Il mondo dell’informazione nel nostro Paese e in tutto il contesto internazionale languisce allo sbando, governato da poteri finanziari sovranazionali che manipolano i media e attraverso di essi le nostre coscienze. Invece che rendere i suoi addetti, i giornalisti, onorevoli paladini della Verità, è attualmente diventato lo strumento più importante della costruzione della Menzogna. Il cittadino viene sopraffatto da migliaia di notizie martellanti, da slogan sempre più semplificati e pervasivi che conducono la mente, infastidita dal chiasso, ad essere sempre più impermeabile e ancor più incapace di praticare l’esercizio dello spirito critico e di dubitare di quanto non convince.

L’accesso, inoltre, all’illimitato universo delle notizie incontrollate del mondo virtuale, più che un mezzo di conoscenza, è diventato uno strumento di confusione.

L’uomo moderno vaga nel caos indistinto e confuso delle miriadi di notizie che nuotano alla fine nel nostro inconscio malato di sensazionalismo, di perbenismo e politically correct.

Per orientarci in questo universo indefinito abbiamo oggi intervistato un esperto di comunicazione, Roberto Roggero, direttore responsabile di Assadakah News, agenzia stampa e informazione online che lavora in affiancamento alla ben nota Associazione Assadakah, che in arabo significa “Amicizia”, vicedirettore di StoriaVerità, “rivista online di studi storici politicamente scorretta”, dagli anni Novanta reporter di guerra freelance, esordendo con Sarajevo e poi il Kosovo.

Le sue inchieste sulla criminalità organizzata, i cartelli del narcotraffico in Messico, e i servizi segreti di numerosi Paesi, il lavoro in diverse zone di conflitto in Medio Oriente fra cui Afghanistan, Iraq, Kuwait, Libano, Siria, Yemen, Libia, Iran, Giordania, Oman, e Qatar, la sua collaborazione con l’”Istituto di Cultura e Studi Militari” (ICSM), e l’entrata nella prestigiosa “International Reporters & Editors Association della Missouri School of Journalism”, lo portano ad essere una di quelle figure chiave per recuperare il ruolo del giornalismo d’inchiesta e del reportage di guerra indipendente dalla verità mainstream e da schemi preordinati o, come si dice oggi, embedded. In sostanza, il controcorrente, dove spesso si trova la vera realtà.

All’articolo 2 del Titolo I della Carta Dei Doveri Del Giornalista (sottoscritta dal Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti e dalla Federazione Nazionale della Stampa Italiana l’8 luglio 1993) il primo dei Fondamenti deontologici recita: “Il giornalista: a) difende il diritto all’informazione e la libertà di opinione di ogni persona; per questo ricerca, raccoglie, elabora e diffonde con la maggiore accuratezza possibile ogni dato o notizia di pubblico interesse secondo la verità sostanziale dei fatti…”. Se Gaber fosse ancora vivo ti chiederebbe “dove l’ha messa la Verità il giornalista?”

Gaber sarebbe stato un ottimo reporter di guerra freelance, e i suoi testi lo dimostrano: veritiero, ironico e soprattutto autoironico, a volte spietato, sintetico e diretto nelle denunce contro ipocrisia e menzogna, e contro i poteri precostituiti di ogni bandiera e colore. Nel nostro mondo globalizzato, la verità è di fronte agli occhi di tutti se si sa dove cercarla, ovvero fra le pieghe delle mezze verità, mezze menzogne, del dire tutto per non dire niente… il giornalista deve offrire gli strumenti ed essere il filtro o lo strumento che chi cerca la realtà dell’informazione può utilizzare. Oggi una guerra si segue in tempo reale, eppure c’è sempre chi cerca di distorcere la realtà dei fatti. Il primo nemico della libera informazione è l’informazione stessa.

La situazione italiana è peggiore o migliore di quella internazionale?

È una domanda un po’ troppo generica…in questi termini, la situazione italiana è migliore di alcune e peggiore di altre… servirebbe un termine di paragone più preciso, e comunque, secondo l’ultimo rapporto 2023 di Reporter Sans Frontieres, l’Italia occupa una ben poco onorevole 41° posizione nella graduatoria della libertà di stampa e informazione. Una buona notizia se si pensa che nel 2022 era al 58° posto. Pur in un panorama mediatico che garantisce il pluralismo, il quadro normativo risente ancora di una certa paralisi legislativa. Inoltre, esistono disinformazione, propaganda, intelligenza artificiale e altro ancora, minacce che mettono a rischio la libertà di informazione.

Rispetto a una situazione come può essere quella della Corea del Nord è certo migliore, rispetto a quella dei Paesi del Nord Europa è peggiore, ma visto che l’informazione mainstream è amministrata più o meno dai grandi network multinazionali, bisogna distinguere: pur avverso allo stile politico americano, devo ammettere che negli Stati Uniti è un fatto riconosciuto che la maggior parte dell’informazione arrivi dai giornalisti indipendenti, mentre quelli che lavorano in grandi strutture, hanno più possibilità di agire e scrivere la verità… insomma, due giornalisti, tali Bob Woordward e Leo Bernstein, hanno fatto dimettere un presidente… qui da noi non credo sia possibile… però non sarebbe mica male…!

Come si orienta Assadakah News per cercare la verità delle notizie?

Anzitutto va detto che tutto parte dalla associazione Assadakah, attiva da trent’anni e con riconoscimento ufficiale della Lega Araba, poi il testimone è passato ad Assadakah News, che ha saputo costruire una solida rete di corrispondenti nella maggior parte dei Paesi arabi, con amici e colleghi del posto. Dal punto di vista internazionale, si lavora per fare in modo che le differenze uniscano anziché dividere, per la cooperazione, la convivenza e la pace, e possiamo vantare oltre venti collaboratori di alto livello, in zone non certo battute da molti…Siamo gli unici ad avere un corrispondente da Teheran, fra i pochissimi ad avere un collegamento diretto con Gaza, poi a Beirut, a Riyadh, e grazie alle ambasciate, abbiamo contatti diretti con i governi dei Paesi arabi. Insomma, si lavora dalla strada al palazzo, coprendo vari aspetti e lavorando per essere un collegamento a due sensi fra Italia e mondo arabo. In Italia abbiamo collaboratori altrettanto validi ed esperti, docenti, personalità del mondo della cultura, giornalisti di provata esperienza, per pubblicare in italiano, inglese, francese, armeno e arabo. Naturalmente a monte di tutto si lavora secondo rigidi principi professionali.

Cosa significa andare a raccogliere notizie nei luoghi di guerra?

Un insieme di sensazioni, un uragano di emozioni. Si è presi dall’irrefrenabile desiderio di sapere, vedere, verificare, farsi attraversare dalla verità, documentarla, divulgarla, dire a tutti: ‘Guardate, ecco perché! Ecco cosa succede davvero! Quando si vedono in tv i jet che decollano facendo fiammate dal culo, bisogna pensare che vanno a gettare missili e bombe su gente impotente. Diverse volte mi sono trovato proprio fra quella gente impotente… È come prendersela con un vecchio, un cane, un gatto, o un bambino…E a che scopo poi? È mai cambiato qualcosa?

Quali luoghi dove sei stato inviato di guerra ti hanno reso più difficile esercitare il Diritto di cui all’Articolo 1 del succitato documento, ossia la “Libertà d’informazione e di critica”?

Questa è come il concetto che sta scritto nelle aule dei tribunali… ‘La legge è uguale per tutti’… O come l’Articolo 11 della Costituzione nella quale si legge che L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà di altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali. Due fra le barzellette più praticate di sempre…

Ho trovato difficoltà da tutte le parti. Lo dicevo prima: il primo nemico della libera informazione, è l’informazione stessa. Nei Balcani regnava la Nato, e si è visto dove si sta andando a finire con l’Ucraina…In Iraq e Kuwait la stampa era totalmente blindata…ma dopo aver passato tre mesi laggiù, ci ho messo un anno a vedere pubblicato il libro sulle verità di quella guerra apprese sul posto, e dopo essere stato costretto a ritoccare il titolo e obbligato a volgere alcuni verbi al condizionale. Lo Yemen poi è stato tragico. In Libano il reportage è stato più agevole, ma più o meno in quanto freelance ho sempre trovato difficoltà, a volte di più a volte di meno.

Il discorso sulla libertà di critica e informazione è aperto da tempi immemorabili, per altro in continuo mutamento. Oggi i fondamenti sono virtuali, sono i social media, e proprio su questo discorso ho avuto esperienze dirette: con alcuni amici e colleghi gestivo una pagina di informazione senza censura su testi e soprattutto foto, si chiamava ‘No Mans Land - Notizie in prima linea’, dalle zone di crisi di mezzo mondo…evidentemente scomoda, perché dopo un paio d’anni è stata chiusa, rimossa e allo stesso modo il sottoscritto.

La Guerra è un brutto affare, ma soprattutto in questi momenti si rivela l’umanità della gente colpita da “disumanità”. Hai un episodio che ti ha colpito particolarmente?

Molti, davvero molti, nel bene e nel male…In Iraq, durante una perlustrazione con una pattuglia, abbiamo salvato la vita a una donna che era stata morsa dalla vipera del deserto…in Kurdistan ho conosciuto le leonesse, le combattenti del battaglione di sole donne e madri, che cucinavano per i figli con l’Ak47 in spalla, prima di andare a combattere, molto temute dagli stessi soldati uomini, che non si auguravano di cadere vivi nelle loro mani… In Kosovo, un combattente dell’UCK mi diceva che non avrebbe esitato a uccidermi se fosse stato necessario contendersi un cavallo morto per fare mangiare la famiglia, e uccidermi tagliandomi la gola con il coltello, perché uno sparo avrebbe potuto richiamare altri indesiderati.

Ho un amico, un insegnante di inglese alle scuole medie, che vive a Idlib, in Siria, arrestato e torturato dalla polizia di Assad, in quanto insegnante di inglese, oggi vive in un territorio ancora in guerra, amministrato dal gruppo Tahrir Al-Sham, fondamentalisti collegati all’Isis, e ogni volta che lo contatto per sapere come sta, quando ci salutiamo è lui a dire a me ‘Take care!’ Grazie a lui, e al fatto che da piccolo era a scuola con uno dei capi di Tahrir Al-Sham, ho potuto attraversare il territorio e raggiungere la zona del terremoto che, nel febbraio 2023, aveva colpito lungo il confine con la Turchia.

A Samarra, in Iraq, ho visto i soldati americani prendere a calci in testa alcune persone ammanettate a terra… Sono stato multato di cinque dollari perché fumavo una sigaretta fuori dalla zona limitata, nel campo militare americano in pieno deserto iracheno, e a nulla è servito rispondere che mi sentivo preso in giro visto che loro stavano sganciando più bombe che in Vietnam su tutto il Paese, permettevano l’entrata e la circolazione di prodotti marchiati Made in China, si erano portati appresso McDonald, Duty Free e altri pezzi d’America, democrazia compresa. Potrei andare avanti, ma qui mi fermo…

Quale Paese ti ha affascinato di più e per quali ragioni, culturali, storiche, antropologiche, artistiche, ecc.?

Ogni Paese mi ha segnato, per ciò che ho visto, sentito, vissuto, sempre fra la gente della strada. Per cultura e storia, ragioni antropologiche, artistiche, il Sultanato dell’Oman è un Paese meraviglioso, ma devo dire lo stesso per Libano, Giordania, Yemen, Iraq, Messico, insomma tutti, per un motivo o per l’altro, e per gli amici che ho conosciuto e con i quali sono in contatto e lavoro ancora oggi.

Com’è il rapporto tra i colleghi dell’informazione nelle zone di guerra?

Dipende da persone, situazioni, condizioni, contesti e obiettivi…Mi sono capitate avventure bellissime con un collega freelance olandese ai confini dell’Afghanistan, e ho litigato con colleghi italiani a Baghdad…comunque in genere ci si dà una mano, ci si aiuta gli uni con gli altri. Fra l’altro uno dei miei migliori amici e colleghi è di Beirut, conosciuto in Libano.

A proposito, fra le relazioni stabilite con i giornalisti che operano in luoghi difficili, hai stretto un rapporto di profonda amicizia con il celebre reporter Talal Khrais. Com’è nata questa relazione e come ha cambiato la tua vita?

Talal Khrais… non per fare sviolinate, lo dico sinceramente: una persona con un cuore grande come il mondo, e fra i più corretti e professionalmente preparati. Ci siamo incontrati la prima volta all’aeroporto di Beirut, dov’ero arrivato per un reportage. Mi ha aperto la sua casa (che oggi non esiste più a causa delle bombe israeliane) mi ha assistito come fosse un fratello maggiore, grazie a lui ho potuto incontrare persone alle quali i giornalisti occidentali non riescono ad arrivare, alcuni fra i vertici di Hezbollah, personalità di governo, della cultura. Sono stato ospitato in una delle trasmissioni di attualità negli studi di uno dei network più seguiti del mondo arabo, ho visitato luoghi incantati, e ho conosciuto i suoi fratelli e sorelle, e suo figlio. Insomma, mi ha accolto come fossi uno di famiglia.

Da quel momento ho iniziato la collaborazione con la associazione Assadakah, che Talal ha fondato nel dicembre 1994, cioè esattamente trent’anni fa. Posso davvero dire che l’incontro con Talal è stato una svolta, dal punto di vista professionale ma soprattutto personale. Abbiamo avuto le stesse esperienze come reporters di guerra, anche lui ha rischiato più volte e ha vissuto situazioni di emergenza, intendiamo il lavoro allo stesso modo, e da allora abbiamo superato insieme numerose sfide. Lui adesso sta attraversando un periodo difficile, per quanto sta accadendo in Libano, dove per altro ho lasciato un pezzo di cuore.

Fin da giovane hai praticato la comunicazione non solo scritta, ma anche per immagini. Quale situazione ha suscitato la tua passione per la fotografia?

Lo devo a mio padre, che quando ero ragazzino praticava fotografia per passione, specialmente microfotografia. Insetti, fiori, piccoli particolari, il fascino del bianco e nero… Ho cominciato così.

Quali regole scritte o non scritte adotti, quale stile hai stabilito debbano avere gli scatti effettuati in territori sconvolti dalla distruzione?

Bella domanda… le uniche regole scritte sono quelle tecniche, ma in situazioni di rischio contano fino a un certo punto. Poi entra in campo l’esperienza, e le regole principali sono quelle dell’istinto, delle emozioni. Se non mi piacessero le emozioni forti non avrei scelto questo lavoro, e in questo senso, ogni giorno si impara una nuova regola, non scritta. Con uno scatto voglio comunicare e fare sentire quello che ho sentito e visto io. Come mi succede ogni volta che riguardo qualche foto: rivivo ogni momento, sensazione, odore, sapore, rumore, emozione.

La comunicazione per immagini è molto più antica della parola scritta, la adottavano già i nostri antenati nelle grotte della preistoria, quanto è importante la fotografia nella redazione di un articolo?

È fondamentale. Una foto può costituire già da sola una notizia completa. Non faccio certo una scoperta dicendo che viviamo ormai immersi nella civiltà dell’immagine. Leggere non basta più, si vuole vedere. Venendo dalla carta stampata interpreto in genere un’immagine come sostegno a un articolo, un completamento, ma non è sempre così.

Le ultime mostre fotografiche confermano questa tendenza, e va bene così. In Iraq ho scattato l’istantanea che, fra le diverse centinaia, più di tutte ha segnato il lavoro che faccio: due bambini di circa dieci o dodici anni al massimo che, con atteggiamento completamente indifferente e disinteressato, osservano un morto in mezzo alla strada, ucciso con un colpo alla testa. Una scena agghiacciante, che denuncia un sacco di cose…In questo caso non serve alcun articolo, né trovo necessario sottolineare luogo, o giorno. È una immagine purtroppo costantemente attuale.

I tuoi articoli sono scritti per un pubblico colto e informato o sono rivolti anche all’uomo della strada?

Naturalmente tutti. Il nocciolo della comunicazione è la semplicità diretta, la sintesi, il linguaggio della strada, della gente, non delle aule accademiche o dei consigli di amministrazione o dei ministeri. L’uomo colto e informato è comunque in grado di capire un linguaggio semplice e diretto, quindi la scelta è automatica.

Quanto è impegnativo il lavoro di ricerca della notizia e il comandamento della Verità nella Babele dell’informazione attuale?

Molto difficile e faticoso. È un lavoro quasi strategico, nel grande, immenso marasma di notizie vere, false, mezze vere e mezze false, e nel continuo bombardamento mediatico. Per questo è importante il discorso della foto: una immagine parla tutte le lingue, nella grande Babele…posto che oggi anche una foto si può costruire ad arte, più vera del vero… Quando poi si ha coscienza che l’informazione è un’arma fra le più potenti, entrano in campo numerosi elementi di corredo, ad esempio l’indirizzare una massa verso una precisa opinione, la disinformazione, le differenti opinioni, istillare il dubbio e al tempo stesso fare in modo che il dubbio sia il motore delle nostre azioni. Il famoso Otto von Bismarck diceva che ‘non si mente mai come dopo una battuta di caccia, una notte con una donna o una guerra’, per cui arrivare alla verità è sempre più arduo.

La tua passione per la storia ti ha spinto ad essere Vicedirettore della rivista di studi storici StoriaVerità, quale impegno comporta questo tuo ruolo e a quale target di lettore è rivolta questa rivista?

Non è che sono stato spinto… Il tutto è cominciato oltre trent’anni fa, con l’incontro con un altro carissimo amico e collega, Alberto Rosselli, a sua volta per anni reporter di guerra, con esperienze simili, anzi uguali, e ricercatore storico. StoriaVerità è nato come mensile cartaceo, poi ha seguito l’evoluzione, anzi “l’involuzione” di molte testate, e si è stabilizzato online, anche se stiamo pensando una edizione cartacea celebrativa. È una rivista che annovera autori di richiamo nazionale e internazionale, filosofi, sociologi, docenti universitari, scrittori e storici, all’insegna del revisionismo, alla scoperta dei coni d’ombra degli avvenimenti, quindi è logico il fatto che sia ‘politicamente scorretta’. Il target è universale, a 360 gradi, ma le scelte redazionali sono di alto livello.

Recentemente hai avuto un riconoscimento importante, hai ricevuto il tesserino come membro onorario della Investigative Reporters&Editors Association della Missouri School of Journalism, cosa significa per te e per Assadakah News, quale percorso è stato necessario per raggiungere questo risultato?

La Missouri School of Journalism è una prestigiosa istituzione, e la Investigative Reporters & Editors Association è altrettanto nota, nell’ambiente degli addetti ai lavori. È un onore fare parte di quella organizzazione. I premi certo sono un gratificante riconoscimento, e sarà pure scontato e retorico dire che non sono un traguardo, ma uno stimolo a insistere con volontà sempre maggiore, ma è davvero così. Fa indubbiamente piacere avere un riconoscimento del proprio impegno, come è avvenuto anche con il Premio Puccini, o il Premio Internazionale Giornalistico-Letterario Marzani, ma sinceramente mi interessa fino a un certo punto. Vorrei fossero riconoscimenti per la categoria del giornalismo freelance, per la quale, almeno in Italia, non esiste ancora un giusto riconoscimento professionale. Non a caso siamo definiti ‘quelli senza paracadute’.

Un messaggio ai colleghi giornalisti per recuperare questa figura professionale che oggi non gode di ottima salute.

Sono l’ultimo in grado di dare consigli… posso parlare per la mia personale esperienza. I miei valori e i concetti sui quali mi baso possono essere diversi da quelli di altri o avere diversa importanza. L’unico valore al quale rimanere fedeli è la verità oggettiva, comprovata da opportune verifiche delle fonti. Certo il giornalista dovrebbe avere il dovere deontologico di non schierarsi e restare al di sopra delle parti, ma non credo sia mai stato possibile.

Cosa diresti a un giovane che intende prepararsi per questa professione?

Quello che ho appena detto, ma ci si deve ricordare che l’informazione oggi non è come vent’anni fa, e scegliere il giornalismo è più difficile. Scegliere poi il giornalismo di guerra lo è ancora di più, comporta rinunce, rischio, paura, passione e un sacco di altre cose, e soprattutto nessuno si illuda che il corrispondente di guerra freelance possa diventare ricco con questo lavoro, se si spera in questo non vale nemmeno la pena di cominciare. Mi ritengo fortunato di appartenere alla generazione che ha vissuto il passaggio dall’analogico al digitale, dalla carta allo schermo, dal pensiero scritto di senso compiuto all’emoticon, perché posso discernere e valutare.

Oggi la tecnologia offre più possibilità, ma alla base ci deve sempre essere la scelta. È sempre questione di scelte, di restare fedeli a queste scelte, con tutte le conseguenze che comporta…Con questo vorrei che ci fossero migliaia di ragazzi intenzionati a intraprendere questa professione, e ragazze anche certamente. Non dimentichiamo che una delle più grandi figure del giornalismo di guerra è una donna, la grandissima Marie Calvin, che purtroppo come tanti altri, ha pagato con la vita la passione per la verità. Una eventualità che, se si fa questa scelta, bisogna considerare, e tenere ben presente che fare il reporter di guerra come lo intendo io, controcorrente, per la verità ad ogni costo, non è molto ben visto in certi ambienti…