Domenica 22 aprile, atterriamo a Nairobi alle 18, il barometro segna 24 gradi e siamo ad un’altitudine di 1660 metri in cui il clima è più fresco che a Mogadiscio. L’aeroporto è ultramoderno, a forma circolare e ben tenuto. Superiamo la dogana senza alcun controllo dei bagagli e, per fortuna, nessuno ci chiede il biglietto d’uscita dal paese. Alla banca, il cambio del dollaro è 7,30 scellini. Cambiamo il minimo necessario.
Ci consigliano di fare attenzione alle banconote false da 100 scellini, riconoscibili da alcuni fili rosa sulla barba del Presidente Kenyatta e da un alone bianco anomalo sulle spalle. Il driver del taxi per downtown ci chiede 90 scellini, circa 12 dollari. Sono cifre indicative del costo della vita in Kenia Alloggiamo al Nyandarua Lodge, in una camera doppia e molto pulita, per 50 scellini. I panni pesanti sui letti ci dicono che le notti a Nairobi possono essere fredde. In questo Paese, negli hotel ti offrono il vitto e l’alloggio, mentre nei lodge solo l’alloggio.
Nel nostro lodge non ci non chiedono i documenti ma vogliono essere pagati in anticipo per precauzione. Dobbiamo uscire subito per cercare di cambiare valuta al mercato nero. Siamo in River Road, la zona più popolare, non troppo distanti dal grappolo dei futuristici grattacieli del centro. Ci avvertono che certe zone limitrofe sono “da evitare”, perché rubano e assaltano per strada: “Fate attenzione anche nell’affollato Nairobi Central Business District, CBD, frequentato da una marea di ladri, scippatori, truffatori, spacciatori e criminali di ogni genere.
Tagliano abiti e zaini con le lamette da barba. Molti di questi individui hanno in comune il bisogno di sopravvivere in momenti economici difficili. Le strade più famigerato in città sono Tom Mboya Street, Latema Road, Haile Selassie e Murang'a Road. Lo slum Kibera, a sud del centro, è certamente da evitare. Siate molto vigili anche sui veicoli di servizio pubblico e se acquistate un articolo assicuratevi che sia imballato in vostra presenza. Gli abitanti di Nairobi, inoltre, sanno di non acquistare mai articoli durante la notte. Evitate di parlare con estranei, questo vi aiuterà a tenervi fuori dai guai”.
Ci ritroviamo nella dimensione dei furti e degli scippi e, guardandoci attorno, incrociamo sguardi torvi che inducono a fare attenzione. Le strade sono buie e vuote già dalla sera presto, come in Inghilterra. Anche la guida è “keep left” all’inglese. Nei paesi anglofoni si mangia male e spesso in piedi, di corsa, usano tanti cibi in scatola, e la gente o è formale o è schizzata. Anche le prostitute che vediamo agli angoli delle vie sono sfacciate come quelle occidentali, oltre ad essere decisamente brutte.
Usano acconciature con cordini e trecce molto piacevoli, ma fisicamente non sono attraenti. La nostalgia per la bella e autentica Somalia è giustificata. Volendo, una piccola Mogadiscio la possiamo troviamo al mercato di Garissa, nel quartiere somalo di Eastleigh. Rivedo il bar-ristorante del New Stanley Hotel, luogo di ritrovo per viaggiatori occidentali in cui ero alloggiato nel 1972. Anno in cui ricordo di aver visto la Regina Elisabetta sfilare per la strada principale della capitale. Attorno allo Stanley c’è un chiosco con giornali italiani e copie di Playboy in lingua araba, una rarità da collezionisti. Lo studio fotografico accanto ci dà 8 scellini per un dollaro. Subito dopo, in strada ne offrono 10. C’è da fidarsi? Bisogna capire bene come funziona.
Prima di coricarmi faccio un riepilogo sulle inutili peripezie vissute in Somalia a causa della paranoia di riavere, all’uscita dal paese, tutti i rullini fotografici sequestrati dalla polizia aeroportuale, con le relative complicazioni di legge. Essendo la Somalia un paese in guerra è proibito scattare foto e in tanti, sia somali che italiani, ci avevano avvisati del rischio, al punto che eravamo convinti di essere attesi per uno specifico controllo all’aeroporto. Inoltre, alcune “vipere” somale ci avevano ricattato e denunciato alla polizia per quello. Non solo, ma essendo noi entrati in Somalia via terra, alla dogana con Gibuti nessuno ci ha dato quella carta tanto importante sulla valuta, obbligatoria per uscire dal paese. Quindi, tutti quanti ci avevano consigliato di uscire dalla Somalia via mare o via terra per evitare, nel modo più assoluto, l’aeroporto.
Ecco i tentativi di evitare l’aeroporto, in sintesi: 1) Non riusciamo a partire via mare ma, grazie a degli amici italiani, riesco a consegnare il sacchetto con i rullini a Pasquale, un marinaio italiano della Compagnia di navigazione Messina che va in Tanzania, Durban e poi torna in Italia. 2) Via terra, la pista per Kisimaio è diventata impraticabile per via delle piogge. 3) Pensiamo di arrivare a Kisimaio in aereo e da lì raggiungere il confine keniota via terra ma l’aereo è pieno per un mese. 4) Mohamud ci bidona con l’auto che va in Kenya via Dolo. 5) La nave italiana Alexa ci caricherebbe ma parte tra otto giorni, il nostro visto scade e per noi è troppo tardi. 6) Non rimane che andare all’aeroporto. Ci accordiamo con il consolato italiano in caso di problemi, convinti di essere bloccati. 7) Arrivati all’aeroporto nessuno ci ha considerati minimamente, zero problemi! Uno stress durato un mese per nulla, coi miei rullini su di una nave che ora siamo costretti a rincorrere.
La nave è partita da Mogadiscio domenica mattina, 15 aprile, lunedì sera era a Mombasa e giovedì 19 in Tanzania. Pasquale ci disse che sarebbero rimasti fermi a Dar es Salaam per 8-10 giorni circa. Pasquale, che mi ha fatto il piacere per evitarmi noie con la polizia somala, ci sta aspettando per ridarci i rullini. Domani è il 23 e dai nostri calcoli la nave dovrebbe restare in porto fino a venerdì 27 aprile. Il nostro itinerario è quello di ritirare i rullini e volare alle Seychelles dalla Tanzania. Vorremmo visitare Mombasa, ma non abbiamo tempo. Mi scrivo una sintesi del programma da domani a domenica 29: domani, lunedì 23 aprile, Nairobi; martedì 24, bus per Arusha; mercoledì 25, noleggiare un’auto e visitare il Parco Nazionale di Arusha; giovedì 26, bus per Dar es Salaam, alla sera ritirare i rullini da Pasquale; venerdì 27, prenotare volo per Zanzibar e per Seychelles; sabato 28, Zanzibar round trip; domenica 29, Victoria, Seychelles.
Lunedì 23 aprile, notte ancora insonne nonostante il fresco. A Mogadiscio faticavo a dormire per il troppo caldo, con l’aggiunta di mosche tediose, qui invece per la mente che funziona ed è impegnata a valutare la situazione. Colazione alla caffetteria dello Stanley: English breakfast con uova 30 scellini. Dal cameriere apprendiamo che tra la Tanzania filocinese ed il Kenya iper-capitalista non scorre buon sangue. Ci avverte: “Non c’è nessuna connection tra i due paesi, né aerea, né via terra e né via lago, le frontiere sono chiuse”. Spiega, inoltre: “Vogliono evitare che i turisti vadano nei parchi in Tanzania e poi tornino in Kenya a spendere”.
Il nostro programma comincia a vacillare e si inizia a valutare delle soluzioni alternative: forse da Mombasa c’è una nave cargo che va in Tanzania, ma non esiste alcuna ambasciata a cui rivolgersi per avere informazioni attendibili. Pare che l’unico modo per entrare in Tanzania sia da un'altra nazione che non sia il Kenya.
Ci indicano di rivolgerci all’Ufficio Immigrazione al piano terra della Bima House, dove effettivamente otteniamo subito e senza problemi sia il visto della Tanzania, valido tre mesi, che quello dell’Uganda. Per il visto del Burundi occorre andare al loro consolato, mentre quello del Rwanda lo si ottiene alla frontiera. Un funzionario sostiene che si può aggirare l’ostacolo via terra e suggerisce di prendere il bus da Nairobi a Kampala, in Uganda, proseguire in bus per Kigali, in Burundi, prendere un terzo bus per Bajumbura in Rwanda e infine un camion per Kigoma in Tanzania, sul lago Tanganika. Da lì, c’è l’aereo o anche il treno per Dar es Salaam.
Tornati al New Stanley, chiediamo ad altri occidentali presenti cosa ne pensano del nostro giro a nord del lago Victoria e tutti quanti lo sconsigliano vivamente: “Prima sembrava che il dittatore Idi Amin fosse caduto la settimana scorsa ma nessuno sa con certezza cosa stia accadendo in Uganda”. Interviene un indiano che pare il più informato: “Ieri è caduta la città di Jinja, che è sulla strada da Nairobi a Kampala, quella che vorreste fare voi. La guerra è ancora in corso”.
E ci mostra il giornale Kenya Daily che riporta i combattimenti di ieri a Jinja con oltre mille morti, di conseguenza i bus per Kampala sono sospesi, fanno capolinea al confine ugandese. Curioso che ci abbiano concesso il visto dell’Uganda con la guerra in corso. Siamo bloccati: le frontiere via terra sono chiuse, non ci sono voli diretti e arrivare in Tanzania volando prima in un altro paese dell’Africa occidentale è troppo caro. Ci danno anche un ulteriore notizia: dal piccolo aeroporto di Wilson effettuano voli regolari di Piper privati per Dar es Salaam e pare che costino meno dei voli di linea, ma bisogna attendere che ci siano sei passeggeri e occorre tempo. Sempre al bar del New Stanley, Yohannes Gziabher, un ragazzo eritreo-egiziano che parla italiano torna a ridarci fiducia; “Vi consiglio di provare via terra comunque. Se avete il visto vi fanno passare. Ogni giorno e ad ogni ora partono da River Road i taxi collettivi diretti a Namanga, città di confine con la Tanzania.
Si passa il confine a piedi e dall’altra parte ci sono i mezzi che vanno ad Arusha”. Aggiunge un dettaglio che da queste parti potrebbe anche avere un suo valore: “Se i doganieri fanno storie, ditegli che siete amici del dottor Seyum-Gabre Gziabher, manager dell’ONU ad Arusha: è mio zio”. Dice, inoltre, di avere un amico che va a Taveta, perché ha una fattoria sul confine, e ci darebbe un passaggio sul suo Range Rover, ma per noi è meglio provare a Namanga. Taveta è il confine che attraversai nel 1972, ad est del Kalimangiaro, mentre Namanga rimane ad ovest del monte ed è più vicina a Nairobi. Domani proviamo.
Capire come stanno le cose è sempre faticoso, bisogna prima seguire tutte le proprie teorie e vedere se combaciano con la realtà del luogo. Messoci l’animo in pace, finalmente possiamo goderci questa “green-town” modernissima e fornita di ogni prodotto e comfort come da noi in Occidente, tuttavia, nel complesso, a noi pare poco interessante. Arrivando dalla Somalia qui tutto è molto più caro.
I negozi non trattano avorio, a differenza di Sudan e Somalia, in Kenya è proibito per legge. Nella ristorazione dominano la scena il pollo fritto e gli hamburger in stile americano. Anche qui regna Wimpy. Dopo la pizza, buona, alla The Red Bull Pizzeria, ci infiliamo in un cinema per vedere “The Deer Hunter”, in Italia “Il Cacciatore”, del regista Michael Cimino, con Maryl Strrep, Robert de Niro e tanti altri. Film che un paio di settimane fa ha vinto l’Oscar a Los Angeles: molto bello, realizzato con tecniche innovative e seguirlo in lingua originale è ancora più coinvolgente.
Martedì 24 aprile, di primo mattino passiamo dall’ufficio turistico davanti all’Hilton per procurarci alcune mappe e alle 11 siamo alla stazione dei taxi per Namanga, paese distante 160km. Si parte solo quando il Peugeot familiare è pieno, ovvero 7 passeggeri più il driver. Partiamo alle 12,30, lungo la via vediamo giraffe, gazzelle e coloratissimi Masai armati di lance e col deretano nudo. Le donne indossano rotoli di collane e lunghi orecchini, tutto fatto con perline colorate.
Coloro che si tingono mani e piedi di una pasta color marrone, spiegano, non lo fanno per bellezza ma è un costume africano che permette loro di rinfrescarsi. I masai sono un popolo nomade nilotico che vive sugli altopiani tra Kenya e Tanzania. Siamo alle verdi falde del Kilimangiaro, visione stupenda del vulcano con la vetta innevata che s’innalza a cono per quasi 6 mila metri. Per la classe media degli inglesi residenti, il Kenya è un Paradiso.
Alle 14,30 siamo a Namanga, paese circondato da colline e situato tra i due confini. Per la dogana keniota nessun problema, per i tanzanesi, invece, insistiamo a oltranza ma invano. Anche menzionare il VIP dell’ONU non ha sortito risultati. Ci dicono che, per passare via terra dal Kenya, oltre al visto occorre anche un permesso speciale che il governo rilascia solo per posta. Inoltre, proprio in questi giorni, la Tanzania è in guerra con l’Uganda. Niente da fare, unica ed ultima possibilità rimane quella di andare a Mombasa e provare via mare: via mare non occorrono permessi speciali e saremmo in regola.
Alle 16 prendiamo il taxi dalla frontiera e alle 18 siamo di nuovo a Nairobi. Questa volta alloggiamo sempre in River Road ma al New Rwathia Hotel e Bar, angolo Latema Road, pieno di sguaiate prostitute keniote. L’hotel e le camere, per 35 scellini la doppia, sono in ordine. Allo stesso prezzo, in River Rd abbiamo visto il New Kenya Hotel, molto bello e con terrazzo in camera ma purtroppo è tutto pieno. Lasciamo lo zaino in camera e andiamo subito a cercare un mezzo per andare a Mombasa subito domani.
Mombasa dista 490km e le possibilità sono: minivan da 17 persone per 100 scellini, impiega 6-7 ore, il taxi collettivo per 120 scellini e il bus gestito da una simpatica ragazzina etiope che costa 70 scellini ma impiega ben 12 ore. Scegliamo il minivan.
Ceniamo con pesce fritto di lago, patate, verdure e una birra. Incontriamo Bart, il belga che era con noi sul traghetto da Aswan a Wadi Halfa, pure lui ha provato un paio di volte a passare in Tanzania via terra senza riuscirvi: “Ora mi sento bloccato in questo insignificante paese e me ne torno in Europa”. A Mombasa ci consiglia di alloggiare all’Hydro Hotel per 13 scellini a letto. Bart ci aggiorna anche sulla situazione in Uganda riportata dai giornali: “Ieri c’è stato un ammassamento di truppe di Amin alla frontiera con il Kenya, più di mille, spinti verso il confine dall’avanzare delle truppe di liberazione tanzaniane e ugandesi. Rifiutandosi di consegnare le armi, i kenioti non li hanno fatti passare e ora stanno rimediando verso il nord del paese per rifugiarsi in Sudan. Nella fuga molti militari di Amin sono morti per le mine volute proprio da Amin per coprirsi la ritirata”.
Mercoledì 25 aprile, alle 8,40 il minivan è pieno e si parte. Sui veicoli si percepisce l’odore particolarmente forte dei passeggeri. Il Kilimangiaro sulla nostra destra oggi è coperto da nubi e lungo il tragitto vediamo solo una giraffa e alcune scimmie. A differenza del 1972, il traffico su questa strada è aumentato e gli animali hanno ripiegato verso l’interno. A metà percorso il driver fa una sosta di 15 minuti per usare i bagni e mangiare un uovo bollito al volo. Arriviamo alla bella Mombasa alle 14,40, dopo sei ore esatte di viaggio non faticoso. Alloggiamo al Nord-Cost Lodge in Digo Road, dietro al distributore della Caltex e di fronte al mercato ortofrutta e all’Hydro hotel indicatoci da Bart. Andiamo subito al porto in taxi e, nonostante la polizia al gate principale non ci faccia entrare, giriamo lungo il perimetro e riusciamo ad entrare ugualmente. È un porto enorme ed importante, oltre al Kenya serve le altre nazioni dell’Africa orientale, consentendo il traffico da e verso l’Oceano Indiano.
Chiediamo in diverse navi mercantili se vanno in Tanzania finché dei marinai del Loyd Triestino ci dicono che la nave che stiamo cercando è ancora ferma qui a Mombasa. Il porto è grande, nel cercarla camminiamo per chilometri fin quando il medico di bordo del Vittoria, il cargo italiano che era ancorata al porto di Mogadiscio, ci cambia di nuovo lo scenario: “La nave Roberto Emme della compagnia Messina è partita ieri mattina per Durban, in Sud Africa. Hanno scaricato tutta la merce qui a Mombasa e non si fermano più in Tanzania”.
Non è il massimo del piacere però almeno adesso sappiamo come stanno le cose e non dobbiamo più correre: se non avessimo trovato il medico del Vittoria, avremmo continuato a darci da fare per andare in Tanzania e per nulla. Adesso è importante riuscire a spedire un telegramma a Pasquale a Durban per dirgli che porti i rullini in Italia, ma non conosciamo il cognome. I ragazzi dell’equipaggio del Vittoria tutti conoscono Pasquale ma nessuno ne conosce il cognome. Uno dice che il cognome di Pasquale lo conosce Sofia, la sordomuta somala che frequenta il “Sciasia”, un locale discoteca per marinai vicino al porto: “Lei ha vissuto con Pasquale e sa tutto, si trova nel locale dalle 21 all’una di notte”. E tutti subito si mettono a disquisire sulla vita notturna di Mombasa: “Le prostitute hanno un tesserino delle visite mediche.
Senza il tesserino, timbrato settimanalmente, non possono entrare nel locale”. Un altro Disco-bar simile nei pressi del porto è il Capri, mentre il Sunshine e il Florida sono fuori città. Il medico chiude il discorso sentenziando, in sintesi, che sono tutti “puttanai”. Se Sofia non sa dirci il cognome andremo a chiederlo all’ufficio immigrazione del porto. Abdullà, il giovane e simpatico manager della East African Shipping Line, ci aiuta a superare il blocco della polizia ed uscire dal porto senza problemi.