L’organizzazione internazionale per la quale lavoravo prendeva ogni tanto delle decisioni bizzarre, come quella per esempio di inviarmi, nel 2017, da Vienna a La Paz - un viaggio di quasi 11,000 chilometri - per tenere un corso di soli tre giorni a funzionari del governo boliviano sulle politiche antidroga dell’ONU (chissà cos’avrebbe detto la piccola Greta se l’avesse saputo …).
Io comunque, da sperimentato accidental tourist, pur nei ristrettissimi tempi che avevo e dopo aver adempiuto ai miei doveri ufficiali, trovai modo di farmi un’idea della città.
La Paz si trova in un vero e proprio imbuto, sul cui margine superiore, nella località di El Alto a 4150 metri d’altitudine, sorge l’aeroporto. Potete immaginare questo cono rovesciato un po’ come l’inferno di Dante, ma al contrario, nel senso che i più disgraziati stanno in alto, nell’aria rarefatta e sotto il sole implacabile delle Ande e i più fortunati sul fondo, dove a “soli” 3200 metri si respira meglio e cresce una stentata vegetazione.
Nel descrivere la città, cominciamo quindi con El Alto, la parte tradizionalmente più povera abitata da ex-contadini ed ex-minatori indigeni Quecha ed Aymara migrati dall’altipiano verso la capitale in cerca di una vita migliore, per passare per il centro storico e scendere poi a spirale verso il fondo, dove sorgono i quartieri residenziali dei “bianchi” ricchi. La mia visita fu agevolata dalle dieci linee di teleferiche che, dal 2014, collegano i vari quartieri e hanno grandemente contribuito all’omogeneizzazione sociale e razziale della città.
El Alto (dove giunsi nel cuore della notte in una tempesta di nevischio) mi apparve come un agglomerato di casupole e baracche, cani randagi, strade sterrate e cumuli di spazzatura. Sui muri, slogan politici (“Evo si”, “Evo no”) a testimonianza di uno dei tanti referendum indetti dal presidente-cocalero per prolungare il suo mandato (ne parleremo più avanti). Fra le precarie costruzioni spiccavano edifici dalle architetture bizzarre e i colori sgargianti, segno di recente arricchimento di parte della popolazione grazie alla coca-cocaina e all’estrazione di gas naturale. Insomma, una specie di “paese di acchiappacitrulli” non privo di una sua caotica originalità.
Il centro storico, che visitai l’indomani, si trova a quota 3600 metri e racchiude la parte coloniale meglio conservata della città: la basilica in pietra di San Francisco, del 1548, nello stile del barocco andino, e Plaza Murillo, su cui si affacciano la cattedrale, il parlamento e il palazzo presidenziale (detto Palacio Quemado perché dato alle fiamme in una delle tante guerre civili della storia boliviana). Davanti a quest’ultimo montavano la guardia soldatini indigeni infagottati nelle uniformi dell’ottocentesca Guerra del Pacifico, il disastroso conflitto col Cile che privò la Bolivia dell’accesso al mare (e il cui recupero è diventato la principale ossessione della politica estera boliviana).
Ovunque, mercati multicolori, fra cui il famoso Mercado de las Brujas (mercato delle streghe) dove vengono venduti amuleti per gli scongiuri, rimedi tradizionali e offerte per il culto della Pachamama (madre terra). Ebbi l’ardire di comprarmi un eqeqo, pupazzetto di terracotta portafortuna che però promette sconquassi se non lo si omaggia giornalmente con sigarette, acqua e chicchi di riso.
La cosa che più mi colpì fu l’atmosfera generale. Me l’ero immaginata cupa, come quella di altre città andine di mia conoscenza quali Puno, Huancayo o Cerro de Pasco in Perù. Invece, forse per la luminosità dell’aria d’alta quota o per i colori vivaci delle case, La Paz mi parve allegra e vitale e mi fece pensare ad altre città di montagna come Lhasa o Kathmandu, anche per la comune matrice asiatico-mongolica delle popolazioni (molto simili i tratti somatici, il folklore, l’artigianato e le lingue parlate).
Un “girone” sotto il centro, l’elegante paseo del Prado, con i suoi edifici in stile ottocentesco e infine, 500 metri più in basso, la parte meno interessante della città, quella dei quartieri residenziali ed esclusivi dei ricchi con edifici moderni, ville eleganti e parchi di radi eucalipti.
Una realtà complessa
Ma al di là della superficiale descrizione “turistica” della città, vorrei addentrarmi un po’ nella sua complessità sociale e politica.
Come accennavo sopra, la mia visita avvenne al tempo della presidenza di Evo Morales. Questi era una mia vecchia conoscenza in quanto, da leader sindacale dei cocaleros aveva, sin dagli anni Ottanta, dato del filo da torcere all’agenzia antidroga dell’ONU per la quale lavoravo, denunciandone i tentativi di riconvertire le coltivazioni di coca come una violazione imperialista della cultura indigena andina. Da presidente aveva poi partecipato a varie sessioni della Commissione sugli stupefacenti di Vienna, sempre accolto dalle ONG antiproibizioniste come una vera rock star.
Eletto nel 2005 quale primo presidente indigeno della Bolivia, fu poi rieletto per un secondo mandato (2009-2014) e poi per un terzo, tramite un referendum e un emendamento della costituzione. Sconfitto in un ulteriore plebiscito convocato per restare al potere, fu costretto alle dimissioni nel 2019.
La sua figura rimane controversa: i sostenitori di Morales hanno sottolineato la sua difesa dei diritti degli indigeni, l’antimperialismo e l’ambientalismo e gli hanno attribuito il merito di aver promosso una significativa crescita economica e la riduzione della povertà. Grazie anche al boom del gas naturale (e della cocaina) aumentò la spesa sociale e gli investimenti in scuole, ospedali e infrastrutture. I suoi detrattori invece gli imputano la creazione di un sistema di tipo populista-autoritario, utilizzato per limitare le libertà e i diritti democratici, manipolare i processi elettorali e perpetuare il suo potere. Oltre che di aver contribuito, con la sua opposizione alle politiche internazionali (e in primis degli Stati Uniti) per l’eliminazione della coca, alla produzione a al traffico di cocaina. Ai posteri l’ardua sentenza…
Un riferimento letterario
Chi ha avuto la pazienza di leggere i miei precedenti articoli sa che privilegio argomenti di “turismo letterario”, che valorizzano i luoghi attraverso gli scrittori e viceversa. Non sapendo nulla della letteratura boliviana mi rivolsi ad uno dei miei colleghi locali e ne ebbi l’ottimo consiglio di leggere il romanzo Los Ingenuos di Verónica Ormachea Gutiérrez. Il libro, che non mi risulta essere stato tradotto in italiano, è un romanzo storico che descrive la caduta e l'assassinio del presidente Gualberto Villarroel e la rivoluzione del 1952 promossi dal Movimiento Nacionalista Revolucionario (MNR). In particolare rievoca, attraverso gli occhi di una giovane donna dell’alta società, Juliana Tezanos Pinto, i terribili atti di violenza che ebbero luogo tra il 1952 e il 1956 sotto le presidenze di Víctor Paz Estenssoro ed Hernán Siles Zuazo.
Per sommi capi: Juliana è una ragazza bella e appassionata che cresce nel seno di una ricca famiglia dell’oligarchia, dove sentir parlare di politica è il pane quotidiano e disprezzare i cholos (meticci) e gli indios è qualcosa di naturale. All’inizio del romanzo osserva sconcertata dalla sua casa i corpi di Villarroel e di due suoi fedeli collaboratori ondeggiare dai lampioni di Plaza Murillo. Seguono retate e arresti, espropri e persecuzioni che Verónica Ormachea descrive in tutta la loro crudeltà (il carcere di San Pedro e i campi di concentramento dove i prigionieri, oppositori e membri dell’”oligarchia”, vengono torturati umiliati e sottomessi con percosse e fame). I Tezanos Pinto decidono di trasferirsi in campagna, nella bella villa di famiglia. Ma una volta decretata la Riforma Agraria, i contadini si impadroniscono della terra uccidono il padre di Juliana con bastoni e pietre e incendiano la casa. Fortunatamente per Juliana, Sebastián, un famiglio meticcio dei Tezanos Pinto diventato un pezzo grosso della rivoluzione e che da sempre ama la donna, accetta, nonostante i suoi risentimenti di aiutare i suoi ex datori di lavoro a partire per l'esilio in Cile.
Verónica Ormachea descrive gli eventi con precisione, conoscenza della realtà storica e abilità descrittiva. In conclusione, siamo in presenza di una scrittrice di talento, spogliata di pregiudizi razziali e sociali e che meriterebbe di essere meglio conosciuta fuori dal suo paese.
E per finire con le considerazioni storico-politiche, non si può scrivere della Bolivia senza rievocare l’icona della mia generazione, il Che Guevara, fulgido modello della riscossa delle periferie terzomondiste contro le metropoli colonialiste. In realtà credo che il povero Che, col suo massimalistico approccio internazionalista, non avesse colto la complessa realtà politica boliviana che ho sopra descritto. Visto dagli indigeni come uno “straniero” e un “bianco” era probabilmente destinato ad andare incontro alla morte nella giungla, nell’ottobre del 1967.
Per concludere
Per alleggerire questo pezzo troppo carico di considerazioni socio-politiche, un aneddoto finale. Nel corso del mio breve soggiorno, il rappresentante della mia agenzia a La Paz insistette perché l’accompagnassi in quello che considerava il miglior ristorante della città (dai prezzi proibitivi) per un’esperienza a suo dire indimenticabile. Il ristorante, di cui non faccio il nome e che appartiene ad una famosa catena gastronomica scandinava di cui non faccio il nome, ha per lemma “crediamo di poter cambiare il mondo attraverso il cibo” (addirittura!). Nella sala ci accolse un curioso personaggio nordico, a metà strada fra un efebo e un folletto, dai capelli giallo canarino, la camicia verde pisello e i pantaloni rosa confetto, che, nel presentarci il menu, ci tenne un pistolotto di mezz’ora sulla “filosofia” del gruppo.
La Bolivia contava su prodotti eccezionali - tutti naturalmente “ancestrali”, “bio” e “sostenibili” - ma i “poveri” boliviani andavano edotti dal superiore sapere europeo sul modo di trattarli e cucinarli adeguatamente. Insomma un misto insopportabile di paternalismo neo-colonialista, luoghi comuni politically correct e quell’esotismo di bassa lega che gli europei invariabilmente adottano quando parlano di America latina. I piatti poi si rivelarono immangiabili: carpaccio di alligatore con papaya verde, lama affumicato, tartare di trota amazzonica con mango ecc. (per fortuna le porzioni erano minuscole).
I colleghi locali, impietositi dalla mia esperienza e volendo riscattare il buon nome gastronomico del loro paese mi portarono l’indomani in un “vero” ristorante boliviano dove gustai empanadas, ottime e fumanti zuppe, charqui (carne secca) e humitas (polentine ripiene di pollo, avvolte nelle foglie di mais e cotte al vapore), che contribuirono a lasciarmi un buon ricordo della città.