È arcinoto a tutti come i misteri d’Italia siano tanti e tutti, o quasi tutti, tuttora impuniti.
Qualcuno ha scritto che certi misteri, collegati ad altrettante stragi, siano legati da un filo conduttore che li collega a una strategia posta in essere da persone e organizzazioni tuttora sconosciute.
Alcuni storici situano questa strategia nel periodo che va dalla strage dell’agenzia milanese della Banca dell’Agricoltura di Piazza Fontana, avvenuta il 12 dicembre 1969, sino alla strage della stazione di Bologna, avvenuta il 2 agosto del 1980, passando per la strage del 28 maggio 1974 a Brescia, quando una bomba straziava le carni di centodieci sfortunate persone, uccidendone otto.
Ma non tutti sono concordi e, d’altronde, come ogni rigida categoria storica, anche questa classificazione risulta indicativa e non vincolante.
In effetti più di un commentatore ha osservato come facciano parte della stessa strategia anche le stragi di Capaci e di via d’Amelio, in cui morirono Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e la loro scorta nella prima; il magistrato Paolo Borsellino, ucciso con altrettanto innocenti agenti di polizia, colpevoli soltanto di prestare i loro servizi in adempimento dei doveri di obbedienza e lealtà, nella seconda. E qualcuno ci aggiunge anche le bombe agli Uffizi di Firenze e a Maurizio Costanzo.
Tutti eventi, questi ultimi quattro, accaduti nel terribile biennio 1992-1993.
In effetti questo biennio sembra essere l’apoteosi della strategia della tensione.
Qualche acuto osservatore ha fatto coincidere questo apice terroristico con il famigerato crollo della Prima Repubblica, avvenuto sotto i colpi del pool mani pulite della Procura di Milano, iniziato a febbraio del 1992 con l’arresto di Mario Chiesa e conclusosi con la discesa in campo politico di Silvio Berlusconi e la sua vittoria alle elezioni del 1994, che segna la nascita della Seconda Repubblica.
Personalmente non credo che tutti questi eventi terroristici abbiano una matrice comune, ma lascio volentieri agli storici il giudizio.
Io mi limito a raccontare dei fatti così come sono accaduti, e a constatare che in effetti, certi fatti di cronaca, troppi davvero in realtà, sono rimasti senza responsabili.
Innanzitutto bisogna dire che i misteri della Repubblica Italiana partono da più lontano di quanto non indicato dai fautori della strategia della tensione.
La prima data da ricordare è la strage di Portella della Ginestra, che avvenne il 1° maggio 1947 ad opera di Salvatore Giuliano, seguita dalla morte dello stesso Salvatore Giuliano, avvenuta nel 1950 e dalla morte del suo uccisore, Gaspare Pisciotta, avvelenato con il più classico dei caffè mentre era in carcere in attesa di giudizio.
Questo oscuro intrigo di misteri si snoda attraverso dei percorsi contorti e tuttora tutti da districare, ma i cui snodi indiscutibili sembrano essere la morte di Enrico Mattei, quella del giornalista Mauro De Mauro e l’assassinio di Pier Paolo Pasolini.
Quest’ultimo, prima di morire, dichiarò di conoscere i nomi dei mandanti delle stragi di Piazza Fontana e di Piazzale della Loggia.
E la morte di P.P. Pasolini mi fa venire in mente un’altra morte misteriosa, un altro omicidio barbaro e impunito di un uomo mite che sapeva tanto: parlo di don Emilio Gandolfi.
Don Emilio Gandolfi, all’epoca del suo feroce assassinio (siamo già nel 1999), svolgeva funzioni di parroco a Vernazza, nelle Cinque Terre; i suoi carnefici, tuttora sconosciuti, lo massacrarono di botte, sino alla morte, nella sua canonica.
Chissà come e chissà perché, le brutali modalità del suo omicidio (l’aggressione, la rottura delle costole, la mancanza di testimoni, il pestaggio, il ritrovamento in una posizione di inerme difesa, l’accanimento immotivato contro una persona mite di carattere) mi hanno subito fatto pensare all’assassinio del grande poeta e regista friulano.
Certo le due personalità erano, per molti versi, assai differenti; ma due cose avevano certamente in comune le due vittime della ferocia umana: entrambi erano degli impegnati e profondi intellettuali; entrambi erano depositari di segreti attinenti agli eventi nefasti della strategia della tensione e ai burattinai che, celati dietro cortine protettive di varia natura, ne tiravano le fila.
La storia personale e l’impegno pastorale di don Emilio Gandolfi, in effetti, lasciano supporre più d’un collegamento con il 1968 e, soprattutto, con le pagine oscure del terrorismo (di destra e di sinistra), che fu il folle prosieguo, nonché il tragico epilogo, di quella stagione della nostra recente storia, peraltro piena di speranze, di candide illusioni e di truci contraddizioni.
Egli aveva insegnato nel liceo Virgilio, frequentato a Roma da tanti giovani che proprio in quegli anni si preparavano a vivere quella irripetibile stagione di rivoluzioni e controrivoluzioni che in Italia, terra di confine ideologico tra i due blocchi contrapposti della guerra fredda, divenne diabolico laboratorio di trame segrete e teatro di lotte aperte tra chi la rivendicava al Patto Atlantico e chi, invece, la voleva con il Patto di Varsavia e con la limitrofa Jugoslavia comunista del Maresciallo Tito.
In tale contesto politico e culturale don Emilio fu un sacerdote progressista e anomalo; di quelli che non sono mai andati a genio ai vertici della CEI e del Vaticano; quei sacerdoti che non puntano a far carriera ma vivono il Vangelo tra gli ultimi, tra gli atei e i pubblicani e non disdegnano di tentare di redimere tossici, prostitute e terroristi allo sbando.
Ma cosa sapeva don Emilio Gandolfi di tanto scottante da indurre i suoi assassini e i suoi mandanti ad ucciderlo? Di quali segreti sconvenienti e pericolosi era depositario? Perché anche questo delitto è rimasto impunito e i suoi esecutori non identificati?
Qui non si tratta di complottismo o di cercare un grande vecchio! A parte che i grandi vecchi (ammesso che siano mai esistiti) sono ormai tutti morti. Qui si tratta di far luce sull’ennesimo delitto rimasto impunito. È troppo chiedere alle istituzioni che si indaghi su un assassinio inspiegato e apparentemente inspiegabile? Con questo articolo intendo chiedere anche verità e giustizia sulla morte di don Emilio Gandolfi.
Ma c’è un’altra vicenda assai misteriosa: quella di Aldo Moro e della sua scorta.
Trentadue anni fa, il 16 marzo 1978, le Brigate Rosse rapivano l’on. Aldo Moro e trucidavano i 5 uomini della sua scorta: Iozzino, Leonardi, Ricci, Rivera e Zizzi. Io mi trovavo a Londra, in cerca di me stesso, dimenticando l’Italia e l’ipocrisia dei suoi politici di allora; deluso dal movimento del ’68 (al quale avevo preso parte attiva solo negli anni immediatamente seguenti il 1968); sconcertato e scontento delle involuzioni violente di alcuni gruppuscoli impazziti capeggiati da sanguinari epigoni dei grandi rivoluzionari pacifisti. I miei idoli erano Gandhi, Martin Luther King. Nella mia sete di giustizia sociale e di uguaglianza (ma anche nel mio ignorante e cieco idealismo giovanile), ammiravo Che Guevara, Fidel Castro e Mao-Tse-Tung (oggi per fortuna ho altri idoli da seguire).
Anche se rifuggivo la violenza per carattere, per indole e per convinzione. Ancora meno e giammai avrei preso le armi per sparare contro il fratello, contro un mio simile. Io, che avevo fatto il militare per pagare il mio debito di solidarietà allo Stato e per accontentare mio padre, che mi avrebbe voluto avviare alla carriera militare (un regalo che non mi pento di avergli fatto; lui ne avrebbe meritato di più e di maggiori). La vita dell’uomo è sacra: Dio la dà e solo Dio la può togliere! Guai all’uomo che osa togliere la vita ad un altro uomo. E guai a quei politici che allora non fecero il possibile per salvare la vita almeno al povero Aldo Moro!
Un uomo politico che avrebbe potuto dirci molto sulla morte di Aldo Moro era Giulio Andreotti; ma purtroppo, l’ultimo dei cavalli di razza della vecchia Democrazia Cristiana è morto e non può più raccontare niente. Lo affido nei miei pensieri alla misericordia divina, come si conviene per chiunque abbia lasciato questa valle di lacrime e non sia più in grado di difendersi.
Ma chissà se quelle migliaia di faldoni che gli sono sopravvissuti come sue memorie, contengono qualcosa d’importante anche su quella vicenda truce che ha visto la morte di Aldo Moro e della sua scorta. Io confesso di non avere amato, soprattutto da giovane, né lui, né la democrazia cristiana e né la classe politica di quegli anni.
Sino al 1978 il potere era stato gestito dai democristiani che, intelligentemente, avevano aperto sin dai primi anni sessanta ai socialisti di Nenni (Craxi sarebbe arrivato al potere dopo quasi un ventennio da quella prima apertura a sinistra).
Di fatto il potere appariva come fossilizzato nelle mani dei potenti democristiani e ciò creava nell’opinione pubblica ed in particolare nell’animo di noi giovani di allora, l’impressione che questi cavalli di razza fossero attaccati al potere in maniera morbosa e che il cambiamento non fosse possibile; non appariva infatti percorribile alcuna alternativa agli stantii governi monocolori, quadripartiti o pentapartiti, di ispirazione atlantica in politica estera e fautori del più becero assistenzialismo, dell’affarismo e del clientelismo in politica interna.
Non c’era alternativa allo strapotere democristiano, più o meno diluito in salsa socialista, repubblicana, liberale o socialdemocratica.
Poi venne il tentativo di Aldo Moro di sbloccare a sinistra, questa volta in direzione dei comunisti. Il secondo tentativo di grande coalizione o compromesso storico dopo quello del secondo dopoguerra (adesso questi accordi si chiamano molto meno elegantemente “inciucio”, forse in sintonia con il miserevole livello dell’attuale classe politica, in rapporto a quelle dei tempi andati).
Ma a qualcuno, evidentemente, quel tentativo di portare i comunisti nella stanza dei bottoni non piacque (si ricordi che nel 1978 la cortina di ferro era ancora in auge, e i due blocchi, quello occidentale e capitalista e quello statalista di stampo sovietico si fronteggiavano fieramente per la supremazia).
Sappiamo tutti come finì quel tentativo. E la fine che fece il povero Aldo Moro. Non do giudizi, mi ripeto, sui defunti.
Ma la storia ci mostra che Aldo Moro poteva essere salvato e che egli fu lasciato a morire.
Forse Giulio Andreotti avrebbe potuto spiegare perché fu lasciato morire.
O forse la verità sta scritta in uno di quei 3500 faldoni che costituiscono l’immenso archivio che il divo Giulio ha lasciato ai posteri.
Io so solo che il sangue innocente di Aldo Moro, come lo statista pugliese aveva profetizzato nelle sue lettere dal carcere delle brigate rosse, è ricaduto su tutti quelli che pur potendolo, non mossero un dito per salvarlo da quella orribile prigione.
Preghiamo per i morti ma manteniamo viva la nostra memoria e il giudizio storico che compete ai vivi.