Di ritorno da uno dei miei viaggi in Centroamerica, nel 2015, ne parlo nel mio articolo su San Pedro Sula e le antiche rovine di Copán, dovetti passare sei ore all’aeroporto di Miami in attesa del volo che mi avrebbe ricondotto a Vienna. Irrequieto come mio solito, volli approfittare di quel breve lasso di tempo per visitare la città.
In realtà, avevo già visitato Miami, per motivi di lavoro, qualche tempo prima; decisi quindi di tralasciare il “centro” (sempre che tale definizione abbia un senso per quel che riguarda le città degli USA), coi suoi grattacieli bianchi dalle forme tondeggianti, le grandi vetrate e l’illuminazione colorata al neon. Così come le zone residenziali, veri e propri ghetti per ultraricchi, e star dello spettacolo, con ville cintate e circondate da canali, e porticcioli privati per l’ancoraggio di grandi yachts. Mi concentrai quindi su Miami Beach, il quartiere Art Déco per antonomasia, che non conoscevo e che costituisce l’oggetto principale di questo articolo.
Il trasferimento dall’aeroporto si rivelò più complicato del previsto. Mi feci abbindolare da un tassista abusivo, un haitiano dall’aria losca e privo di tassametro, che mi fece pagare una cifra spropositata per farmi attraversare la lunga lingua di terra circondata da lagune infestate di alligatori, che collega Miami Beach alla terraferma. Mi dissero in seguito (ma non so se fosse vero) che il tragitto era pericoloso, in quanto i taxi venivano a volte presi d’assalto da membri delle numerose gang criminali cubane o haitiane per svaligiare i turisti.
Giunto a destinazione, la cosa che più mi colpì fu il mare: grazie anche alle spiagge di sabbia bianchissima, le acque hanno un colore di un turchese intenso, quasi fluorescente. Mi venne quindi voglia di buttarmici a capofitto (avevo avuto la previdenza di portarmi dietro un costume da bagno). Abituato alle spiagge nostrane andai alla ricerca di uno “stabilimento” per potermi cambiare, lasciare i vestiti in custodia, e magari prendere una sdraio e un asciugamano.
Fatica inutile, nell’America basic dei pionieri non esiste nulla di tutto ciò; mi fu indicato di cambiarmi in un fatiscente bagno pubblico, dai cessi intasati e i pavimenti luridi. Quanto ai miei averi più preziosi (biglietto aereo, passaporto, chiavi di casa, portafoglio e telefonino) ebbi il coraggio di lasciarli in custodia presso un chiosco per le bibite (per fortuna la mia fiducia si rivelò ben riposta). Dopo un delizioso bagno nell’acqua tiepida, potei finalmente dedicarmi alla visita del quartiere (e qui chiudo con gli aneddoti personali).
Miami Beach
Come dicono gli americani, Miami Beach, all’inizio del XX secolo era “Nowheresville”, un anonimo agglomerato di casupole fra gli acquitrini malsani, regolarmente devastato dagli uragani. Negli anni Venti i costruttori arrivarono per trasformarla in una destinazione economicamente abbordabile ma elegante per gli abitanti dell'East Coast in fuga dai rigidi inverni. Per renderla attrattiva capirono che dovevano farla sembrare una città piuttosto che un sobborgo.
Miami Beach aveva bisogno di un'immagine propria e di apparire vincente e desiderabile in tempi rapidissimi. I suoi costruttori e i suoi architetti (fra cui gli ideatori del Pierre e del Waldorf Astoria di New York), optarono per l'Art Déco, lo stile del momento, moderno e allegro, “un'architettura progettata per essere vista dalle automobili”. Gli architetti scesero da New York per iniettare un po' della grandezza, della spavalderia e della modernità di quella città nella sonnolenta Florida. E Miami Beach divenne un gioiello Art Déco, riproducendo in piccolo la scenografia di Manhattan: l'estetica emergente dei grattacieli, le cuspidi, la forma a gradini, le alte insegne al neon, le ricche decorazioni delle facciate. Un tocco locale furono le forme derivate da navi e aeroplani o elementi tropicali come motivi di palme, fenicotteri e onde.
Si trattava di un trapianto curioso. Il grattacielo era un prodotto del valore dei terreni nei centri ristretti di Chicago e New York; a Miami non c'era carenza di terreno, quindi le forme dei grattacieli (anche se in miniatura) erano per ragioni di scenografia: rappresentazioni teatrali di una metropoli emergente e moderna, torri sfalsate per dare un po' di altezza in più, e un profilo riconoscibile sulle cartoline.
Inoltre, il déco era economico e facile da costruire. Una lavorazione scadente poteva essere coperta da uno strato di intonaco spalmato come un gelato, e infatti i colori prevalenti sono quelli vaniglia, pistacchio e fragola. Nei suoi esempi migliori, per esempio in certe facciate di vetro cemento curvato, il déco di Miami Beach può ricordare il modernismo chic delle coeve avanguardie europee, ma con meno abbellimenti delle versioni parigina e newyorkese di questo stile. Gli edifici erano sormontati da insegne e luci al neon, grazie alle quali dopo il tramonto assumevano nuove combinazioni di forme (la cosiddetta “architettura della luce”). I nomi stessi degli edifici - Fairmont, South Seas, Beach Plaza, Tides, Senator, Crescent, Cavalier – evocavano il giusto mix di esotismo, lusso e vacanze balneari.
In generale, una atmosfera alla Grande Gatsby (anche se il romanzo è ambientato a Long Island e non a Miami Beach). E come l’opera di Francis Scott Fitzgerald, anche Miami Beach avrebbe riflesso le contraddizioni dell’età del jazz e la violenza sottostante il mito americano : un devastante uragano nel 1926, la grande depressione del 1929 e poi, nei decenni successivi, la decadenza per la presenza della criminalità organizzata, la violenza delle gang, il traffico di cocaina dal Sud America, l’afflusso incontrollato di migranti illegali haitiani ed esuli cubani in fuga dal regime castrista (famosi anche i marielitos, 20,000 criminali comuni messi in libertà da Fidel e spediti nel 1980 su barche di fortuna dal porto di Mariel verso le coste della Florida). Infine, con l’avvento dell’edonismo reaganiano, Miami Beach fu restaurata e cominciò a recuperare il suo antico splendore, attraendo nuovi ricchi, stilisti, attori e galleristi (ma non mancò la tragedia dell’assassinio di Gianni Versace nella sua lussuosa magione, nel 1997).
Oltre l’architettura
Chi ha letto i miei precedenti articoli conosce la mia predilezione per i riferimenti letterari legati ai luoghi visitati (quel che ho definito “turismo letterario”). Ebbene, pur avendo compulsato la mia biblioteca ed esplorato accuratamente Google al riguardo, non sono riuscito a trovare alcunché che leghi Miami alla letteratura (!).
Certo, potrei riferirmi a Hemingway, che nelle acque della Florida ambientò alcuni dei suoi romanzi più famosi (Avere e non avere, Il Vecchio e il mare e il postumo Isole nella corrente). Com’è noto, nel 1931 lo scrittore mise su casa a Key West, l’ultima e la più grossa di un arcipelago di isole protese verso Cuba e collegate a Miami da una lingua di terra e ponti. La casa di Hemingway a Key West, con le foto su vita e carriera dello scrittore è un museo, ma, non avendolo visitato, non posso dirne nulla di personale.
Oppure spingermi più lontano, ai tempi in cui la Florida fu “scoperta” dagli spagnoli Hernando de Soto, Ponce de León e Cabeza deVaca agli inizi del XVI secolo, mentre erano in cerca della leggendaria fonte dell’eterna giovinezza. Ponce de León ribattezzò quel luogo "La Florida" forse perché impressionato dal rigoglio della vegetazione. Quest’epopea fu descritta dal grande scrittore meticcio Garcilaso de la Vega (figlio di un conquistador e di una principessa Inca) ne La Florida del Inca. Pochi autori sono stati capaci come Garcilaso di rappresentare il romantico eroismo, rasentante la follia, che ispirò le loro imprese.
Per concludere
A dieci anni dalla mia visita, leggo che Miami, la città “senza storia” (letteraria e non), è in pieno sviluppo e sta soppiantando Los Angeles e New York per dinamismo e attrattiva. Le piaghe della criminalità organizzata e della violenza delle gang sono state ridimensionate o si sono spostate altrove e la città vanta il terzo “skyline” di grattacieli negli Usa dopo New York e Chicago. I fenomeni di degrado sociale che hanno reso meno invitanti la California e New York, nonché Chicago, Seattle e Boston, in Florida non si avvertono o sono poco visibili.
I pensionati benestanti che migravano da climi freddi continuano ad affluire, così come i sudamericani ricchi in fuga dal narcotraffico, i regimi autoritari e l’iperinflazione dei loro paesi d’origine (una “fauna” ben descritta da Mario Vargas Llosa nel suo romanzo Crocevia), ma a loro si sono aggiunti cervelli, talenti e imprenditori provenienti da Silicon Valley, da New York e dall’Europa.
Quanto a Miami Beach è sempre più trendy e arty e i parties imperversano nelle ville.
D’altronde, il mondo nuovo è nella Florida di Donald Trump, ben rappresentata dalla “reggia” di Mar-a-Lago (anch’essa evocatrice di atmosfere alla Grande Gatsby). E in questo mondo ci siamo tutti dentro, che ci piaccia o no.