Sono a Londra (1976) ospite del gruppo “Henry Cow”, che proprio in quel periodo iniziava la sua scalata al successo, con la foto della band pubblicata sulla copertina di Time Out. Sono qui, non perché musicista o fan, ma per puro caso. Anni prima, mentre Adriano Malavasi e io percorrevamo il litorale della costa spagnola, a bordo della mia Dyane 4 nuova (intenzionati a completare il giro del Mediterraneo), caricammo Maggie e Peter, due autostoppisti che si rivelarono personaggi straordinari, entrambi nati in Africa da genitori inglesi e trasferitisi poi, a Londra, da adolescenti. Visitammo insieme il Portogallo ed il Marocco, dando inizio ad un’amicizia che si protrasse per parecchi anni. In quel dicembre del ‘76 Maggie e Peter si erano lasciati e, nonostante ciò, mi ospitarono nella loro casa, divisa in armonia coi rispettivi nuovi partner: Maggie e Christian (batterista degli Henry Cow), poi, Alice (pittrice) e Peter. Abitava con loro anche Phill, il giovane direttore della casa discografica Virgin. Così passavo le giornate a sentire prove e vedere concerti da dietro le quinte: un vero spasso!
All’epoca, gli attentati compiuti nel nord Irlanda contro obiettivi inglesi e protestanti da parte dell’esercito clandestino dell’IRA (Irish Republican Army, formato da paramilitari cattolici integralisti in lotta per la secessione della regione qui chiamata Ulster, considerata da Londra parte integrante della Gran Bretagna), riempivano i telegiornali e, anche tra noi, si parlava molto del problema, tanto da farmi nascere il desiderio di andare a vedere di persona che atmosfera si respirava sul posto…
Qualche giorno più tardi, saluto gli amici e mi reco in autostop a Holyhead, punto d’imbarco per il traghetto diretto a Dublino. Dopo un sabato di fuoco passato nella capitale irlandese, con ubriachi e scazzottate da far west per le vie del centro (a testimonianza del carattere irruento di questo popolo dai capelli rossi), prendo il treno per Belfast, dove, in serata, alloggio in una pensione guarnita di tappeti e tendaggi unti e bisunti, in linea con lo stile trascurato di tanti alberghetti anglosassoni. Nella sala Tv un signore, particolarmente adirato per la politica di Nixon, mi ripete all’infinito che ‘non ha mai visto un popolo più stupido di quello americano’ associando la frase ad un ritornello vibrante che non posso esimermi dal ripetere: they like to destroy them-selves! (“amano auto-distruggersi”). Lo stesso signore, però, è felice di conversare sul problema irlandese con uno straniero e mi concede un breve sunto storico della situazione politica dell’Ulster.
L’organizzazione nazionalistica dell’IRA fu creata nel 1919, alla proclamazione unilaterale dell’indipendenza dell’Irlanda da parte del movimento Sinn Fèin (noi stessi, in gaelico), il principale antagonista nel conflitto con la Gran Bretagna. Dopo il trattato di Londra del 1921, che divise l’Irlanda, una parte dell’IRA rifiutò di abbandonare la lotta per l’unificazione del paese e fu allora dichiarata fuorilegge dal nuovo governo di Dublino. All’IRA ufficiale s’oppose una IRA dissidente, detta “provisional”, che tuttora sostiene la lotta armata, con i metodi della guerriglia e del terrorismo urbano, convinta che sia l’unico mezzo capace di costringere le truppe britanniche a lasciare il nord dell’isola. Oltre ai soldati britannici di stanza nell’Ulster, nel corso degli anni ’60 e ’70 i radicali dell’IRA hanno esteso la propria azione terroristica contro i protestanti, ma anche verso obiettivi politici nella stessa Inghilterra.
Il mattino seguente, di buon’ora, mi dirigo a piedi verso il centro, ansioso di documentare la situazione con la mia Nikon F3 armata di zoom 70-210. Noto subito un’infinità di militari con giubbetti antiproiettile, disseminati un po’ ovunque, che controllano le auto in transito attorno all’area centrale. I segni della guerriglia sono molto più evidenti di quanto si potesse immaginare guardando la televisione a casa. Dovunque edifici e chiese sventrate ed annerite dal fumo di esplosioni devastanti, palazzi pericolanti recintati da palizzate di legno su cui sta scritto BOMB DAMAGE. La scorsa notte è saltata anche un’ala della stazione dei treni ed una scritta frettolosa col gesso avvisa i passeggeri che non ci sono più strutture di conforto: due to bomb demage there are no toilet and facilities at this station.
Nei quartieri periferici le case distrutte e abbandonate aumentano di numero, così come le carcasse d’auto fatte esplodere e lasciate a bordo strada. Dalle finestre degli edifici condominiali, qua e là, sono esposti dei drappi con la scritta FUCK ARMY a caratteri cubitali, una provocazione sottolineata, con estremo disprezzo, da famiglie di religione cattolica, incuranti di ritorsioni o altro. Gruppi di militari perlustrano le strade, armati di tutto punto, camminano tra gente indifferente, ormai abituata alla loro presenza. Ogni 30-40 metri i soldati fanno improvvisi balzi felini, guardando verso l’alto, come per evitare imboscate di cecchini appostati dietro qualche finestra. Nonostante ciò la gente continua a fare le proprie compere senza degnarli di uno sguardo. Continui caroselli di autoblindo e landrover dell’esercito in formazione, stracarichi di soldati concentrati sui loro M16 rivolti ai piani alti delle case, contribuiscono a rendere l’atmosfera di Belfast assurdamente irreale. Da prima linea.
Eccitato per l’abbondanza di scenari d’eccezione, inizio a scattare immagini in tutte le direzioni, quando, in un crocevia, tre blindati si fermano a una trentina di metri. I militari escono a frotte dai portelloni posteriori e, invece di venire verso di me, occupano subito i quattro angoli dell’incrocio. Un gruppo di loro attende il via libera prima di avvicinarsi, facendo un ampio giro intorno a me: “tipiche strategie da anti-guerriglia urbana”. Poi, via radio danno i miei dati alla centrale e solo dopo il controllo mi salutano gentilmente, con la raccomandazione di fare attenzione. Addirittura, un giovanissimo soldato scozzese mi consiglia di visitare la cittadina storica di Sterling, a nord di Glasgow, ed io, una volta lasciato l’Ulster, seguirò il suo consiglio.
Poco dopo inquadro con l’obiettivo un gruppo di militari con cani lupo al guinzaglio e vengo avvicinato bruscamente per un ulteriore controllo. Segnalano la mia presenza, uno spaghetti-reporter, ma alla centrale li rassicurano che hanno già i miei dati. Nell’arco di due ore mi fermano sei volte, mi consigliano di interrompere il mio reportage e di “mettermi quieto": sono seccati di registrare segnalazioni sulla mia persona. Nell’ora seguente mi fermano ancora tre volte e in questa occasione minacciano l’arresto, convinti che li stia prendendo in giro all’”italiana”, mentalità intollerabile da queste parti. Tuttavia, c’è ancora molto da vedere e la mia sete è lungi dall’essere placata. Non posso però esagerare, pertanto mi metto in cerca di un osservatorio particolare, un punto in cui sia possibile fotografare senza essere visti.
Mi accodo alla fila per la perquisizione al gate che introduce al centro storico della città, completamente delimitato da alte cancellate in ferro. Le vie del centro sono ricche di immagini degne di scatti e fremo, finché trovo ciò che cercavo: un bar coi tavoli dietro una grande vetrata, affacciata sulla piazza centrale. Ordino una specie di cappuccino e mi perdo qualche attimo ad osservare l’attività da vertigini dei puliscivetri locali che, dal secondo e terzo piano, escono in piedi sul davanzale e si muovono da una finestra all’altra con estrema disinvoltura, senza alcuna imbragatura o appiglio che non siano le loro mani. Fotografo col massimo relax, senza problemi di controlli, quando, all’improvviso, vedo una crescente agitazione collettiva: gente e militari che corrono in tutte le direzioni proprio davanti al mio “osservatorio”. Scatto a raffica quando, nel pieno del mio furore creativo, entra nel locale un militare stralunato che ordina a gran voce di uscire di corsa perché sta per esplodere una bomba!
Segue un fuggi fuggi generale, il proprietario estrae rapidissimo il cassetto con l’incasso ed io rimango solo nel locale per altri pochi ma intensissimi minuti ad immortalare scene di autentico panico. Un’opportunità talmente ghiotta da rendermi incurante del rischio e insensibile alla paura. Quando finalmente mi decido ad uscire, sulla soglia della porta sento una forte deflagrazione ed alcuni vetri in frantumi mi cadono addosso. La bomba è esplosa all’interno dei grandi magazzini Woolworth (uno dei simboli del dominio economico britannico), con l’ingresso accanto alla porta del bar, e il massiccio edificio di tre piani è completamente in fiamme. Per la violenza dell’esplosione, anche il palazzo di cinque piani posto alle spalle del famoso megastore sta bruciando. Arrivano i pompieri con numerose cisterne, lunghe scale e idranti, si adoperano con grande perizia e vigore, mentre la folla applaude all’incendio indirizzando frasi di scherno ed insulti ai militari britannici. Fortunatamente, per evitare vittime i militanti dell’IRA hanno telefonato alla polizia pochi minuti prima dello scoppio. Non potevo sperare di meglio: non ho neppure pagato il cappuccino!
Ho esaudito un mio desiderio primario, ora mi sono fatto un’idea più realistica riguardo l’atmosfera che si respira per le strade di Belfast… e sono pronto a continuare il viaggio.