Noi eravamo in viaggio.
Io ero in viaggio.
Lei era il viaggio.
E io avevo una Land Rover per il viaggio.

Possedevo un bosco di castagni secolari in Toscana, un sogno o un incubo, a seconda delle stagioni, e in mezzo c’era un podere: case di pietra con tetti in lastre di arenaria, niente elettricità ma ottima acqua di fonte.

C'era il fuoco di un grande camino per scaldarsi e per cucinare, lampade a olio e candele per illuminare i muri scrostati o per attirare falene nelle notti d'estate; e un lungo sentiero fangoso per arrivarci.

Ma Remo, il precedente padrone, mi aveva lasciato in dotazione una vecchissima Land Rover 88 del 1966 con la guida a destra, verde militare che fumava come una petroliera e, ovviamente, non omologata ma andava bene così perché allora, bei tempi, non ero omologato neppure io.

La tenevo all’inizio della strada del Rapinale che si chiamava così per via di un’antica casatorre nei pressi della quale correva il sentiero. Si doveva passare attraverso un angusto passaggio stretto tra un grosso ciliegio selvatico e il muro di pietra della casa da cui occhieggiavano, come orbite vuote, strette fessure nere attraverso cui, in tempi andati, qualche brigante tendeva imboscate ai viandanti spiegando così il sinistro toponimo che il luogo si era guadagnato.

Lasciavo lì la mia comoda berlina, che apparteneva al grigiore delle città e dell'asfalto, e salivo su quel libero ammasso di ruggine e lamiera che, dentro, odorava di muschio e di bosso e con lei entravo nel mondo incantato del bosco e della pietra con l’illusione di poterlo conquistare con donchisciottesca baldanza.

Perché ogni attività umana nel tempo, ogni tradizione, ogni arte e persino ogni filosofia ha avuto qualcosa, un oggetto, una parola o un volto, che ne racchiudeva l'essenza divenendone il simbolo: e per la mia generazione la Land Rover è stata il simbolo assoluto dell'Avventura.

La sua storia inizia nell' immediato dopoguerra, nel 1947, quando nei cantieri di Solihull, West Midlands in Inghilterra, Maurice Wilks, ingegnere capo della Rover Company, prendendo spunto dall'americana Jeep Willys che aveva portato gli alleati vittoriosi fino a Berlino, concepisce un veicolo affidabile e robusto, estremamente semplice e adatto ad ogni terreno perché dotato di trazione integrale sulle 4 ruote e che viene presentato al salone dell'auto di Amsterdam nell'anno successivo con il nome di Land Rover. Nasceva così una delle vetture più amate e celebrate nella storia dell'automobile.

Da allora sono passati più di 70 anni e dopo 7 versioni, rinnovate per correre dietro al progresso, nell'inverno del 2016 ne esce dalla catena di montaggio delle officine di Solihull l'ultimo esemplare perché non è stato più possibile adeguare il vecchio glorioso veicolo agli standard moderni con le loro regole di sicurezza e di impatto ambientale sempre più stringenti.

Usciva di scena un simbolo e con esso tramontava per sempre un’epoca di viaggi e di avventure impagabili, irripetibili perché concepite in un mondo che non esiste più, dove ci si poteva ancora perdere veramente, senza lasciare tracce digitali o essere rintracciato agganciato a qualche cellula satellitare, dove dovevi usare la bussola e le carte geografiche e la gente che si incontrava ti guardava stupita come se avesse visto materializzarsi un miraggio e forse un miraggio lo era davvero.

Da allora il marchio Land Rover è stato ereditato da un enorme e sofisticatissimo SUV, possente ed estremamente lussuoso che nulla ha da spartire con l'originale.

L'enorme successo della vecchia Land, infatti, era dovuto proprio alla sua estrema semplicità che ne faceva la compagna di viaggio ideale nelle lande desolate dei deserti e delle savane del mondo dove un qualsiasi meccanico, scalzo e bisunto, avrebbe saputo ripararla, inventandosi un mozzo o una balestra ricavandoli da un rottame scovato nel retro di una improbabile officina in adobe o in lamiera ondulata, lungo qualche polverosa carovaniera mentre tu, all'ombra, sorseggiavi un thè alla menta circondato da un nugolo di cenciosi bambini festanti.

Ora, con la nuova Land Rover e la sua ossessione elettronico-digitale non mi fiderei nemmeno ad andare in Grecia figuriamoci in Africa perché se si blocca là per una qualsiasi ragione, solo un "super meccanico" hacker in camice bianco e mascherina saprebbe (forse) rimetterla in moto a patto, ovviamente, di avere a disposizione una officina autorizzata dotata di diagnostica computerizzata, notoriamente sempre disponibile nel cuore dei Balcani o lungo le piste del Teneré.

No, grazie, ridatemi la mia vecchia Land, con le sue immancabili gocce di olio che trasudano dalle guarnizioni del differenziale, la sua lamiera di alluminio corrosa qua e là ma con il suo indistruttibile telaio a longheroni e traverse, con le sue belle balestre cigolanti e le sue generose ruote motrici tassellate, non quei ridicoli pneumatici ribassati buoni per un circuito da Formula 1 con cui escono le nuove Defender o le Range Rover.

Adesso che gli anni mi hanno omologato vengo invitato agli eventi mondani della mia città e qualche giorno fa sono stato alla presentazione dell' ultimo lavoro di un noto fotografo bolognese. L'occasione celebrava il reportage fotografico di un viaggio che l'artista, grande viaggiatore, aveva effettuato negli anni ‘70 attraversando con un amico il Sahara, da Tunisi fino ad Abidjan in Costa d' avorio, a bordo di una Land Rover attrezzata appositamente: una vecchia versione passo corto, come quella che avevo io, solo color sabbia.

A guardare quelle magnifiche fotografie ho provato una stretta al cuore, una bruciante nostalgia di come eravamo, di come ero io e di come si viaggiava in quegli anni. L’immagine di apertura della galleria fotografica è un vero capolavoro, perché mostra la baldanzosa grinta della vecchia Land Rover 88 II serie attrezzata con una sovrastruttura per caricare il necessario per le lunghe traversate: taniche di benzina, attrezzi, teloni e tende per accamparsi e con le griglie per riparare i fanali e il radiatore.

Poi altre foto lungo il deserto, la sua solitudine con l'unico conforto del sordo brontolio del 4 cilindri a benzina di 2286 cc e delle balestre che cigolavano lungo gli infernali tratti di massacrante "tole ondulee": quello strano fenomeno per cui in lunghi tratti di piste si verificano delle ondulazioni del fondo di fango secco, causate, pare, dalle sospensioni dei mezzi pesanti, che sbullonano letteralmente le vetture e che, per essere percorse in maniera tollerabile, devono essere affrontate a una velocità di circa 70 km orari, affinché le ruote corrano sulle creste delle ondulazioni senza affondare negli avvallamenti. Ovviamente con una scarsissima aderenza e un rumore assordante.

Tutta la mitologia dei viaggi di quegli anni era rappresentata in quel magico palinsesto fotografico: carte stradali della Michelin - mito nel mito - stese sul cofano per studiare il percorso. Faticosi tentativi per liberare le ruote dalla sabbia e un consulto tra polverosi meccanici scuri e ricciuti, scalzi in caffetano e kefiah, affacciati sul vano motore sovrastati dal cofano spalancato, intenti in un dotto consulto in lingua tamazight o in berbero con inframezzata qualche parola in francese, per farsi capire; mentre alcune capre incuriosite lì attorno sembrano ansiose di partecipare a quella riunione al capezzale di una gloriosa Land Rover, la Regina del Deserto.