingresso della zona bungalow ci fanno capire che lì non c’è alcun servizio mensa, ma che ad appena due minuti a piedi c’è persino un piccolo ristorante. Ci incamminiamo nella notte, ma dopo poco ci accorgiamo che intorno a noi c’ è solo silenzio: nessuna luce o segno di vita, a parte le fronde che ci sovrastano un po’ minacciose. Torniamo indietro convinti di dover ormai saltare la cena, ma i due ragazzi sono la salvezza.

Il popolo della giungla è silenzioso e forse rozzo, però capisce ed è gentile. Così ci caricano su una motoretta e uno ad uno ci portano al ristorante. Non sono due minuti ma due chilometri, comunque l’importante è esserci arrivati in qualche modo. Mangiamo nasi goreng, il riso fritto indonesiano, tofu e vegetali sconosciuti. Uno dei camerieri del ristorante è pronto a riaccompagnarci al nostro bungalow, questa volta in auto. Per la verità ci sono quattro inglesi che stanno avviandosi a piedi facendosi strada con la sola torcia dei telefonini. Ho sempre pensato che gli inglesi abbiano una marcia in più su tanti aspetti della vita, anche in quello dei viaggi.

Vabbè, però noi siamo italiani e la macchina che il ristorante ci mette a disposizione ci va benissimo. Tra l’altro chi ci accompagna sa bene l’inglese, cosa rarissima da queste parti, ed ha voglia di parlare. Gli chiedo se è davvero prudente andare a piedi di notte nella giungla, pur se su una strada semi asfaltata. Ci risponde di no, che anche lui lo evita perché è possibile incontrare scimmie aggressive e serpenti velenosi. Non i pitoni perché quelli stanno in un’altra zona, dalla parte opposta del vulcano. Lungo il tragitto, invece, vediamo un uomo che esplora i dintorni. Il nostro autista ci spiega che è un cacciatore di scimmie.

Cacciatore di scimmie? Sì, perché il popolo della giungla, oltre a mangiare i frutti degli alberi, si ciba anche di scimmie e serpenti. Di tutto quello che la natura ti offre perché lì non è certo possibile coltivare. Ci tiene a dire che lui non ama quel popolo dalle abitudini ancora selvagge. Viene da Ruteng, città di sua madre, però si sente inesorabilmente attratto dalla giungla, da dove comunque proveniva suo padre. È lì da due anni ma non ha alcuna intenzione di tornare ad una vita più facile: la sfida giornaliera con la natura lo ha conquistato.

Come spesso accade, alle asperità dell’esistenza quotidiana si legano leggende e credenze che mitigano le difficoltà o comunque accendono speranze. La popolazione di Flores è solo per una piccola parte musulmana e nella stragrande maggioranza fervidamente cattolica. Ma questo non significa che non ci siano miti antichi e superstizioni ancora forti. E poiché i molti vulcani, con le loro improvvise e devastanti eruzioni, hanno da sempre condizionato la vita dei vari villaggi, spesso i crateri acquistano una temuta sacralità.

Il vulcano Kelimutu, alto intorno ai 1600 metri, i cui tre crateri ospitano altrettanti laghi che cambiano colore, dal rosso, al verde, al blu. Qui non c’è più la giungla con i suoi misteri, ma altri misteri li sostituiscono. La scienza spiega che il fenomeno è prodotto fa fumarole subacquee e dai raggi del sole, ma questo procedimento chimico non appassiona gli abitanti di Moni, ultimo avamposto di montagna prima di raggiungere i crateri. Per loro in quei laghi si tuffano le anime dei defunti: chi è morto giovane riposa nel più grande, mentre negli altri due si dividono i cattivi e gli anziani.

Così succede che per ingraziarsi gli spiriti ogni anno venga compiuto un rituale magico e un maiale sacrificato a questi arcani dei. Ma fino a 60 anni fa l’olocausto doveva essere umano: veniva rapito un uomo da una tribù vicina, drogato e poi decapitato mentre con la sua pelle si realizzava un tamburo. Alla fine, però, la ferocia si era un po’ affievolita e ad essere sacrificato era un anziano ammalato che chiedeva di diventare la vittima sacrificale per ingraziarsi gli spiriti e non finire nel lago dei cattivi. Ce lo racconta Lopez mentre la sorella Mimie ci serve riso, melanzane e tempeh fritte al lume di candela, perché l’elettricità è un altro mistero e spesso se ne va lasciando tutti al buio.

La notte, riti magici, sacrifici umani: roba da far accapponare la pelle.

Ma Lopez giura a noi e alle altre 4 coppie sedute al tavolo, due francesi e due olandesi, che è tutto vero. Lui gestisce un gruppo di bungalow insieme al resto della famiglia composta, oltre alla sorella, da un altro fratello e da tanti cugini. Infatti, è stato Micki, il fratello minore, ad accompagnarci nella nostra camera sotto un diluvio di pioggia da tempesta equatoriale. Subito dopo ci ha portato le candele per illuminare la stanza e anche un ombrello, visto che il bagno è all’aperto e l’ombrello è fondamentale anche per fare pipì. Pur se la giungla è lontana, niente appare essere facile neanche a Moni. Tanto è vero che gli abitanti non esitano a chiedere aiuto agli spiriti dei laghi. Lopez dice di andarci ogni volta che deve prendere decisioni importanti. Non è chiaro come gli spiriti gli diano le risposte, comunque lui sostiene di capirle e questo è l’importante.

Certo, non sarebbe male se quelle stesse divinità si interessassero un po’ a migliorare i trasporti, visto che gli orari negli aeroporti sono un optional.

Arriviamo all’aeroporto di Ende alle sette del mattino, due ore prima della partenza del nostro aereo per Labuan Bajo-Bali, che è programmata per le nove. Ma alle nove non succede niente, neanche alle dieci e nemmeno dopo, senza che nessuno spieghi o avverta. Alla fine, è andata bene: partiremo con ‘sole’ quattro ore di ritardo. Neanche male se si pensa che un gruppo di olandesi il giorno precedente ne aveva attese ben tredici.

D’altronde il tempo non è importante per un indonesiano di Flores e non avere fretta serve anche a riflettere. È quello che faccio io in attesa dell’aereo. Penso alla grigia miseria in cui vive quella popolazione, alle loro povere case con il tetto di lamiera che nel periodo più caldo devono trasformarsi in forni, ma penso anche alla loro gentilezza, ai loro sorrisi, alla voglia che hanno di comunicare e alla loro grande dignità. Penso a Francisca che in un villaggio di capanne ci ha persino offerto il caffè, i cui chicchi sono stati da lei raccolti intorno a casa e tostati in padella; penso a quelle cinque sorelle incontrate lungo la strada che mi chiedono una foto e mi festeggiano portandomi in casa dalla loro madre. Mai nessuno, neanche i bambini, ha chiesto una rupia, mai nessuno ha tentato imbrogli o raggiri, mai ci hanno fatto sentire in pericolo, noi che viaggiavamo da soli.

Espongo queste mie riflessioni alla suora missionaria che condivide il mio stesso destino all’aeroporto e sono contenta di avere la sua conferma. “Hanno solo una tazza di riso al giorno e sono felici”, mi dice. “Succede la stessa cosa nelle Filippine, mentre in Africa c’è molta aggressività”. Aggiunge anche, fatto non comune, che cattolici e musulmani vivono in questa stessa isola con grande rispetto gli uni per gli altri. Magari fosse così dappertutto.

Se il volo per Bali non dura complessivamente più di due ore, quando scendiamo dall’aereo è come se ne fossero trascorse cento perché mettere piede ad Ubud equivale a trovarsi in un nuovo continente. Non cambia solo la religione, che da cattolica diventa indù, cambia anche la vita.

Qui tutto appare finto e a misura di turista: dal sarong di batik che ti fanno indossare prima di entrare in un tempio dove nessuno sembra più pregare, alle file lunghissime di bancarelle da superare prima entrare in qualsiasi luogo visitabile, dove decine e decine di venditrici ti costringono a estenuanti contrattazioni. Chissà che non siano finti anche i pitoni arrotolati in ceste e pronti per una foto alla Tarzan, in cui tutti possono apparire atletici, bellissimi e appena tornati da imprese avventurose.

Dopo l’universo primitivo e sorprendente delle Flores, le movimentate strade di Bali assomigliano all’allegra città di Topolinia, con le risaie trasformate in parchi di divertimento, piene di giochi, zone accessibili solo per foto a pagamento, ristoranti affollati, zip line dove turisti imbracati si lanciano a forte velocità per superare un baratro e raggiungere la parte opposta della collina. Le due passioni insopprimibili sono diventate il gelato, venduto in ogni angolo di Ubud, e le altalene issate sulle spiagge, nelle risaie e nei santuari per foto ricordo da scattare all’alba, al tramonto, o quando più aggrada.

Menomale che c’è Ibu Rai a sollevare le sorti dell’isola e anche le nostre. Lei che dopo la morte del marito si è rimboccata le maniche, ha lavorato sodo vendendo cibo ai turisti in un piccolo warung (botteghino indonesiano aperto giorno e notte) in una strada del centro di Ubud. Era determinata a dare una buona educazione ai suoi sei figli e nonostante il suo essere donna sola c’è riuscita perfettamente. È morta nel 2004 compianta dall’intera comunità che ne ha riconosciuto l’energia, la forte personalità, il coraggio e l’indipendenza.

Un ristorante fondato dal figlio la ricorda ed è qui che ho conosciuto la sua bella storia. A servire ai tavoli sono tutte donne giovani che intervisto sulla loro condizione. Mi dicono di essere libere, di poter scegliere l’uomo che amano senza alcun matrimonio combinato, assicurano di avere sul lavoro le stesse chances e lo stesso trattamento degli uomini. Belle cose da ascoltare. Domando se succede la stessa cosa in tutta l’Indonesia, rispondono che credono di sì, ma il loro Paese è così grande che non ne sono sicure. Nemmeno io lo sono. Ma se il turismo, oltre alle altalene e ai falsi Tarzan, ha portato libertà e uguaglianza, devo riconoscere che ha fatto anche qualcosa di buono. Molto buono.