Esiste ormai un unicum, tra i tanti che costellano la storia del nostro paese, ed è la sbandierata uscita dal nucleare nell’ormai lontano 1986, quanto gli italiani furono chiamati ad un referendum nel quale non si chiedeva loro un sì o un no all’utilizzo dell’energia dell’atomo come in buona fede tutti pensavano di rispondere al quesito sulla scheda da deporre nell’urna, ma di dire sì o no alla moratoria sulle future centrali e al progressivo smantellamento di quelle in funzione. Da allora ha inizio una storia che abbiamo più volte definito infinita e che prosegue da decine di anni: lo smaltimento dei materiali fissili e delle scorie del funzionamento degli impianti una volta spenti. A questo si aggiungono nel corso dei decenni i rifiuti radioattivi di decine di attività industriali e quelle del settore sanitario in costante incremento per lo sviluppo avanzato delle metodologie di diagnosi e cura di molteplici malattie.
In sostanza, pur essendo usciti dal nucleare come pomposamente e con superficialità molti si affannano a ripetere, in realtà siamo da un lato circondati da possibili fonti di radioattività delle quali però non si parla e la montagna dei rifiuti delle ex centrali che nel tempo sono state stoccate, poi inviate all’estero per essere come si dice “riprocessate” ovvero rese inerti ed il più possibile innocue. Una procedura questa alla quale si sono prestate nazioni come la Gran Bretagna e la Francia, dichiaratamente nucleari (a parte l’arsenale atomico propriamente detto) e il Belgio e che ora ci chiedono di riprenderci detto materiale e di trovare una soluzione al loro stoccaggio in siti capaci di isolarlo a difesa della salute pubblica, essendo chiaro che il materiale fissile per decadere fisicamente sino all’irrilevanza richiede non anni e non decenni ma secoli se non millenni. Le procedure di arricchimento fatte poi in questi decenni nel mondo hanno reso se possibile ancor più difficile stimare questo meccanismo di sicurezza.
Intanto nel nostro paese come in molti altri si torna a parlare di nucleare pulito, di ultima generazione, di piccole centrali e non di mastodonti poi cattedrali nel deserto e fonte di pericolo. Siamo ancora in una fase propedeutica per così dire. Le tecnologie, lo studio degli scienziati in tutto il mondo nelle nazioni più avanzate hanno immaginato e cominciato a realizzare esperimenti in tal senso (anche in avanzato stadio di realizzazione) complice l’emergenza energetica da un lato e la compatibilità della produzione con la necessità di salvaguardia dell’ecosistema già sotto stress per le altre fonti inquinanti prodotte dall’uomo e da eventi naturali per quanto impattanti.
Fatte queste riflessioni, si torna a parlare nel nostro paese a cadenze regolari della necessità di scelta di uno o più siti per immagazzinare e “congelare” per sempre i residui dei quali abbiamo parlato e identificare nel futuro come smaltire in autonomia i materiali radioattivi che continueranno ad essere prodotti dall’attività umana.
La prima domanda che nasce in una riflessione tutto sommato di base è allora: se dopo quarant’anni dalla dismissione delle nostre centrali e dopo decenni di invio all’estero dei materiali (procedura ora interdetta dalle norme dell’Unione Europea), non siamo ancora in grado di identificare luoghi adatti allo stoccaggio in sicurezza, come potremmo parlare di nuove ancorché mini centrali e di un nucleare diffuso? Qualche legittima perplessità è non solo intuitiva ma logica.
In questi decenni, il mantra della denuclearizzazione è stato preponderante, il comprensibile spauracchio delle radiazioni ha instillato in tutta la pubblica opinione la repulsione contro ogni cosa che sappia di atomico e affini. Premessa doverosa, l’analisi che si sta facendo non nasce dalla voglia di nucleare del quale se si potesse fare a meno sarebbe un auspicio condivisibile, ma dalla constatazione che la questione continuerà a porsi anche senza centrali e dopo il raggiungimento dell’ultima thule, ovvero il sito o i siti dei quali si discetta.
La reattività immediata, la convinta contrarietà delle popolazioni ha prodotto la dilazione del problema che forse all’inizio poteva e doveva essere affrontato con le capacità scientifiche adeguate e presenti. Oggi siamo di fronte a quella che potremmo definire una emergenza “scandalosa” che si trascina da quattro decenni.
L’ultimo passaggio è stata la pubblicazione il 13 dicembre 2023 da parte del ministero per l’ambiente e della sicurezza energetica della Carta nazionale delle aree idonee, della quale si parla da tempo immemorabile e che ha visto cambiare governi alla velocità della luce. Su 67 luoghi individuati come adatti allo scopo, 51 sono stati identificati come possibili siti. Tutto risolto, dunque, tutto in via di sviluppo. Assolutamente no! Nessuno dei comuni nei cui territorio sono state individuate aree adatte (come esempio possiamo ricordare le miniere di salgemma o grotte e formazioni rocciose in profondità capaci di isolare il materiale) si è mostrato disponibile ad affrontare la questione e tantomeno a candidarsi. Un copione che si ripete immutabile nel tempo.
Il motivo conduttore è sempre lo stesso: perché da noi? Trovate qualche altro luogo! È il vecchio adagio anglosassone del “not in my backyard”, non nel mio giardino che trova alimento dalla constatazione che i grandi paesi produttori e consumatori hanno per così dire “delocalizzato” i propri rifiuti per decenni in paesi poveri e dalle grandi estensioni territoriali. Ora che la consapevolezza dei problemi globali e quella dei paesi in via di sviluppo sui propri diritti sta prevalendo, il vecchio aforisma ci ritorna contro e come tutti i problemi rimandati, tornano per così dire con gli “interessi”. Per quel che riguarda il nucleare ora, ma non da oggi, l’Europa richiama alla capacità di ogni paese di far fronte alle proprie produzioni di rifiuti e di scorie nel proprio territorio, seguendo il concetto della diminuzione complessiva delle quantità e nella riconversione energetica ormai ineludibile malgrado quella sorta di blocco dell’orologio della storia che sono le guerre come quella scatenata dalla Russia in Ucraina e dagli islamisti contro Israele. Con tutte le conseguenze mondiali in termini di commerci e di trasferimento di energia e via dicendo.
Lo stato delle cose è ora che le scorie delle nostre centrali devono rientrare – non possono ma devono – e allo stato attuale non sappiamo dove metterle per così dire! Una situazione se possibile “esplosiva” stante la difficoltà, anzi l’impossibilità di ottenere il consenso delle amministrazioni locali e soprattutto delle popolazioni deresponsabilizzate da un lato da decenni di anestesia anti ed ora e giustamente non disposte a fare da discarica agli errori e ai ritardi provocati da una gestione. D’altra parte è anche evidente che alle comunità locali vengano indicate possibilità di incrementi finanziari dovuti ad incentivi per arrivare alla scelta e prospettive di lavoro dovute all’indotto tecnico e scientifico che porta con sé l’essere luogo di stoccaggio di materiali che richiedono competenze specifiche e di grande impatto.
Per comprendere la situazione alla quale ci si trova davanti, è come sempre opportuno ricordare alcuni dati che aiutano ad inquadrare la questione nella sua precisa caratura. Come abbiamo detto la Carta indica 51 siti adatti ad ospitare il deposito nazionale delle scorie nucleari. Di questi 21 sono nel Lazio,10 in Basilicata, 5 tra Basilicata e Puglia, 5 in Piemonte, 2 in Sicilia, 8 in Sardegna. Uno di questi dovrà essere scelto per realizzare il deposito definitivo dove verranno sepolte le scorie nucleari presenti in Italia e in arrivo dai paesi “riprocessatori”. Il nodo è che al netto delle scorie delle centrali dismesse (circa il 60 per cento del totale) sul nostro territorio esistono migliaia di tonnellate di rifiuti radioattivi, originati dai “rifiuti” della ricerca scientifica, dell’industria e del settore della medicina nucleare. Produzioni queste che non sono e non verranno dismesse e che in prospettiva resteranno il vero ed unico problema da affrontare.
Parlando di quantità del problema si tratta di 78mila metri cubi di scorie nucleari catalogate con un medio-basso o basso livello di radioattività (ovvero i radionuclidi che impiegano poche centinaia di anni a decadere, e 17mila metri cubi di rifiuti ad attività medio-alta e alta, la cui radioattività impiega migliaia di anni. Al momento, una buona parte di questi rifiuti – soprattutto quelli che provengono dalle centrali in dismissione – sono stoccate all’estero: Francia, Belgio e Regno Unito. Questo perché in Italia, a differenza di altri paesi europei, non esiste ancora una struttura (meglio sarebbe dire non si mai concretamente pensato di realizzarla) dove stoccare in modo definitivo i rifiuti radioattivi. L’Unione europea ha però ha invitato ciascuno stato membro a trattare internamente le proprie scorie nucleari. Dunque il deposito nazionale non è più un progetto generico ma deve divenire realtà!
Che cosa sarà in realtà? Per le scorie nucleari di basso e medio livello sono sufficienti barriere ingegneristiche di superficie, il tutto progettato per resistere almeno 300 anni. I rifiuti condizionati e compattati e chiusi dentro fusti di acciaio riempiti di cementite. Poi questi fusti verranno a loro volta sigillati in scatole di cemento armato che saranno poi stoccate in una grande vasca in superficie, anch’essa di cemento. Tale vasca verrà infine coperta da uno strato di terreno e da un manto erboso.
Differente la questione per i 17mila metri cubi di scorie ad medio-alta e alta intensità. Per loro sarà necessario predisporre contenitori di altezza di tre metri e capaci di resistere a inondazioni, esplosioni, incendi e terremoti. Per questi rifiuti radioattivi si tratta però di una “sistemazione” provvisoria perché data la loro alta pericolosità dovranno essere depositate in un deposito geologico per lo smaltimento definitivo impermeabilizzato ed isolato rispetto al territorio superiore nel quale insistono le attività umane. Ma di questo ancora non si parla. In sostanza le stringenti norme europee hanno nuovamente dato impulso al problema ma nel senso che ci si sta muovendo per rispondere all’”emergenza”, quindi come sempre in stato di necessità.
Emergenza e necessità che sono sempre state lì, davanti ai nostri occhi e a quelli deputati a decidere. C’è da sperare (l’auspicio sarebbe troppo!) che le ulteriori decisioni possano prevedere un iter più logico, certamente non spedito allo stato attuale, e programmato per i diversi passaggi che ancora attendono quella che diventerà la realizzazione e la risposta necessaria! Non resta che guardare al futuro con animo aperto ma con occhio disincantato attendendo che le premesse delle premesse delle premesse si realizzino!