Moronì (pronunciato alla francese, con l’accento sulla “i”), con i suoi 49.000 abitanti, è considerata la “metropoli” del Paese. La parte più affascinante è certamente il nucleo storico di Mtsangani-Badjanani, medina percorsa da stradine tortuose che formano un labirinto di stretti vicoli tipicamente arabi come quelli di Zanzibar, con le balaustre di legno intagliato e le porte delle case protette da punte in ottone che in passato impedivano agli elefanti di appoggiarsi e di sfondarle. Quartiere che si estende giù al porto fino e oltre la Grande Moschea del Venerdì, diventata simbolo della nazione. Sull’arcuato lungomare, i bambini si tuffano in mare per giocare attorno alla carcassa di una nave affondata, mentre all’ombra di piante i ragazzi si affrontano a biliardino, accanto a donne che sezionano tonni, merluzzi e polpi appena pescati da proporre ai passanti. In genere le più anziane non amano essere fotografate e si coprono il viso con lo scialle, un timore che rivela una riservatezza antica piacevolmente miscelata con la semplicità e la naturalezza di un mondo ancora arcaico. Dall’imbrunire, il canto monocorde e avvolgente dell’invito alla preghiera si protrae per ore, il volume è talmente alto da diventare una colonna sonora assillante che avvolge l’intera città e ipnotizza tutti, come nelle fiabe di Aladino. Poi riprende a notte fonda, con accenti forti come un monito greve, fino all’alba. Ciò nonostante, questa nenia cantilenante mi concilia il sonno e dormo profondamente, come non facevo da anni.
Qui si parla Shicomoro, una fusione di arabo e swahili, e la gente è un eterogeneo coacervo di bantu, arabi e indo-malgasci, di indole cordiale e rispettosa; in genere nessuno mi presta particolare attenzione tanto da farmi spesso sentire come un fantasma. È una sensazione per me nuova, decisamente piacevole! Quando la situazione richiede un approccio, questo è sempre garbato. L’espressione: “Allah mi è testimone”, oppure “Dio ci osserva e ci giudica” è molto ricorrente. Il fatto di sentirsi sorvegliati speciali da Dio, li induce ad essere onesti il più possibile: “Posso mentire a un uomo, non a Dio”. Anche il semplice trasporto in taxi conferma la dignità morale di questo popolo: per il circuito urbano si pagano 0.50 euro e per l’extraurbano il doppio, prezzo fisso per tutti, senza discussioni o contrattazioni varie, tipiche invece di molti paesi africani.
Passo le giornate a perlustrare ogni angolo senza incontrare alcun turista. Sono l’unico bianco a zonzo. Ecco perché sulle Comore non esistono che scarne relazioni di viaggio, queste sono isole vergini, con strutture inesistenti che dimostrano di non essere state ancora toccate dal turismo, d’élite e di massa. Chiedo spiegazioni ad Aboubacar Affane, direttore del Tourist Services Comores che, tra le righe, mi fa capire che avrebbero invece molto interesse per il turismo ma non hanno materiale informativo, mappe e neppure un sito web decente. Penso che sia meglio così.
Moltissime case hanno il piano terra rifinito e abitato, mentre il piano superiore è lasciato allo stato grezzo, ne chiedo spiegazione a Zakaria Mkatibou, curatore del Museo Nazionale che racchiude il panorama della storia comoriana, senza immaginare che tale osservazione avesse un significato tanto profondo nella cultura locale: “Ciò è dovuto alla tradizione dell’Anda, importantissima per tutti a Grande Comore, legata al gran mariage della primogenita con un gentleman”. Per la prima figlia si combina una festa di matrimonio che dura nove giorni, in abito nero e ricami in oro. Il padre e i parenti della sposa si uniscono per costruire la casa: “È un onore per loro costruirla”. I piani superiori allo stato grezzo stanno quindi a mostrare che in quella casa c’è una primogenita da maritare e quella sarà la futura dimora degli sposi che verrà terminata in un baleno una volta combinato il matrimonio. Specifica con puntiglio: “Se non fai questo non sei considerato dalla comunità, vali poco. Non diventi Alto Nobile e non hai diritto a entrare nella commissione di coloro che prendono le decisioni. È l’unico modo per elevarti di rango, godere di uno status sociale di rilievo”. Al marito il compito di sostenere le spese della sfarzosa festa, chiamata toirab, di arredare la casa e di fare doni in denaro e oggetti in oro o qualcosa che indichi la sua dote, concordata dalle famiglie. Gli uomini, in genere quarantenni al secondo matrimonio, spesso dedicano la loro vita a risparmiare denaro in vista di questo evento. In molti casi lo sposo passa il resto della sua vita a estinguere i debiti di matrimonio. Se la prescelta rifiuta, ciò equivale a un grave disonore per tutti e perde la casa.
Con Zakaria si parla, si scherza e diventiamo presto amici. Parlando di religione, tiene a precisare: “Il saluto Salam vuol dire pace”. Si altera quando menziono gli Sciiti e ribatte pronto: “Dove ci sono i Sunniti nessun problema, dove gli Sciiti solo guerre. Non dicono mai la verità, sono dei bugiardi, dei piantagrane. Anche il colpo di stato nello Yemen è stato pilotato dall’Iran che vuole ristabilire il potere dell’antica Persia. Gli iraniani si sentono molto superiori agli arabi”. Le sue parole mi trasmettono, in modo inequivocabile, il profondo odio che a livello generale divide queste due filosofie islamiche. Faccio la prova del nove e chiedo se per lui essere Cristiani è la via sbagliata. Dice: “Se un islamico si fa Cristiano per me sbaglia”. Resta confuso, quasi frastornato, quando gli dico che io prego per tutti gli abitanti della Terra, di qualsiasi religione poiché è l’uomo che mi interessa, non il suo credo.
Altro incontro degno di nota è quello con l’affascinante Saminya Bounou, caporedattrice di Al-watwan (La nazione, in arabo), il quotidiano in alfabeto latino più letto nel paese. Saminya ci tiene a dirmi che la letteratura comoriana deriva da quella orale sotto forma di hali (fiabe tradizionali) e nei secoli passati da racconti scritti in arabo da principi, sultani e nobili. Una buona parte della letteratura è scritta in shimasiwa (dialetto comoriano).
Nel minuscolo luogo di ristoro, posto nel piazzale sterrato di fronte al giornale, il polemico titolare Nourdin ama parlare di politica e con stizza afferma: “Odio i francesi con tutto il cuore!”. Di certo è un sentimento molto comune alle Comore, legittimato dalla “questione” di Mayotte. Nel suo localino d’angolo si sofferma molta gente, uomini e donne, tutti mi rivolgono il saluto e qualche commento. Curiosa la pubblica confessione della trentenne Mariam, che afferma di essersi sposata due volte e di essere ancora vergine: “Immagino e sogno rapporti sessuali, ma appena un uomo mi si avvicina lo respingo con forza … non so il perché, forse è una punizione di Allah”. Le signore presenti non la irridono, dimostrano di comprendere il motivo del suo rammarico. Madame Amina Kaambi, direttrice del turismo regionale, continuando afferma che in molti paesi vicini si pratica l’infibulazione ma non qui alle Comore. Aggiunge disinvolta che i ragazzi che praticano la circoncisione con il coltello tradizionale “Wembwe” sono sessualmente più forti di quelli che lo fanno chirurgicamente all’ospedale.
La stessa mattina incontro gli unici italiani residenti, sono Federico, David e lo chef Maurillo, giovani e capaci gestori della pizzeria Pulcinella, una elegante corte su Rue de la Corniche, affacciata al mare. Forno a legna e macchina per il caffè espresso, buonissimo. Confermano che i comoriani sono brava gente, mentre pare che i clienti peggiori siano i francesi: “Snob e taccagni”. Raccontano che i comoriani non vivono l’assillo del lavoro perché ogni famiglia ha almeno un emigrato in Francia che manda a casa un centinaio di euro al mese, sufficienti a vivere senza far niente. Chiedo loro anche il rapporto esistente fra la massiccia presenza delle zanzare e la salute della popolazione. Non sembrano preoccupati, precisano che la malattia che diffondono è il paludismo (non la malaria), più diffuso all’interno dell’isola: “Se una zanzara ti punge, in 3-5 giorni muori, a patto che l’organismo sia già debilitato”. È a rischio chi fa solo un pasto al giorno. Basta fare attenzione: “Pungono solo all’alba e al tramonto, dalle 4 alle 6 e dalle 18 alle 20”.
Passano i giorni, conosco persone, fisso appuntamenti e lentamente si ricrea quella fitta rete di impegni che mi ricordano troppo l’atmosfera di casa. Decido di cambiare rotta. Madame Amin, responsabile del night club Rose Noire, mi consiglia vivamente le spiagge del nord. In taxi brousse (pulmino collettivo) mi reco nell’unico alloggio extra urbano esistente a Grande Comore, che si trova nell’isolata Maloudja, 40 km a nord di Moroni. Una decina di bungalow costruiti all’ombra di palme da cocco e affacciati sulla baia di sabbia bianchissima delimitata da roccia lavica nerissima. Acqua limpida smeraldina e fondali che scendono dolcemente fino al muro sommerso del reef, frequentato da amichevoli mante. Superlativa scenografia da poster, che ricorda la Polinesia: vera magnificenza! Costruiti in epoca francese, assieme alla grande piattaforma coperta della caffetteria, gli chalet in legno sono datati, ma tenuti con cura dalla responsabile Fatouma Mohammaud (tel. +269-3380706), che chiede 20 euro per notte. Per la colazione, invece, ne chiede 10 o 9 per ogni pasto, facoltativi. Scelgo di fare la spesa nel vicino mercato di Mitsamiouli, distante un paio di chilometri dove con 10 euro ti danno un “barrocciata” di alimenti. Anche Galawa, la baia gemella subito appresso, è un angolo paradisiaco di straordinaria bellezza, vigilata dalla struttura di un lussuoso complesso balneare abbandonato. Mi dicono che fino a qualche anno fa l’hotel lavorava, ma venne poi chiuso per una disputa tra soci con conseguente fallimento... Galawa divenne celebre per l’immagine di un boeing sudafricano che, per una avaria, ammarò davanti ai turisti. Per tre giorni vivo in perfetta solitudine, ispirato da Robinson Crosue, poi l’assenza di acqua e di luce, la guerra a colpi di flit con le zanzare, i lemuri che rubano il cibo e l’arrivo dei vacanzieri del fine settimana mi inducono a spostarmi di nuovo.
Salgo sul primo brousse diretto a est, supero l’inquietante buco del Lac Salè e seguo la costa orientale dell’isola fino alla linda spiaggia di Chomoni, con l’enorme baobab che dal promontorio sorveglia la baia, invasa dalle tradizionali piroghe a bilanciere dei pescatori, dette djahazi. Un torrenziale acquazzone mi blocca al ristorante per qualche ora. Il titolare ha un paio di camere da affittare, che sono però perennemente prenotate. Il monsone di nord-ovest porta piogge da novembre ad aprile, ma si tratta spesso di scrosci d’acqua notturni che rinfrescano l’aria. Frequenti a ogni ora solo nei mesi di febbraio e marzo.
La strada che costeggia il mare verso sud è in pessime condizioni, segue le pendici di roccia nera del maestoso Karthala (2361 m), il vulcano ancora attivo col cratere più ampio al mondo. Il signore che mi è accanto ha gambe lunghissime e fa un viaggio orribile, pressato tra corpi e lamiere senza mai un lamento. Gli chiedo come va? E lui stoicamente: “Pas de problem”. Tratto da non ripetere. Tuttavia in questo periplo dell’isola scopro siti ricchi di fascino legati agli antichi sultanati e un paesaggio dalla natura lussureggiante, un vero giardino botanico tropicale, con grappoli di orchidee che pendono da rami di alberi altissimi e il profumo di patchouli e gelsomino onnipresente. Il suolo vulcanico, molto fertile, favorisce la crescita di un'abbondante vegetazione. Oltre a cocchi e banani, anche manghi, avocado, papaya, guaiava, litchi, aranci, mandarini, limoni e svariati altri frutti esotici crescono spontanei, la manioca e le patate dolci si colgono dai cigli delle strade... in contrasto con la miriade di carcasse d’auto abbandonate. Breve sosta. Un ragazzino stacca due manghi da una pianta e me ne fa dono. Sono buoni, maturi e dolci. Ne chiedo un terzo e lui mi gela: “No messieur... ne hai già avuti due, gli altri potrebbero servire a qualcun altro che passa”.
Incasso la lezione e scendo alla spiaggia di Chindini, piena di gente che attende di essere imbarcata su potenti lance bimotori dirette a Moheli, l’isola più piccola e selvaggia dell’arcipelago. Un vivace viavai di mezzi con passaggi da 15, 20 e 30 euro, dipende dal tipo di imbarcazione; il viaggio impiega un’ora e trenta circa, ma non accettano stranieri. Dalla capitale Moroni non ci sono trasporti via mare per Moheli, solo aliscafi per Aujoun, come il Ntrigui Express da 246 poltrone (3 ore, 35 euro).
È il giorno della partenza e mi accompagna Zakaria, votato ormai a spiegarmi ogni cosa: “L’aeroporto è stato donato dei cinesi, dedicato a Said Hibraim, il principe del XVIII secolo che ha confiscato le terre ai francesi per donarle alla comunità e liberando i comoriani dalla schiavismo di Parigi”. Entrambi sappiamo bene che i cinesi non regalano niente, per certo avranno il loro tornaconto, fosse anche fra cent’anni. Si tratta di un semplice caseggiato privo di luogo di ristoro, assenza ridicola per un aeroscalo internazionale. La sala d’attesa è composta da una lunga tribuna a gradini, coperta e posta all’esterno, davanti all’aeroporto. Nel momento dei saluti incontriamo Maulidi Abdul, scultore del legno noto anche in Francia, il quale mi prega di scrivere che “Isole Comore” deriva dalla traduzione dell’espressione araba Giazir al-Qumr, che significa “isole della luna”. Con più di trecento coni, spuntoni rocciosi, crateri e colate di lava pietrificata, una morfologia del terreno simile a quella lunare, è davvero un nome appropriato.
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