Adesso, all’uscita dall’albergo, non abbiamo solo le ragazze della casa di fronte. L’hotel è circondato da case abitate da ragazzine spigliate e spontanee che ci fanno la corte con segni e saluti. Di giorno in giorno la nostra esperienza di Mogadiscio diventa sempre più centrata sul femminile che ci circonda e dona allegria. Siamo in una bella città, con un bel clima e un bel mare, si mangia bene ed è abitata da gente sveglia che parla la nostra lingua, circondati da una infinità di ragazze che ci fanno compagnia raccontando mille aneddoti per noi curiosi, fantasiosi, divertenti. Inaspettato tanto benessere nel cuore di un Africa altrimenti così tormentata.
Per noi che arriviamo dallo Yemen, dove le donne sono completamente coperte e dove si rischia grosso anche solo a guardare casualmente i loro volti, al confronto, qui pare di essere nel paese di Bengodi, frutto della laicità di regime: un decennio di “socialismo scientifico”, compromesso laico-religioso voluto dal regime del presidente Siad Barre. Nonostante gli inevitabili contrasti, qui ci sentiamo a nostro agio, accolti come amici che tornano dopo una lunga assenza. Non è così per Gurey, il titolare dell’hotel, un tipo col piglio dell’uomo posato e responsabile, sempre serio, al quale non piace questo movimento davanti al suo hotel e ci rimprovera inoltre di entrare troppo tardi la notte. Il Darsn è un albergo popolare e noi siamo gli unici bianchi presenti. Deeka, la cameriera dell’hotel, esageratamente vivace e simpatica, ci esorta invece a non dargli ascolto.
Tornati in hotel, alle due di notte sentiamo che da sotto al balcone ci stanno chiamando Amina e Fortuna per invitarci a casa loro, oltre la strada. Con l’aumento di confidenza gli argomenti si fanno sempre più personali, così emerge che il vero nome di Amina è Euregi ma noi la chiamiamo “comunista” perché attratta dagli scritti di Carl Marx. Fortuna invece sentenzia un'altra delle sue perle di saggezza: “Non sono comunista, io sono turista!”. Confessa che, da adolescente, credeva che un bacio fosse sufficiente a rimanere incinta. O del piacere che provava a “toccarsi” nella stalla di famiglia, percepita come magica, convinta che altrove non avrebbe sentito nulla. In quel momento possono raccontarci tutto senza inibizioni, forse perché consapevoli che non ci vedranno più. Farsi raccontare il trauma dell’infibulazione, praticata a loro stesse all’età di 5-7 anni, è per noi una grande inaspettata concessione. Di quella giornata indelebile, ricordano di essere state messe a sedere in grembo ad una donna, le loro gambine legate alle sue cosce in modo che allargandole le ha obbligate a fare altrettanto.
Mentre coricato sul letto di Amina iniziamo ad amoreggiare, dal cortile un ragazzino si arrampica sulla finestra posta al piano terra, si siede comodamente sul davanzale con le gambe a penzoloni dentro la camera e con tono rassicurante da guardone in erba precisa: “Fate pure, a me piace guardare”. Amina gli tira una ciabatta e questo si dilegua. Con le prime luci dell’alba, mentre Amina dorme serena, salgo su quella stessa finestra e torno in hotel, incurante di accrescere così la leggenda di “scappafinestre”, allergico a qualsiasi genere di legame.
Incontriamo “India” la quale riferisce che ieri notte la polizia voleva arrestarla perché l’avevano vista tardi per strada con noi. Se non si è sposati, gli uomini e le donne non possono camminare assieme, ancora peggio se le donne sono in compagnia di occidentali. Giuseppe, residente a Mogadiscio da mezzo secolo, estende l’opinione diffusa che ormai conosciamo bene: “I somali in generale non amano vedere le loro donne in compagnia di stranieri, per il timore di perdere la purezza della razza e la loro cultura, esattamente come succede in occidente, al contrario”. L’altro aspetto molto sentito in città è quello dei frequenti controlli della milizia popolare, mai avvenuti però nei nostri confronti. I somali litigano frequentemente per strada e Giuseppe aggiunge un dettaglio: “Alla polizia non piace che gli stranieri vedano i somali litigare e, ad una certa ora, vorrebbe mandare tutti a letto”.
Dopo dieci intensi giorni siamo in grado di capire a grandi linee l’atmosfera che regna a Mogadiscio, quella che in tanti cercano di farci comprendere nel raccomandarci di fare attenzione agli interlocutori e a cosa si dice. Infatti ora vediamo la città piena di poliziotti in borghese che ci osservano, cosa che prima ignoravamo. Il paese di Bengodi ci rivela ora un aspetto inquietante pur restando per noi amichevole. Sono consapevoli che non siamo spie o cospiratori politici e quel visto rilasciato dall’ambasciata somala al Cairo probabilmente ci tutela. Davvero Mogadiscio ci appare come un grosso paese, dove tutti si conoscono e ormai sanno di noi.
Giuseppe in sintesi afferma: “Siete gli unici bianchi che girano dalla mattina alla sera senza impegni precisi, quindi siete più appariscenti”. Secondo Mohamed, il giornalista di Stella d’Ottobre, il quotidiano in lingua italiana, molti ci identificano come “bis-corbis”, così chiamano gli hippy, che equivale a menefreghisti e drogati. Secondo lui è frutto di una mentalità di provincia: “Se fai una cavolata il giorno dopo lo sanno tutti in città. Per me i drogati sono coloro che hanno un cuore grande”. Non usiamo droghe e non siamo dei cinici, ma se taluni ci identificano in quel modo, molti altri ci dimostrano simpatia, si confidano su opinioni politiche delicate e molti si sono addirittura affezionati, come Adulai, il taxista senza un dito che si fa chiamare “Senza-governo” e accompagna Aldo dovunque per amicizia, gratuitamente.
Per le amiche invece il mio nome è “Scappafinestre”, epiteto conquistato sul campo e pronunciato senza più enfasi, come un nome di battesimo qualsiasi. Amina è offesa perché sono nuovamente uscito dalla finestra della sua camera mentre dormiva la notte scorsa, con tono rassegnato afferma che “non vuole più sposarmi”. Tuttavia si dimostra gelosa se qualcuna si avvicina.
Ogni sera Aldo ed io andiamo in giro per i locali da ballo, attenti alle spese poiché il viaggio è ancora lungo e dobbiamo essere parsimoniosi. Dov’è possibile cerchiamo di entrare senza pagare e ci divertiamo anche solo a provarci. Siamo davanti al Giuba, dall’entrata principale mi introduco nel locale con un gruppo e passo, mentre Aldo sceglie di scavalcare il muretto del perimetro del dancing ma viene intercettato dalle guardie che lo accompagnano gentilmente all’uscita. Da morire dal ridere. Credo che in effetti a Mogadiscio non abbiano mai visto dei bianchi così disinvolti, difficili da catalogare. Aldo poi è dotato di un’ironia straordinaria e di grande comunicativa, riesce a legare con chiunque.
È una notte di luna piena, nel giardino del Giuba conosco Fossia, deliziosa ragazza che usa le bretelle per sorreggere i pantaloni e per noi diventa semplicemente “Bretella”. La corteggio ma tutte le dicono di non fidarsi perché sono “Scappafinestre”, “uno che appena ti addormenti scappa dalla finestra”. Anche lei, come Amina e le altre, abita nei pressi del nostro hotel. Spiego che è stato un caso dovuto alle circostanze, fatico a convincerla ma a fine serata si persuade e mi porta a casa sua. Prima dell’alba apro gli occhi, lei dorme, guardo la finestra e non so resistere.
Al mattino entriamo al bar Dalsan dove si presenta Ferdinando Hussein, un paracadutista che ha fatto il corso a Pisa, ha il passaporto italiano e abita a Roma, esaltatissimo nei modi e nei toni. Facciamo colazione assieme, accidentalmente Hussein rovescia del “ciai” (tè) sul banco ed un tizio accusa me chiamandomi “gal”, termine dispregiativo che per noi equivale a ‘negro’. È un razzismo al contrario. Iniziamo a litigare, subito però interviene il virulento parà che mette l’intruso a tacere definendolo razzista.
Hussein è automunito e ci dà un passaggio al Lido, distante due chilometri. Nel percorso racconta che prima con i russi non si stava bene: “Spadroneggiavano senza fermarsi ai posti di blocco, trattavano male i somali”. Si trova d’accordo con Siad Barre, non vuole che la religione entri nella politica: “Nel 1975, quattro anni fa, sono stati fucilati 11 alti ministri del culto ed altri sono spariti per avere pubblicamente rifiutato la parità tra uomini e donne sulla divisione delle eredità, contraria ai precetti musulmani”. Racconta poi di un altro episodio tragico e allo stesso tempo curioso: “Quella stessa mattina alle 11, due ore dopo le fucilazioni, due Mig russi sono precipitati su Mogadiscio provocando ben 150 morti tra la popolazione civile”. Al primo impatto Mogadiscio sembra un paesone assolato e tranquillo ma in verità è una città piena di vita e ricca di aneddoti storici incredibili e straordinari.
Eccoci al Lido, la zona balneare della capitale. Entriamo nelle cabine-spogliatoio della Casa d’Italia per cambiarci ma anche qui troviamo chi ci attacca, offendendo la “nostra razza”. Il guardiano delle cabine, un omaccione grande, grosso e squilibrato va su tutte le furie perché siamo privi di tessera. È eccessivamente aggressivo e gli rispondiamo a tono, mandandolo a quel paese. Alterato con gli occhi fuori dalle orbite, entra in una cabina e ne esce brandendo un robusto bastone, poi si calma. Tra i denti gli scappa un’offesa contro la razza italiana e detto da uno che lavora per la Casa d’Italia è forse da tenere in giusta considerazione. Anche in questo caso intervengono altri somali a difenderci e a redarguire il guardiano: “In Somalia non si può fare così”. Kiim, la ragazza in nostra compagnia, “spaventata” scappa via e Aldo le corre dietro lungo la spiaggia. Ogni tanto capitano questi episodi di amore e odio verso i colonizzatori ma per fortuna sono rari ed è comunque interessante notare che c’è sempre qualcuno che prende le nostre difese.
Si avvicinano per fare conoscenza Yoannes, un profugo etiope dal nome decisamente cristiano, assieme alla bella e vispa Alima che fa gli occhi dolci come una Barbie di colore. Quando dice di avere solo 14 anni resto stupito, in effetti in Africa le adolescenti sia nel fisico che nel carattere sembrano già donne adulte. Tradisce l’età solo nelle battute leggere da ragazzina. Yoannes invece ha un vissuto recente intenso, desideroso di raccontare: “Sono scappato dall’Etiopia attraverso il confine Nord, dopo quattro settimane di cammino nel deserto ho raggiunto Hargheisa”.
Di ritorno in città ci fermiamo a dare un’occhiata al parchetto del Giuba con le panchine sempre gremite di simpatiche amiche e nuovi arrivi. Stanno parlando di una certa Iman, la bella somala invidiata per essere diventata una famosa modella di colore negli stati Uniti. Lego con “First”, diciassettenne molto carina ma come al solito, per invidia, le ragazze presenti ripartono con la storia della finestra per farmi terra bruciata attorno. “Bretella” l’avvisa ridendo: “Se lo porti a casa per prima cosa chiudi bene tutte le finestre”. All’inizio “First” va in paranoia, poi le spiego che sono tutte bugie in modo talmente convincente che adesso è lei ad insistere per portarmi a casa sua, mentre sono io infine a cambiare idea e a rifiutare l’invito. Preferisco andare in giro con Aldo, libero e senza vincoli.
Andiamo poi al dancing La Terrazza assieme all’amico taxista Adulai, dove Amina e Fortuna ci stanno aspettando. “India” si avvicina troppo a me al solo scopo di fare irritare Amina e ne nasce un battibecco interrotto da una violenta scazzottata che scoppia nel locale tra uomini e donne. Le donne reagiscono alle provocazioni dei maschi in modo deciso, che noi viviamo come un’interessante forma di emancipazione femminile. Adulai ci protegge e nel trambusto usciamo tutti senza pagare. Appena un po’ brilli molti somali diventano litigiosi e dopo una certa ora si rischiano cazzotti un po’ dovunque.
Alle 3 di notte siamo davanti a casa di Amina e Fortuna, di fronte al nostro hotel, ed anche qui scoppia una furiosa lite che coinvolge una trentina di persone. Una ragazza dal fisico decisamente mascolino, chiamata candidamente “donna-uomo”, inizia ad inveire contro Adulai perché ci porta in giro gratuitamente mentre loro neppure le carica. Ne nasce una questione razziale contro il taxista che favorisce i “gal” (bianchi), un’accesa discussione tra chi è a favore e chi contrario che in un baleno degenera in confusione, urla, calci, schiaffi e pianti con la “milizia cittadina” che, come sempre, accorre puntuale e prova a dividerli. Esce sulla strada anche il titolare dell’hotel, il composto Gurey, che ci ordina di lasciare l’hotel domani stesso, perché siamo sempre in mezzo a questi “casini” e quindi è colpa nostra. Una coppia di odiosi clienti si affacciano al balcone della loro camera per dare ragione a Gurey nel sostenere che siamo sempre fuori la notte. È vero, in hotel si suda e fuori il clima è piacevole per noi e per tante ragazze che ci intrattengono allegramente nella frescura della notte. Ora sappiamo che i somali sono passionali, si accendono facilmente nelle discussioni, sono spontanei e veri. Bella gente!
Finita la lite, Adulai carica un amico e ci porta nel quartiere di Sinai “per bere il nutriente latte di cammella e fare altre conoscenze”, ma anche qui parte un’infuocata rissa verbale con l’amico che non vuole pagare la corsa, geloso del fatto che noi non paghiamo. Si alzano i toni ed ecco arrivare l’onnipresente polizia popolare a calmare gli animi. Per noi è come essere al cinema, un film dopo l’altro. Terminata anche questa lite, entriamo in “latteria” dove si esaltano le proprietà di questo latte quale potente toccasana contro svariate malattie che pare abbia poteri afrodisiaci. Il sapore è decisamente più forte del nostro latte di mucca, ha un alto potere nutritivo ideale per svezzare i piccoli dromedari nell’aridità del deserto.
Qui conosciamo Gigi Azan, cugino di Anna Azan, gestori del dancing La Terrazza e Anab, uno dei figli di Siad Barre coi quali, dopo un paio di bicchieri di latte diventiamo tutti amici. Nel salutare Azan, per gioco gli porgo la mano sinistra e lui simpaticamente la rifiuta: “Dammi la destra, la mano sinistra in Somalia la usiamo per pulirci il sedere”. È un pensiero diffuso in molti Paesi del terzo mondo e per taluni rappresenta un’offesa. Al ritorno, presentiamo Anab ad Amina e Fortuna quando sono ormai le 5. Ci invitano ad entrare a casa loro ma noi preferiamo salutare tutti e andare a dormire. Il burbero Gurey ha deciso di darci un'altra possibilità, lo considera un ultimo avvertimento: “O fate una vita più tranquilla, andate a letto presto senza più uscire a petto nudo in balcone, oppure cambiate hotel”. Aggiunge che per i clienti dell’hotel siamo “due tipi scandalosi”.