Abbiamo finito le rande, la moneta locale e al distributore faticano ad accettare i dollari americani. Il paradosso è che tutti vorrebbero la moneta americana ma, oltre ad essere proibito per legge, nessuno si fida per la marea di banconote contraffatte che circola in tutto il Paese. La guida sulla National Route 1 verso Città del Capo è monotona, attraversa un’arida e sconfinata pianura, animata da qualche gregge di pecore. L’unico particolare degno di attenzione sono le case e le capanne dei villaggi coi muri dipinti da elaborati disegni geometrici dalle tinte brillanti. È un simbolismo dalle origini ancestrali che emana creatività e certamente cela antichi significati. Ci fermiamo a fare di nuovo benzina nel sorprendente villaggio di Marjiesfontain, in un distributore della Shell d’altri tempi, servito da spente benzinaie nere abbigliate con grembiulini bianchi a pizzi e cuffiette, che riporta la memoria alle serve del romanzo dello zio Tom. Alle spalle della pompa di benzina, si erge l’incantevole edificio con torrette e merli del Lord Milner Hotel. Basta aprire bocca che qui i neri sbottano un secco “Yes master”, ovvero “Sì padrone” con tono marziale.
Passiamo la notte nel parcheggio del piazzale antistante, accanto alla fermata di vecchi treni trainati da locomotive a vapore. La mattina, di buon’ora, entriamo alla caffetteria del Logan’s Masonic Hotel dove apprendiamo dall’anziano cassiere, in pantaloni corti e calzettoni fino alle ginocchia in puro stile coloniale, che il limitrofo Lord Milner Hotel è stato dichiarato monumento nazionale ed ha ospitato numerosi personaggi famosi durante il dominio britannico, tra i quali lo scrittore Rudyard Kipling ed Olive Schreiner, nota esponente del movimento delle donne in Sudafrica.
Riprendiamo la strada e alle 21,30, appena giunti nel centro di Città del Capo, ci accorgiamo che Valentina, custode dei nostri valori ma stregata dal luogo, ha dimenticato la borsa nella caffetteria di Marjiesfontain, con dentro i nostri passaporti, i biglietti aerei, le patenti. “Di colpo ci prende un colpo!”. Se andasse persa sarebbe una catastrofe. Telefoniamo più volte alla caffetteria ma invano, nessuno risponde. Alle 22 non resta che mettersi di nuovo alla guida e riprendere la strada per Marjiesfontain, distante 310 km. Mi era già capitata una cosa del genere tre anni prima in Francia, per una dimenticanza dell’amico Giorgio Mantovani. Son cose che capitano, ma l’ansia che si crea al pensiero che qualcuno se ne impossessi mette voglia di volare. I distributori in Sudafrica chiudono alle 18 e non abbiamo benzina a sufficienza ma cerchiamo comunque di avvicinarci il più possibile. Purtroppo per lavori in corso sulla superstrada, siamo costretti a fare una deviazione tra i monti attraverso il passo di Bainskloof via Wellington dove il clima non è favorevole: acqua, vento, nebbia, burroni con tratti di strada franati, indicazioni stradali fuorvianti, nubi che, come fantasmi, avvolgono la strada. In più due pipistrelli sbattono contro il vetro rompendo i tergicristalli. A questo punto, allucinati più che mai, la prendiamo in ridere: tutto è iniziato in quel Paese magico che adesso ci appare “malefico e stregato”. Alle due di notte arriviamo senza un goccio di benzina a Worcester ma il passo è superato.
Puntuali al distributore che apre alle 7 e via di nuovo. Oggi è il 5 giugno, il quinto mese di viaggio. Lungo la via vediamo parecchie case di proprietari terrieri, circondate dal verde di basse vigne in pianura e sulle colline circostanti, attorno, le casette riservate agli operai neri. Un assetto abitativo che evoca piccoli feudi. Giunti alla caffetteria di Marjiesfontain, notiamo, con immenso sollievo, che la borsa di Valentina è ancora al suo posto e soprattutto intatta. Il cassiere, pensando che non fossimo usciti dal villaggio, si raccomanda: “Dovete andare a Cape Town, non avete visto il Sudafrica se non andate a Cape Town”. Inutile dirgli che noi veniamo da Cape Town e, tra l’altro, non abbiamo visto niente di speciale. Ringraziamo e ripartiamo subito, questa volta però via Grabouw e il Viljoens Pass, percorso che ci consente di costeggiare la grande baia alle spalle di Città del Capo. Il Capo di Buona Speranza, l’estremo Sud del continente africano toccato da tre oceani, è ora davanti a noi. Prima di entrare in centro ci fermiamo al distributore, serviti da un giovane ed estroverso benzinaio di colore che ci dice cose di dominio pubblico ma a noi sconosciute: “Ai neri è proibito entrare in città senza un permesso, pena un mese di prigione”. Ci trasmette le sue ansie dovute ai timori che lo strapotere dei bianchi infondono nella popolazione di colore: “Noi vogliamo vivere insieme senza apartheid, ma se un nero parla di politica lo deportano a Robben Island, una piccola isola qui di fronte (la stessa in cui anni dopo venne rinchiuso Nelson Mandela)”. Capisce che con noi può parlare liberamente e alla fine fa la sua sintesi della situazione: “I bianchi sono tutti bigotti e razzisti, preti e non sono tutti d’accordo contro i neri!”.
La super strada conduce fin giù in downtown e alle 13 parcheggiamo accanto all’ufficio turistico, dove ci confermano che per andare in Namibia non occorre il visto, essendo considerata al pari di una provincia del Sudafrica. Al confine non c’è neppure la dogana. Scopriamo che indicare quella regione col nome di Namibia ai sudafricani bianchi non piace, per loro rimane il South-West Africa della colonia anglo-tedesca. Namibia è il nome che indica il deserto del Namib, voluto dai nativi ed approvato dall’Onu una decina di anni prima. Un atto arbitrario dei bianchi che sottolinea la volontà di estinguere l’identità delle popolazioni autoctone. Ci fanno inoltre riflettere i nomi dei Paesi scelti sulla base della loro posizione geografica che rivela la mentalità logistica di questi colonizzatori anglosassoni.
Diamo un rapido sguardo in giro per le strade del centro di questa piacevole capitale che fu il primo insediamento europeo in Africa australe. Fondata nel 1652 dagli olandesi e infine occupata dai britannici, vediamo che ben coesistono le architetture in stile coloniale olandese con quelle di epoca vittoriana. Entriamo nel massiccio edificio del General Post Office in Adderley Street dove ci appare incredibile vedere la “Negro Waiting Room” ed i bagni moltiplicati per quattro: due per bianchi, uomo e donna, e due per neri e asiatici. Agli sportelli notiamo lunghe file di neri dai volti taciturni e spenti, mentre i bianchi passano davanti a tutti, come se quelli diversi a loro non esistessero. Fuori dagli hotel, inoltre, gli autisti neri aspettano all’esterno del mezzo per evitare cattivo odore. In compenso, in un moderno centro commerciale vediamo neri giocare a scacchi con pedine enormi su di una scacchiera gigante, disegnata sul pavimento in marmo, e tutt’attorno bianchi e neri a fare il tifo, in una atmosfera di apparente normalità. Evidentemente i giocatori godono di un prestigio a cui, in quel contesto, è difficile dare una chiave di lettura.
Il tempo non è dei migliori, piove, c’è vento, fa freddo qui, all’emisfero Sud siamo alle soglie dell’inverno. Alle 16,30 saliamo sul Comby e prendiamo la Nazionale 7 che conduce in Namibia, senza neppure vedere il Monte Tavola coperto dalle nuvole. In pratica siamo stati ben due volte a Città del Capo per un totale di appena quattro ore, questo dà l’idea del grande desiderio di viaggiare, muoversi senza perdere tempo avendo a disposizione il mezzo di noleggio per soli nove giorni. Un tempo da sfruttare al massimo allo scopo di cogliere la complessità di una parte bellissima dell’Africa ricca di contraddizioni. A 450 km c’è il paesino di Garies, un punto intermedio che raggiungiamo a mezzanotte per una sosta notturna. Il mattino seguente ci appare una distesa di casette allineate su di un'unica strada, edificate attorno alla piccola oasi generata dal corso del Groen River ed immerse in un paesaggio arido. Tuttavia ci dicono che in questo desolato luogo in mezzo al nulla in primavera crescono svariate specie di piante e di fiori unici al mondo, essendo al centro di una eco regione molto nota agli studiosi di biodiversità ambientali.
Dopo esserci ripuliti e rinfrescati nel bagno della stazione di benzina, superiamo Springbok e, a mezzogiorno siamo sul Malan Bridge del fiume Orange che segna il confine naturale della Namibia, senza alcuna stazione di polizia e nessun controllo. Per chi viaggia come noi è una rarità. Se un giorno questo ricco Paese diventerà davvero indipendente, sicuramente le cose cambieranno anche qui. Poco dopo il ponte, sulla sinistra troviamo un grande cartello che indica che siamo sul parallelo del Tropic of Capricorn. Continuiamo verso Nord immersi in un luminoso paesaggio lunare con canyon, molto suggestivo dove gli arbusti e i cespugli che crescono dal terreno arido creano effetti di luce delicati e fluorescenti. Alle 15 siamo però bloccati nel paesino di Grunau poiché, sia in Sudafrica che in Namibia, al mercoledì pomeriggio i distributori chiudono alle 12. Per fare benzina occorre il permesso scritto del magistrato che si trova a Karasburg, 50 km a Sud-Est di dove siamo ora, ma abbiamo il serbatoio completamente a secco. Chiediamo alla titolare del distributore di darci quel po’ di benzina per andare dal magistrato ma rifiuta seccamente. Già sapevamo che è severamente proibito anche solo travasare benzina da un serbatoio all’altro e qui tutti rispettano questa regola.
La gente in Namibia ci sembra ancora più rigida che in Sudafrica. Pensiamo di fare l’autostop ma la benzinaia ce l’ho sconsiglia vivamente: “I coloni non caricano nessuno e per i bianchi che chiedono un passaggio ai neri è umiliante”. Unica alternativa rimane il treno delle 15,30 che in un ora porta a Karasburg e fa ritorno alle 17,15. È un treno merci con un vagone per bianchi ed un paio per “Non European”. Noi saliamo sul primo che capita ed è quello per neri, i quali ci guardano con stupore. Ci raggiunge il controllore bianco che, preso atto della nostra inesperienza, ci invita gentilmente a cambiare carrozza ma noi non ci muoviamo. L’uomo rimane basito, indubbiamente non gli è mai capitato una situazione simile per cui cerca di spiegarci la differenza: “Noi siamo bianchi e loro neri … Lo capite?” Rispondiamo: “Noi siamo bianchi e loro neri, quindi?”. Dopo un paio di tentativi a vuoto non comprende più se fingiamo di non capire o se siamo davvero cretini, quindi parte a briglie sciolte: “We are white and they are black! They are bloody dirty people, not like us, me and you. We are white not dirty black, you know, there is a big difference!”. Sono grato a questo signore che mi ha dato la misura del disprezzo che nutre verso i neri. Adoro ascoltare, annotare ciò che gli altri dicono quando, a torto o a ragione, si esprimono liberamente manifestando molto spesso quello che è il sentire comune.
Scendiamo a Karasburg alle 16,30, il treno per tornare a Grunau partirà tra 45 minuti e per fortuna il magistrato ha l’ufficio alle spalle di questa minuscola stazione. È un permesso che si ottiene solo per validi motivi e la nostra urgenza da turisti impazienti non giustifica la richiesta, tuttavia il nostro ardore latino lo contagia e ci concede un permesso valido per un’intera settimana. Ora possiamo fare benzina dovunque e a tutte le ore, anche la domenica e di notte. Riprendiamo così senza problemi la strada B1 verso la capitale. A sinistra abbiamo la steppa e qualche gregge di pecore, a destra il deserto del Kalahari. A Keetmanshoop vediamo il bivio che porta alle miniere di diamante di Luderitz e Pomona, sull’Atlantico. Viaggiare è stupendo, incontriamo paesi apparentemente uguali ma appena varchi un confine scopri la miriade di differenze, a cominciare dai nativi che qui hanno la pelle più chiara, lineamenti delicati e gli occhi a mandorla, per noi un fantasioso misto tra mongoli ed esquimesi. Ma poi, strada facendo, nei rari paesi che s’incontrano vediamo altri gruppi etnici, tutti schivi e taciturni. Ci guardiamo reciprocamente con grande curiosità come se fossimo extraterrestri gli uni per gli altri. Nazione fredda, spenta, scialba, dove si respira una indotta tranquillità. Unica nota di colore, decisamente piacevole, gli abiti e i cappelli delle donne namibiane che ricordano la fantasia dei Caraibi.
Entriamo nella deprimente capitale Windhoek alle 12,20, ci troviamo di fronte una città senz’anima, con palazzi e casette moderne ma decisamente anonime. Le strade vuote, l’austera architettura della chiesa luterana che domina il centro ed il monumento ai soldati tedeschi, rappresentato da un pioniere a cavallo che impugna un fucile stile far west, non invitano a lunghe soste. Facciamo benzina, controlliamo olio, candele e pressione gomme, poi un salto alla posta per un paio di cartoline postali alla famiglia, il supermercato per la scorta di cibi, la banca ed infine un po’ di relax al Tea Room Movie, un genere di locale molto comune anche in Sudafrica, dove consumi tè o caffè e, in certi orari, proiettano un film per i clienti. Nella gentilezza dei bianchi si avverte il desiderio di complicità, di condividere un pensiero comune basato sulla differenza razziale. Gentili coi bianchi ma decisamente duri con gli altri. Se un bianco dimostra simpatia per un nero, ai loro occhi diventa un traditore, una persona spregevole considerata peggio di un nero. Ricordo l’amico Dino in Papua Nuova Giunea che per aver scelto come compagna una ragazza del luogo gli fu tolto ogni saluto e proibito di continuare a frequentare il club dei bianchi.
Gli anglosassoni hanno creato questo genere di barriere in molte parti del mondo, in più qui ci sono grossi interessi connessi alle miniere di diamante, sparse lungo la costa e tutto, più che altrove, deve essere tenuto rigidamente sotto controllo. Il giovane barista della Tea Room conferma che i lavoratori neri devono recarsi dalle miniere a casa e viceversa, non possono fare altri itinerari senza il permesso dei bianchi. Il ragazzo inoltre lamenta che ormai da anni la guerriglia indipendentista della SWAPO (South-West African People’s Organisation), di ispirazione marxista, si fronteggia quotidianamente con l’esercito sudafricano: “Hanno le loro basi oltre il confine, in Angola, dov’è in atto una guerra civile”. Quando sente che siamo diretti all’Etosha Park, per poi seguire il corridoio del Caprivi Strip fino alle cascate Victoria, inorridisce: “È territorio di scontri, troppo pericoloso, certamente non vi fanno neppure passare”. Quel corridoio stretto tra Angola e Botswana, che conduce in Zambia e Rhodesia ci incuriosisce. Il barista spiega infine che quel percorso è legato ad una brutale pagina di storia dei soldati tedeschi del Kaiser e che, in quel lembo di terra, a seguito di una cruenta ed estesa rivolta avvenuta ad inizio del secolo, hanno decimato la popolazione locale, portando da 80 mila a 15 mila il numero dei nativi Herero. Quel fatto è oggi classificato come il primo genocidio del XX secolo. E chi si immaginava una cosa del genere? Non ci resta che entrare in Botswana da Gobabis ad Est, nel deserto del Kalahari.