Huè è una città facile da percorrere, quattro passi e sono alla stazione dei treni con destinazione Danang, un piacevole e panoramico percorso di 103 km lungo la costa. Pare sia il tratto ferroviario più bello di tutto il Vietnam, almeno così dice Angela, un’insegnante di inglese di Nha Trang, che ampliando il discorso sottolinea: “I nostri genitori ci hanno insegnato a lavorare molto e a risparmiare i denari per la famiglia; è il nostro sangue che ci impone di fare così... gli occidentali, a differenza di noi, lavorano e si divertono”. Un altro esempio che rafforza in me l’idea dell’influenza cinese nel popolo vietnamita, che orienta a quel rigore forse eccessivo che noi abbiamo smarrito.
Eccomi a Danang, una città che mi ha sempre incuriosito, un altro luogo che avremmo voluto vedere durante la guerra ma non ci fu permesso. Salgo sul primo grab, i moto-taxi guidati da persone col casco verde, che mi conduce in un hotel “lussuoso ma economico” nella zona balneare che mi ricorda Rimini. Un’interminabile lingua di sabbia che abbraccia l’immensa baia, ma il mare è sempre mosso perché non è stagione. Un litorale come tanti che, come primo impatto, non mi entusiasma più di tanto. È qui che il 6 marzo 1965 sbarcò il primo contingente di Marines che doveva affrontare i nordvietnamiti via terra e Danang era la base principale. È l’inizio della guerra vera e propria provocata dagli Stati Uniti perché convinti di vincere in 40 giorni. Non immaginavano che un piccolo popolo di agricoltori potesse resistere alla più grande potenza mondiale, che disponeva di una enormità di uomini e mezzi e la migliore tecnologia militare. Nei successivi mesi quasi mezzo milione di giovani americani arrivarono in Vietnam per una guerra che nessuno voleva fare… e il mio ricordo va ai quotidiani in lingua inglese di Saigon, con le pagine piene di foto tessera dei ragazzi americani uccisi in combattimento.
Città dinamica, in forte via di modernizzazione ma, ad eccezione della spiaggia ed il ponte del Drago sul fiume Han, ritengo che non ci sia molto da vedere. Mi ricompensa la superba cerimonia religiosa in uno dei tanti tempietti buddista incontrati sulla via. Con particolare gentilezza i presenti mi invitano a sedere ad un tavolino vicino all’abate monaco che sta facendo orazione, mi servono tè, noccioline e sigaretta davanti ai fedeli in ginocchio, intenti a pregare cantando. Accendono addirittura le luci per permettermi di fotografare meglio, facendomi sentire a mio agio. Quando esco tutti si alzano per salutarmi stringendomi la mano, a capo chino, in segno di rispetto. Decisamente uno stile comunicativo che tratteggia una cultura.
Prima di partire non posso eludere l’escursione al panoramico Golden Bridge nelle Ba Na Hills, ad una quarantina di chilometri da Danang, eretto nella lussureggiante e fresca località di villeggiatura montana creata dai colonialisti francesi nel 1919. Costruito da appena un anno ma già famoso nel mondo per la sua originale architettura basata su due gigantesche mani di pietra che lo sorreggono. Si giunge in cima al monte con la funivia più lunga al mondo, citata sul Guinness del 2013, quasi sei chilometri di suggestiva e ripida salita sulla foresta che conduce al celebre Golden Bridge, una singolare balconata di 148 metri sulla pendice del monte. Più in basso a sinistra, dal verde emerge la gigantesca statua bianca di un Budda seduto, visibile da svariati chilometri di distanza. Tantissimi i visitatori ma l’atmosfera rimane comunque molto piacevole ed io rimango incantato, come davanti ad un quadro di Monet, dalla marea di aggraziate ragazze coi cappellini a falde larghe e gli abiti leggiadri color pastello. Un secondo troncone di funivia porta sulla vetta a 1485 metri di altitudine, dov’è stata ricostruita una cittadina medievale francese a scopo turistico, con castelli, osterie ma anche pagode, templi, attrazioni e spettacoli dal vivo di musica e danze folcloristiche molto apprezzati. Il loquace Denny, nato in Vietnam che vive da decenni in California, mi conferma quello che già pensavo: “I cambogiani, i tailandesi e gli indonesiani sono più estroversi ed abituati ad invitare anche gli stranieri a casa loro... i vietnamiti no! Sono gentili e rispettosi, socializzano, ma a fine giornata ognuno a casa propria... in difesa della loro privacy. Sono simili ai cinesi”. Nel costo dell’escursione è incluso il pranzo all you can eat nel mega ristorante a buffet che offre decine e decine di superbi piatti esotici e cibi freschi da assaggiare in piena libertà.
Come tutte le escursioni in Vietnam, anche questa è ottimamente organizzata e, a fine giornata, si torna in albergo più che soddisfatti.
Scendo in caffetteria dove la giovane cameriera mi racconta che gli stipendi mensili per un’impiegata sono diversi di città in città: a Huè si percepisce il corrispettivo di 90 euro, mentre ad Hanoi sono 200 e a Saigon 270 circa, in base anche al costo della vita locale. Resto sorpreso quando nel citare il nome di Ho Chi Minh la ragazza fa una smorfia di disgusto condivisa dai presenti, aggiungendo anche che al Nord, ad eccezione di Hanoi, la popolazione è più “chiusa” e in certe aree dedita a traffici illeciti. Sono le generazioni del dopoguerra che non sono state rieducate al comune senso di appartenenza nazionale. Se prima la maggioranza della gente del Sud si sentiva occupata dagli americani, oggi si senta gestita e oppressa da quelli del Nord, con leggi e divieti per niente condivisi.
Questo dialogo mi ricorda quello di segno opposto avuto 50 anni fa a Saigon con due studenti universitari, allora nostri coetanei. Davanti ad una birra dissero che amavano gli italiani che a loro parere erano migliori degli americani perché dediti all’arte e alla musica. Piaceva loro anche la mafia siciliana perché creava problemi al governo americano, amavano sia il Sud che il Nord Vietnam e si auguravano che presto i vietcong entrassero a Saigon, dichiarando a voce alta che quel giorno loro sarebbero rimasti a letto a dormire. Non piacevano loro né gli americani, né i cinesi e né i russi. Incalzati dalle mie domande, con disinvoltura ammisero apertamente che non volevano il comunismo ma non avrebbero mai sparato contro i fratelli del Nord, ammirati perché indipendenti. Intorno a noi persone sedute ai tavoli della caffetteria ascoltavano imbarazzate fingendo di guardare altrove. Due visioni diverse, quella degli studenti di ieri e quella della cameriera di oggi, ma ugualmente degne di riflessione.
Da Danang volo a Phu Quoc, l’isola nel golfo del Siam a governo autonomo. Prima di partire dall’Italia mi aveva incuriosito al punto da considerare la possibilità di realizzare un articolo specifico grazie al suo straordinario sviluppo turistico, dovuto anche alla costruzione di un aeroporto internazionale con voli diretti anche da Milano.
Sono in un confortevole bungalow circondato dal verde ad un paio di chilometri a Sud del capoluogo Duong Dong. Lungo l’assolato stradone che conduce al porto, parallelo alla costa, ci sono alcune stradine che scendono alla spiaggia conducendo in prevalenza a resort privati. È chiamata Long Beach, che segue per chilometri tutto il litorale occidentale dell’isola. Vedo molti turisti russi ed anche gruppi organizzati di italiani. La spiaggia libera, deserta e ornata di palme, la trovo al santuario di Dinh Cau, un affascinante tempietto con faro arroccato su di uno sperone roccioso dedicato a Thien Hau, la dea del mare. Il terrazzo del tempio è perfetto per fotografare la spiaggia, il porto e il tramonto. Si narra che questa roccia sia affiorata dall’acqua solo per aiutare i pescatori a trovare la via di casa e qui oggi si prega per la sicurezza degli uomini in mare.
Qui incontro Margaret, una piacevole signora dei Pirenei francesi che viaggia sola e parla bene svariate lingue. Concordiamo di noleggiare una moto a testa e di andare assieme ad esplorare l’isola. La prima tappa è An Thoi, nella punta meridionale di Phu Quoc, per salire sulla nuova funivia che in 8 km conduce alla spiaggia di Pinapple Island, certificata dal Guinness come “the longest on the sea cable car ride in the world”. Questo record è dovuto alla distanza tra i piloni ed alle loro dimensioni, alti fino a 164 metri, che danno la sensazione di volare sui villaggi, sulle barriere coralline e sul mare turchese dell’arcipelago, con vedute mozzafiato a 360 gradi.
Per il bagno scegliamo Sao Beach sul versante orientale dell’isola, per la sua sabbia bianca molto fine, mentre per cenare a base di pesce si torna a Duong Dong, dove i ristoranti si susseguono per chilometri e c’è solo l’imbarazzo della scelta.
Margaret è partita e nei giorni che seguono continuo a girare l’isola da solo, allo scopo di catalogare con scrupolo quante più baie, spiagge, villaggi, templi e luoghi possibili per avere così un’idea più completa di Phu Quoc. Rimango anche a piedi, con la moto totalmente in panne, ma per puro miracolo trovo un’officina a pochi metri. Resto ammirato nel vedere due ragazzi serissimi che, senza fiatare, in un’ora abbondante smontano il motore pezzo a pezzo e rimettono “a nuovo” il mezzo. Chiedono 4,20 euro in due. Tornato in sede, la signora del noleggio sostiene che sono stati cari: “Ti hanno fregato perché sei straniero”.
Mi è piaciuta molto l’atmosfera di Ham Ninh, caratterizzata da un immenso mercato pieno di colore e di vita, con i suoi ristoranti a palafitta allineati lungo il molo, ma anche quella delle spiaggette e del tempio di Dinh Than Nguyen Truc, nella zona di Ganh Dao, all’estrema punta di Nord-Ovest. Nel Sud-Ovest ho apprezzato la spiaggia del Sailing Club, egregiamente diretto dal sudafricano Philip Harris, che ha l’ambizione di creare qui una piccola Ibiza. Decisamente diverso, invece, il genere di interesse ed emozione che suscita Di Tic Nha Tù, meglio noto come Coconut Prison, il campo di concentramento americano che deteneva i vietcong ed i nordvietnamiti catturati durante la guerra. La ricostruzione delle varie ed atroci torture con manichini di cartapesta rende tutto tremendamente realistico, coinvolgente e sconvolgente, ma vale la pena visitarlo per non dimenticare e per rendersi conto di quanto può essere crudele l’essere umano e folle la guerra. La stessa notte ho avuto comunque un brutto incubo.
La settimana nell’isola si è conclusa con un bilancio tutto sommato positivo, sono stato bene anche se lascio Phu Quoc con sensazioni contrastanti. Per un viaggiatore autonomo trovo che sia dispersiva, con troppe zone privatizzate e molti alberghi in costruzione che prefigurano un futuro all’insegna del turismo di massa, cosa che disturba gli amanti delle immersioni che già lamentano acque torbide e sporcizia diffusa. Purtroppo di Paesi che hanno perso la loro autenticità ne ho visti molti e di peggiori, ma penso che qui in molti non faranno ritorno.