Con la prima luce dell’alba ci avviamo e di buon’ora siamo alla dogana di Ramokgwebana, i funzionari botswani ci trattano con fastidio, “liquidandoci” in fretta, mentre quelli della Rhodesia sono più scrupolosi, ci consegnano dei coupon senza i quali non si può fare benzina e, per la prima volta ad una dogana, viene registrato il passaggio del nostro veicolo. Plumtree dista soli 23 km e a detta di molti è il tratto più pericoloso. Scrutiamo senza fiatare la boscaglia della foresta ai lati di questa stretta striscia d’asfalto con l’adrenalina a mille per il timore che, da qualsiasi punto, possa partire una raffica di mitraglia. Un autobus abbandonato lungo la strada completamente deserta ci crea una inquietudine che ci induce a vincere la paura imponendoci di rimanere lucidi. La stessa intensa sensazione che mi riporta al servizio fatto anni prima per il settimanale L’Europeo lungo il fiume Giordano in piena guerriglia palestinese. Superato Plumtree, incontriamo lungo la strada convogli di autoblindo e camion pieni di soldati africani armati. Purtroppo, a Figtree, 37 km da Bulawayo, si rompe la cinghia del motore ma, fortuna vuole, che ci troviamo accanto ad un distributore il cui benzinaio nero ci aiuta a cambiarla. Gli regaliamo un coupon da 25 litri di benzina.
Entriamo a Bulawayo in mattinata. Città piacevole e ordinata, con il General Post Office nel cuore di Main Street e l’ufficio turistico nella City Hall, particolare che ci sorprende in un Paese in guerra. Il centro è caratterizzato da attraenti edifici in stile coloniale e da un passeggio alberato dove le donne stendono al suolo i loro prodotti agricoli. Come primo impatto, nonostante la presenza di mezzi militari, carri blindati dalle forme strane, e di tanti africani in uniforme, la vita della popolazione civile sembra scorrere normalmente. Più dei bianchi, per noi è la presenza dei militari di colore che combattono per i bianchi a darci maggiormente l’idea di una guerra civile. L’apartheid è stata abolita da poco ma non è sufficiente a chiudere il conflitto. Non lo è soprattutto per i militanti del movimento marxista ZANU (Zimbabwe African National Union) guidati da Robert Mugabe, sovvenzionato da Russia e Cuba per porre fine al regime dittatoriale della minoranza bianca guidata da Ian Smith, l’amato statista nato in Rhodesia, appartenente quindi alla cosiddetta “tribù dei bianchi africani”. In effetti, per certi versi fa impressione vedere i neri che camminano tranquilli per le vie del centro mentre i bianchi timorosi passano loro accanto con le scorte armate. Ci sono anche ufficiali con cappelli a falde larghe, pantaloni corti ed i calzettoni fino alle ginocchia in puro stile coloniale che evocano immagini dei racconti di Salgari o Corto Maltese.
Siamo desiderosi di informazioni, per cercare di comprendere in fretta dove siamo finiti, e facciamo domande un po’ a tutti. Impariamo così che per tornare in Sudafrica dobbiamo obbligatoriamente aggregarci ad un convoglio di auto civili scortate da militari. Ci dà ascolto Dannis Malunga, del dipartimento dell’agricoltura, il quale ci racconta che i guerriglieri ogni giorno assaltano i convogli diretti in Sudafrica facendo massacri a non finire, ma i giornali censurano le notizie per non allarmare la popolazione: “Tutta la strada è sotto il controllo dei rivoluzionari, cercate di stare in testa al convoglio perché in genere iniziano attaccando la coda”. Dannis li definisce rivoluzionari e non terroristi, ciò indica che lavora per i bianchi ma simpatizza legittimamente per i suoi connazionali. Continua ad intrattenerci con la sequela di attacchi accaduti in questi giorni: “Venerdì scorso hanno distrutto la stazione di polizia di Gwanda, sabato hanno fatto saltare un hotel a Shabani e ieri alcuni camion pieni di benzina. La zona di Fort Victoria è in mano ai neri e i bianchi non vivono più per la paura”. Racconta pure che lo stesso sabato, due giorni prima, lungo la strada, lui stesso è stato fermato tre volte dai rivoluzionari a cui è stato costretto a consegnare le scarpe. Sottovoce ci confida che dopo il tramonto anche i soldati bianchi uccidono molti innocenti: “Sanno che chi guida di notte sono solo i neri e quindi sparano”. Ci saluta con un sorrisetto sarcastico: “D'altronde è destino, Bulawayo in lingua locale significa luogo dei perseguitati ma anche luogo di strage”. Viene da chiedersi chissà per quali retroscena storici.
Dovunque si vada si parla ovviamente di questa guerra, basta chiedere che subito la gente dà sfogo ai propri timori. I bianchi civili sono tutti armati di fucili e pistole come nel vecchio West americano e si meravigliano nel vedere che noi andiamo in giro disarmati: “You don’t have a gun?”. Ci esortano a non andare in giro dopo le 16.
Alla rosticceria greca la ragazza del banco ci dice che prima della guerra era bello, si stava bene: “Non c’erano neri per le strade”. Conferma la versione di Dannis: “La guerriglia ormai è in tutto il Paese, i neri sono padroni di tutte le campagne, sia di notte che di giorno. Chiunque può essere pericoloso, anche uno solo ti può sparare mentre passi con la macchina. La gente vive rassegnata alla guerriglia, anche se molti se ne sono andati, chi è rimasto non molla. Purtroppo i bianchi ora sono solo 220 mila in tutto il Paese. Molte case e ville lussuose con piscine e parchi da 8-13 milioni sono ora in vendita a prezzi stracciati”. La greca ci dà una notizia purtroppo poco rassicurante: “Non attaccano i convogli che entrano in Rhodesia ma quelli che escono, pensano che siano i bianchi che stanno scappando con il malloppo”. Sulla Gray Street vediamo un forno con la bandiera italiana in vetrina ed entriamo. È del signor Accorsi di Ferrara, suo figlio sta facendo il militare e, con una punta di orgoglio ci dice che il suo plotone ieri ne ha uccisi 51 alla frontiera con il Mozambico: “Ci sono due gruppi terroristici che stiamo cercando di mettere uno contro l’altro per farli combattere tra loro”. E aggiunge con veemenza afro-romagnola: “Ian Smith è un genio, ha ottenuto l’indipendenza dal Regno Unito per fare di questo Paese una delle terre più ricche del pianeta, ma Russia e America non lo permettono, vogliono portare l’Africa alla catastrofe. Ci accusano di essere razzisti, nulla di più falso. Qui non siamo ottusi e duri come i crucchi del Sudafrica. Il 26 giugno, tra 2 settimane, faranno un governo di neri e Ian Smith diventa un ministro senza portafoglio, vediamo cosa sanno fare loro. I ministri neri non sanno neppure parlare ma i colorati sono ancora più stupidi dei neri... io comunque continuo a maltrattarli come prima, per me non è cambiato niente!”.
Senza saperlo siamo entrati in Rhodesia proprio all’apice di questo conflitto iniziato vent’anni prima. Usciamo dal forno di Accorsi e, sempre sulla Gray Street, il signor Di Prinzio ci invita ad entrare nel suo ristorante La Gongola. Lui, al contrario di altri, sostiene che tutto sommato non è poi così pericoloso, anche se poi si contraddice: “Tempo fa attaccavano i convogli provenienti da Salisbury, ora gli attacchi si sono spostati più da questa parte del Paese”. Alla versione vagamente ottimistica si associa anche il titolare della pizzeria La Lanterna ma è chiaro che lo dicano per tranquillizzarci. Esprimiamo il desiderio di vedere il parco Matopos, habitat di rinoceronti bianchi e leopardi, e ovviamente nessuno dei due ristoratori italiani si sente di garantirci che non è pericoloso. Sanno che al parco c’è molta Security Force e che volendo accompagnano all’interno della riserva, ma la situazione non è in ogni caso rilassante. Dista soli 30 km, ci avviamo senza troppa convinzione, scrutando la strada stretta e tetra, apparentemente abbandonata. A metà percorso siamo assaliti dalla paranoia e facciamo una rapida inversione a U per un ritorno immediato in città.
Bulawayo è facile da girare, costruita a blocchi con le vie numerate come in America. Appena parcheggiamo si presenta un ragazzo nero sorridente e amichevole che propone di accompagnarci al parco Matopos ma, dopo dieci minuti di chiacchiere, ho la netta sensazione che una volta fuori città questo ambiguo amico pensi in qualche modo di farci la pelle per fregarci bagagli e pulmino. Ogni nero che si incontra può essere un terrorista o rivoluzionario, ma può anche essere un disperato qualunque che approfitta della situazione, in altre parole, un balordo qualsiasi. Insiste, diventa appiccicoso e fatichiamo a liberarcene. Bulawayo l’abbiamo vista, meglio cambiare aria. Alcuni passanti ci informano che i convogli di civili per il Sudafrica partono alle 7,30 ed alle 13 dalla stazione di polizia in Fifth Avenue angolo Selborne Avenue. Andiamo a registrarci per la partenza del mattino. Si raccomandano di arrivare mezzora prima, coloro che arrivano in ritardo possono rincorrere il convoglio ma a proprio rischio e pericolo. Noi non abbiamo questo problema, parcheggiamo nel piazzale di fronte e passiamo la notte qui. Siamo a quasi 1400 metri di altitudine e fa freddino.
Di buon’ora ci laviamo e “profumiamo” nei bagni della polizia, alle 7 siamo puntuali per il raduno e la disposizione in colonna dei veicoli. Siamo una trentina di persone tutte super armate fino ai denti, tranne noi. Ci sono anche dei neri che si accodano al corteo di auto per non essere derubati dai rivoluzionari. Si respira un’energia esaltante che ho già conosciuto, un’esperienza che sono interessato a vivere, consapevole che dove si rischia si impara ad apprezzare di più la vita. Un anziano militare ci fa disporre in cerchio per il doveroso briefing sul comportamento e sui 340 km di percorso che ci apprestiamo ad intraprendere. Spiega che bisogna andare a velocità elevata, sui 110 all’ora. Se un mezzo si rompe, i componenti salgono velocemente su altre auto e il mezzo in panne viene abbandonato. Invita tutti a mettere le canne dei fucili fuori dai finestrini in modo che si veda che siamo armati e pronti a difenderci. In caso di attacco filare tutti col gas al massimo, se c’è un ostacolo lungo la via bisogna uscire dalle auto e ripararsi al suolo. Ogni auto deve stare ad una distanza dalle altre di circa 50 metri. Essendo noi del pulmino i più lenti, con grande nostro sollievo il militare stabilisce di metterci in testa al convoglio per evitare di perderci. Poi sale in auto e tutti ci accodiamo lungo Selborn Avenue, la strada che attraversa il fiume e conduce in 45 km alla base di Essexuale, dove ci prende in consegna la scorta composta da curiosi carri militari. Si tratta di pickup della Mazda dove, nella parte posteriore, è stata montata una torretta in metallo girevole in cui un militare manovra una grossa mitraglia, girandola continuamente verso la boscaglia, per affrontare eventuali imboscate. Essendo noi primi ne abbiamo proprio uno davanti e ci godiamo la scena da film comodamente seduti come se fossimo al cinema. Dietro ci segue una lunga fila di auto. La velocità a tratti è molto sostenuta e noi rallentiamo l’intero convoglio, speriamo che il nostro martoriato pulmino regga il passo senza sfasciarsi. In tal caso, abbiamo già preparato i bagagli pronti per l’abbandono. Facciamo 15 minuti di sosta per un caffè al volo, proprio a Gwanda dove solo quattro giorni prima i guerriglieri hanno fatto saltare la stazione di polizia. Approfittiamo per mettere olio nel motore che divora 1 kg ogni 100 km. Riprendiamo con ordine il cammino e in breve superiamo l’abitato di West Nicholson, da tutti indicato come l’inizio dei 150 km più temibili del percorso, il tratto in cui gli attacchi sono stati più frequenti.
Può sembrare assurdo per dei turisti trovarsi in questa situazione ma il nostro unico interesse è quello di conoscere, eccitati all’idea di vivere un’esperienza insolita, con la recondita speranza che non ci succeda nulla di male. La percezione di poter essere colpiti da qualsiasi punto alza il livello dell’adrenalina che potenzia la nostra attenzione su tutto ciò che si muove. Per fortuna, chilometro dopo chilometro, alle 11 arriviamo senza intoppi a Beitbridge, la città di confine con il Sudafrica. Vediamo il grosso ponte sul fiume Limpopo completamente distrutto e qui, più che altrove, ci si rende conto di essere in guerra per il via vai frenetico di autoblindo dalle forme più strane ed il gran movimento di militari bianchi che arrivano sporchi e sudati, mentre altri partono per operazioni di guerriglia. Ci sediamo al Wimpy per un caffè, di lato alla dogana rhodesiana, affollato di militari. Un soldato è attratto dalla vecchia e scassata macchina fotografica che Aldo ha messo sul tavolo ed inizia una colorita trattativa terminata con Aldo che gliela cede per 75 US$, un ottimo affare! Approfittiamo per chiedergli qualcosa sul grosso movimento di truppe che vediamo davanti e lui racconta con orgoglio: “Qui abbiamo la base di due importanti gruppi anti-guerriglia: i SAS, esperti nella cosiddetta bush war o guerra di boscaglia a tutela dei civili bianchi, e i Selous Scouts, forze speciali addette all’eliminazione clandestina dei terroristi sia dentro che fuori i confini nazionali”. Vedendo che mi annoto tutto con interesse, tiene a precisare che quello che ci sta dicendo non è un segreto ma ne sono tutti a conoscenza, anche i terroristi!
Alle 12,30 siamo di nuovo nella Repubblica del Sudafrica, nel centro di Messina, omonima della città siciliana, con il pulmino che rumoreggia distrutto da tutte le parti. Abbiamo perso la marmitta e neppure il meccanico riesce a bloccare l’emorragia di olio. Sulla via per Pretoria, ci fermiamo a dormire a Warm-Bad (Caldo-Cattivo), infatti la temperatura è polare, per poter vedere domani le superbe case colorate del popolo Ndebele. Passiamo le prime due ore del mattino a guardare muri, ad ammirare le composizioni geometriche dalle tinte brillanti in una prospettiva piatta, bidimensionale. Al momento del matrimonio gli uomini erigono la casa con terra impastata e sterco di vacca e le donne affrescano le pareti con disegni che vengono poi modificati nei momenti importanti della vita della famiglia. Un simbolismo che emana creatività e certamente cela significati profondi. Una piacevole pausa prima di essere costretti a portare il pulmino in un’autofficina di Renbro, paese 40 km a Nord di Pretoria. Il motore rischia di fondere o forse è già fuso, quindi il meccanico telefona ai noleggiatori della Safari Auto per dirgli che ci vengano a prendere. A mezzogiorno arriva Mr. Lombard in persona assieme ad un suo operaio per trainare il pulmino. Il nostro giro di 7mila chilometri in Comby si è così concluso. Torniamo ad alloggiare al Soper Lodge di Johannesburg, una pensione con pasti fiamminghi i cui gestori ogni giorno cambiano nome al cibo ma nei piatti c’è sempre la stessa roba. Mr. Lombard, in attesa dei conti finali, ci presta un pulmino per andare a Pretoria, all’Ambasciata del Malawi per chiedere il visto. Il funzionario, avendo visto i nostri passaporti pieni di timbri, ci fa una sorta di interrogatorio per accertarsi che non siamo stati in Paesi a regime comunista. Ci fa attendere e penare ma infine otteniamo il visto. Molti neri quando rivestono cariche importanti diventano altezzosi a dismisura e spesso arroganti.
Come da preventivo accordo ci presentiamo alla Safari Auto per ritirare il deposito di 75 rande versato alla partenza, sperando che non ci mettano in conto i danni al pulmino e non si siano accorti del contachilometri staccato per 6mila km extra. In ufficio c’è anche il virulento Mr. Henry, ex cacciatore di grossa fauna, che invece ci presenta un conto di ben 192 rande (US$ 230) elencando i motivi: “Perché siete andati in Botswana e Rhodesia che è proibito, per i 4 giorni extra invece dei 2 concessi, per l’assicurazione che ho già pagato, ecc.”. Sul giro fatto era stato informato e ci aveva pure dato il consenso, ma ora dice che non ricorda. Ci disse, testuali parole: “Why do you like to go in Botswana, there is nothing to see there, only black people”. In tono minaccioso mi avverte che se entro domani alle 16 non andiamo a saldare il conto ci denuncia alla polizia e ci fa bloccare all’aeroporto. Non ha tutti i torti ma fino in Malawi siamo completamente al verde e non resta che contestare. Esponiamo il problema al giovane avvocato Gabriele Baldassini, con lo studio alla Shakespeare House, il quale per vari motivi ne deduce che Mr. Henry sta bleffando. Lungo la via incontriamo proprio Mr. Henry leggermente alticcio e, tutto sommato, anche simpatico: “Se domani non venite a pagarmi io vi raggiungo anche in Malawi anzi, telefono ad un amico che abita là e vi faccio arrestare o attaccare alla parete come un trofeo”.
Dopo queste stupidaggini capiamo che non farà nessuna denuncia, tuttavia gli diciamo di avere l’aereo l’indomani alla sera ma partiamo al mattino, costretti a malincuore ad “inchiodare” sia il “cacciatore” che i gestori fiamminghi dell’hotel per riuscire così ad arrivare incolumi a Blantyre, la più antica città del Malawi. In Malawi stanno facendo i preparativi per la visita della Regina Elisabetta, il nostro viaggio cambierà destinazione e genere.