Sulla costa nord-occidentale della penisola malese, nello stretto di Malacca, ad un centinaio di chilometri dal confine tailandese, sorge l’isola di Penang - Pulau Pinang (“isola noce di betel”) in malese - una delle mete preferite dei viaggiatori, attratti dai paesaggi esotici, dai villaggi di pescatori, dai templi e dalle spiagge, ma soprattutto dai risvolti etnici e coloniali intrisi di storia e di fascino. Prima base della colonizzazione britannica in Malesia, l’isola di 285kmq oggi supera il milione di abitanti, più della metà dei quali è di origine cinese. La sua dinamica capitale, Georgetown, è forse la più intatta ed attraente Chinatown esistente al mondo, collegata alla città peninsulare di Butterworth da un servizio permanente di ferry e dal Penang Bridge, il ponte più lungo dell’Asia di ben 13.5 chilometri.
Fino al XVIII secolo Pulau Pinang era pressoché disabitata e parte del sultanato del Kedah, un regno perennemente minacciato da principi siamesi, malesi, indonesiani e birmani. Quando nel 1771 l’abile capitano Francis Light vi approdò, per conto della East India Company, divenne subito confidente del sultano, che nel 1786 gli cedette l’isola in cambio di protezione militare. Il sultano fu beffato ed i patti non rispettati, tuttavia la posizione strategica dell’isola fu definita irrinunciabile per la salvaguardia dei commerci britannici tra la Cina e l’India. Fu così che Penang, ribattezzata da Light “Prince of Walles”, divenne il primo insediamento della Corona nella penisola malese. Il sultano provò a riconquistare l’isola senza riuscirvi e, a seguito della sconfitta, dovette cedere ai britannici anche la striscia di terraferma adiacente, nota col nome di Seberang Prai, tuttora parte integrante dello Stato di Penang. Ben presto crebbe Georgetown, dedicata a re Giorgio III d’Inghilterra - noto per avere perso le colonie d’America. Si narra che per incentivare marinai e indigeni a disboscare l’area dell’attuale capitale, Light fece sparare cannonate di monete d’argento nella giungla. Light, che parlava bene Thai e Malay, promise terreno ai volenterosi e trasformò subito Penang in un lido liberale ed esentasse, che alla fine del secolo contava già diecimila abitanti, perlopiù coloni cinesi, indiani e Bugis di Celebes in cerca di fortuna. Seguirono cingalesi, armeni, persiani, arabi ed ebrei, in una straordinaria fusione di razze, lingue e culture. L’ascesa della Penang coloniale proseguì rapida anche dopo la morte, per malaria il 21 ottobre 1794, del suo fondatore: nel 1805 divenne una dipendenza del Bengala e in breve fu elevata a Residenza Indiana, con una struttura amministrativa britannica pari a quella di Madras e Bombay. Con la creazione delle “Colonie dello Stretto” o Straits Settlements, dal 1826 Georgetown fu associata a Malacca e alla fiorente Singapore di Raffles, che in appena sei anni divenne la città più importante degli Straits Settlements scalzando Penang dal ruolo di protagonista. Dopo Malacca e Singapore, anche a Penang si estese la singolare e pregevole cultura Baba-Nonya, cinesi dello Stretto (baba) sposatisi con donne malesi (nonya), che divenne la società Peranakan (“nati qui”) più ricca e influente dell’intera penisola malese. Ai giorni nostri apprezzata per l’originale cucina e l’eleganza di ricami, porcellane e argenteria.
Alla metà del XIX secolo la colonia visse una buona ripresa economica grazie alla scoperta dello stagno nella terraferma, tuttavia, la principale entrata rimaneva il commercio dell’oppio, gestito da due società segrete cinesi rivali nel predominio di bische, prostituzione e traffici illegali. Un altro momento di prosperità arrivò col boom della gomma all’inizio del ‘900, che generò una raffinata élite cosmopolita, ma lo sviluppo edilizio moderno è giunto soltanto in epoca recente a tutto vantaggio dell’antica struttura a griglia di Georgetown, con magnifici edifici e palazzi sorti nel primo periodo coloniale tuttora integri. L’unico danno materiale fu perpetrato dai giapponesi durante la seconda guerra mondiale, quando divelsero porte e balconi in ferro per fonderli ad uso bellico.
Georgetown
Elevata a rango di città capoluogo soltanto nel 1957, rinomata freak-town degli anni ’70, oggi Georgetown è la seconda città per importanza del Paese, forse la più affascinante di tutto l’Estremo Oriente. Situata nella punta nord-orientale dell’isola, nel passaggio più stretto del canale, l’antico nucleo cittadino consiste nel compatto dedalo di angusti vicoli e stupende shophouse dai colori pastello, che in un chilometro quadrato racchiude un’animata Chinatown disseminata di templi e moschee, dove il tempo pare essersi fermato all’Era dei Boxer, società segrete dell’epoca coloniale. Così come il traffico caotico di scooter, fuoristrada, autobus e trishaw (tricicli) soffoca le arterie principali, nelle stradine laterali il ritmo ci riporta di colpo all’anima dei suoi abitanti, fortemente radicata al passato. Georgetown è una città cinese, con alcuni rioni abitati da indiani o malesi, inseriti in un contesto dominato da cantonesi ed hokkien, e in misura minore da etnie hakka, hainan e foochow. I primi stranieri ad insediarsi in massa furono però i Tamil, poi sopraffatti dal forte flusso immigratorio cinese, che ebbe inizio a partire dagli anni Venti dell’Ottocento. All’epoca, i coloni indiani venivano divisi in Keling o Chulia, dal nome di due arcaici regni dell’India meridionale. L’arteria principale è appunto Lebuh Chulia, che taglia il quartiere cinese in due e termina alla rotatoria di Jalan Penang, il punto più vivace della città. Viali ornati da secolari “alberi della pioggia”, chiamati angsana, e porticati ad arco, dalle colonne ricoperte d’ideogrammi cinesi laccati da un rosso fiammante, consentono di passeggiare piacevolmente a piedi protetti dal sole dei tropici o dalle piogge monsoniche. Diventa così inevitabile curiosare tra botteghe dai profumi esotici, bancarelle, bazaar, mercati diurni e notturni (pasar malam), antiche caffetterie e negozi risalenti al XIX secolo, il cui stile architettonico fonde influenze europee ed orientali. Fin dal 1786, anno della sua fondazione, Georgetown è sempre stato un porto frequentato da marinai ed avventurieri provenienti da ogni parte del mondo e non c’è da stupirsi se, nel corso degli anni, la sua reputazione sia rimasta ancorata ai bordelli ed al traffico di droghe, che qui sono stati una vera istituzione fino alla fine degli anni ’70, quando orde di giovani occidentali giungevano a Penang per acquistare oppiacei e per tale reato molti furono condannati alla “pena capitale”; persino questo recente passato equivoco evoca nei turisti atmosfere magiche d’altri tempi, che tuttora aleggiano sulla città.
Il mezzo di trasporto pubblico più tradizionale è rimane il suggestivo trishaw, un triciclo o una carrozzella agganciata ad una bicicletta, detti anche “rishaw a pedali” o bécia, ancora molto in uso a Penang. Come i taxi, anche i bécia li trovate appostati davanti agli hotel più turistici ed all’attracco dei ferry provenienti da Butterworth. Indicato per spostarsi agilmente nel traffico cittadino, lungo le strade di Chinatown è facile trovate esili uomini bécia che invitano i turisti ad un passaggio, pronti a scattare in caso di consenso. Occorre stabilire il prezzo prima della corsa, che indicativamente è di 3-4 euro l’ora.
Il Distretto Coloniale e la City
L’area di maggiore interesse storico è raccolta sulla sporgenza più occidentale dell’isola, un corno col mare su tre lati la cui punta dell’Esplanade è dominata dalle cadenti mura di Fort Cornwallis, affacciato sullo stretto, con la terraferma ben visibile ad appena tre chilometri. Il forte sorge nel luogo in cui Francis Light approdò per la prima volta sull’isola il 16 luglio 1786, precisamente al molo Swettenham, ed è il punto ideale per iniziare la visita al distretto coloniale. In origine era una semplice staccionata, con la base in mattoni a forma di stella, che ospitò la baracca di Light e dei suoi uomini per quasi un ventennio, poi per timore di un attacco francese mai avvenuto, il forte venne ricostruito in pietra dai condannati ai lavori forzati tra il 1808 ed il 1810. Dedicato al governatore-generale dell’India, Lord Charles Cornwallis, della prestigiosa cittadella non rimangono che le mura esterne ed alcuni cannoni olandesi, che vennero rubati dai pirati e poi ritrovati. Tra questi, il più importante è il venerato Sri Rambai del 1603, posizionato sul tetto in mattoni rossi dell’ex polveriera, nell’angolo nord-occidentale del presidio. Donato al sultano del Johor dagli olandesi nel 1606, dopo essere passato nelle mani di acehnesi (Sumatra) e buginesi (Sulawesi), nel 1871 il cannone finì per essere confiscato dai britannici ed imbarcato sulla nave a vapore “Sri Rambai”. Secondo le credenze locali, pare che questi abbia poteri magici capaci di rendere fertili tutte le donne sterili che in preghiera depongono fiori nella sua bocca da fuoco. Il deposito interrato della ‘santa barbara’, sotto al cannone, è ora un piccolo museo in cui si spiega la storia del forte e di Penang. Nello spazio interno, c’è la casetta dei souvenir in stile tradizionale malese, un anfiteatro che ospita rassegne artistiche ed un prato con bancarelle ricolme di bibite e cibi. Aperto dalle 9 alle 19, l’ingresso è gratuito e lo trovate sul lato di Lebuh Light.
Il lungo edificio Vittoriano sul lato ovest dell’ampio padang che circonda il forte, ex punto d’incontro dei funzionari della colonia, ospita il Municipio (Dawan Bandaran). L’elegante palazzo alle sue spalle, in Lebuh Duke, appartiene alla sontuosa Biblioteca Penang (1904), con l’auditorium riservato ad importanti spettacoli culturali, mentre sul lato opposto di Lebuh Light trovate l’altra imponente costruzione neoclassica della Corte Suprema, anch’essa eretta all’inizio del secolo scorso. Continuando lungo la stessa via verso est, l’angolo con Lebuh Pinang è occupato dal candido palazzo dell’Assemblea Legislativa di Stato (Dewan Undangan Negeri). Poco più avanti, oltre le bancarelle del forte, Lebuh Light termina alla rotatoria del Victoria Memorial Clocktower, la torre dell’orologio in stile moresco donata alla città da un facoltoso towkay (commerciante) cinese nel 1897, in occasione del Giubileo di Diamante della regina. La torre è alta 60 piedi (20m ca.), un piede per ogni anno di regno. Girate a destra e siete in Lebuh Pantai, l’antica Beach Street, prima vera strada di Georgetown, ora cuore finanziario della “City”, sede di banche ed istituti governativi che occupano i magnifici palazzi ereditati dall’amministrazione coloniale. Tenete presente che Lebuh Pantai è una via d’impiegati pendolari, caotica di giorno, ma deserta e tetra dopo il tramonto. Prendendo una qualsiasi laterale a sinistra, si arriva subito sulla Pangkalan Weld, l’arteria costiera ricavata colando cemento in mare, e qui non c’è molto di interessante, se si esclude il via vai di scheletrici traghetti gialli, che fanno la spola con Butterworth, ed il Kampung Ayer (villaggio-acqua), fatiscente villaggio sull’acqua all’altezza di Lebuh Aceh.
Khoo Kongsi e la “rivolta di Penang”
Dal Kampung Ayer, seguendo Lebuh Aceh per un centinaio di metri si torna su Lebuh Pantai (Via Spiaggia). Oltre l’incrocio inizia lo splendido rione di shophouse a due piani, delimitato da Lebuh Aceh e Lebuh Armenian, un blocco che racchiude il Khoo Kongsi più grandioso di tutta l’isola. A Penang ci sono molti Kongsi, parola hokkien traducibile in “casa del clan”, creati nel XIX secolo per dare sostegno e protezione agli immigrati cinesi appartenenti alla medesima regione d’origine. L’affiliato diventa membro della famiglia e assume il cognome del clan, in questo caso Khoo, che verrà tramandato all’infinito. La sua costruzione ebbe inizio nel 1853, ma venne interrotta e completata solo nel 1898. La splendida dimora originaria era troppo simile al Palazzo Imperiale e si dice che tale opulenza offendesse gli dei. Dopo l’incendio che distrusse il tetto, interpretato come un avvertimento, il tempio venne ricostruito in modo meno appariscente. Più modesto, ma ugualmente tanto sfarzoso visto che il tetto attuale pesa comunque 25 tonnellate e l’intera struttura è stata accuratamente scolpita da artisti giunti appositamente dalla Cina. Vi si accede da Lebuh Pantai, a sud, o da Lebuh Pitt a nord, attraverso un vicolo di antiche residenze che conduce al passaggio, fatto a volta, porta d’ingresso all’ampio recinto lastricato di Cannon Square, che custodisce la magnifica Khoo Kongsi ed il più umile teatrino dell’opera. Colpiscono subito gli elaborati fregi dorati di dragoni, uccelli fenici e divinità adagiate sulle tegole colorate della massiccia copertura. All’interno, il salone maestro ospita l’immagine di Tua Sai Yeah, generale della dinastia Ching (221-207a.C), santo protettore del clan Khoo. La stanza di destra è riservata alle tavolette degli antenati, risalenti al 1830, mentre quella di sinistra ospita l’altare dedicato a Tua Peh Kong, il dio della prosperità. Un lungo ballatoio decorato da raffinati intarsi collega le tre sale del complesso, noto anche col nome “Dragon Mountain Hall” (sala del drago della montagna). Aperto dalle 9 alle 17; l’ingresso era gratuito, ma da qualche tempo chiedono RM 5, che vengono utilizzati per opere assistenziali e di solidarietà.
I mercanti hokkien dei clan dominanti (Khoo, Cheah, Yeoh, Tan e Lim), che operavano nell’area tra Medan e Aceh (Sumatra), a partire dalla prima metà dell’800 scelsero di stabilirsi a Penang, erigendo qui i propri maestosi Kongsi all’interno di cittadelle di stampo medievale, circondate da costruzioni fatiscenti per nasconderne lo splendore. Col crescente benessere delle comunità cinesi, proliferano le società segrete che competono sul predominio di contrabbando, attività illegali ed estorsioni all’ordine del giorno. Ogni famiglia aveva il proprio Kongsi e seguiva le proprie leggi. Questo portò alla cruenta “rivolta di Penang” del 1867, quando lo scontro tra gli hokkien del clan Tua-Peh-Kong ed i cantonesi del Ghee Hin sconvolse per nove giorni (1-9 agosto) ogni angolo di Georgetown, con centinaia di morti ed interi quartieri dati alle fiamme. Attorno al Khoo Kongsi, l’occhio del ciclone della battaglia, furono erette barricate e ancora oggi sono visibili i fori di proiettile nei muri di diverse case. Per sedare la rivolta fu necessario l’intervento dei sepoys, le truppe indiane giunte in forza da Singapore.
Moschea di Lebuh Aceh e il negozio dei rivoltosi di Canton
A pochi metri dal Khoo Kongsi, nel punto in cui Lebuh Pitt termina in Lebuh Aceh, vedrete il minareto accanto alla strettoia che introduce nel cortile perimetrale, delimitato da antiche case in mattoni e legno, in cui sorge la Masjid Lebuh Aceh, voluta nel 1808 da un commerciante arabo di stirpe reale. Ancor prima che i cinesi occupassero la zona, la moschea fu eretta nel primo storico kampung malese di Georgetown e divenne presto un importante punto d’incontro tra malesi ed arabi residenti a Penang. La singolarità di questo antico complesso religioso sta nel minareto, l’unico in tutto il paese ad essere costruito in stile egizio. Dalla moschea fate alcuni passi verso nord e girate a destra per Lebuh Armenian; subito dopo il giardino d’angolo della Syed Alatas Mansion (ex residenza di facoltoso acehnese) inizia il porticato delle shophouse, col negozio del n.120 noto per essere stato la base operativa del dottore rivoluzionario Sun Yat Sen, che da qui organizzò l’insurrezione di Canton del 1911, gettando le premesse per una nuova Cina.
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Proseguendo per Jalan Penang, inizia subito la zona degli hotel turistici (2-4 stelle), che aumentano con l’avvicinarsi al quartiere residenziale, l’elegante parte della città coloniale che argina a nord il tradizionale quartiere cinese. All’altezza del Continental Hotel, girate a destra e nell’angolo di Lebuh Leith si materializza la facciata blu d’indaco della Cheong Fatt Tze Mansion, superbo esempio d’architettura cinese del XIX secolo, premiata dall’UNESCO con l’Asia Heritage Conservation. Costruita intorno al 1880 per conto di Cheong Fatt Tze, un mercante cantonese che emigrò dalla Cina in cerca di fortuna e in breve divenne uno degli uomini più influenti d’Oriente, definito dal “New York Time” il Rockefeller of the East. Tra la miriade di titoli ed onorificenze, fu Console Generale per la Cina, membro dell’Alto Ordine dei Mandarini, e quando cessò di vivere, nel 1916, le autorità britanniche ed olandesi ordinarono di tenere le bandiere a mezz’asta in tutte le rispettive colonie: questa casa doveva riflettere l’alto lignaggio di un uomo potente di origini umili, secondo parametri capitalistici, com’era d’uso tra i ricchi cinesi d’oltremare. Sul genere di questa maestosa dimora dalla forma irregolare ed ispirata all’architettura Ching, che incorpora 38 stanze, 220 finestre e 7 scale, pare che al mondo siano sopravvissuti soltanto altri due esempi: uno a Manila (Filippine) e l’altro a Medan (Indonesia). Qui furono ambientati alcuni romanzi ed un paio di film, tra cui “Indochine” con Catherine Denueve. La Cheong Fatt Tze Mansion, pur essendo un monumento di stato è rimasta un’abitazione privata convertita in albergo esclusivo a 5 stelle, con arredo d’epoca, pavimenti in tek, intagli dorati, arazzi, rare porcellane e 16 moderne camere “a conduzione famigliare”. Le visite guidate, di un’ora circa, vengono organizzate su richiesta dei turisti. Tornati sulla Jalan Penang, 150m a destra la strada termina davanti al mitico Eastern & Oriental Hotel (www.e-o-hotel.com), uno dei simboli della mondanità coloniale, creato dagli albergatori più famosi d’Oriente. La colorita storia di questo gioiello del passato inizia dai fratelli armeni Martin e Tigran Sarkie, i quali nel 1884 fecero costruire l’Eastern Hotel affacciato sul lungomare di Lebuh Farquhar. Il successo fu tale che l’anno seguente vi eressero di fianco l’Oriental Hotel, poi li unirono e nacque l’Eastern & Oriental Hotel (E&O), che coi suoi 280m vantava la facciata fronte mare più lunga di tutti gli alberghi del pianeta. L’indovinata pubblicità dei Sarkie, che lo definivano “il migliore hotel ad est di Suez”, contribuì a divulgare la sua fama oltre i confini dell’Impero. Maestoso, coi suoi minareti moreschi, la spaziosa lobby a cupola e le lussuose camere fornite di bagno con acqua calda e telefono, divenne un importante base per i Vip del bel mondo internazionale, tra cui Hermann Hesse, Rudyard Kipling, Noel Coward, Douglas Fairbanks e Somerset Maugham, che citò l’albergo in diversi suoi racconti. La notorietà dei Sarkie aumentò quando il terzo fratello, Arshak, convinse la famiglia ad acquistare anche il Raffles Hotel di Singapore e il quartogenito, Aviet, aprì lo Strand Hotel a Rangoon, gli altri due mitici hotel del Sudest asiatico. Arshak era un personaggio estremamente generoso, molto amato, cultore dell’amicizia e della vida allegre più che dei bilanci aziendali. Queste scelte di vita, nel 1931, portarono la famiglia al fallimento, poco prima che Arshak si spegnesse. Il suo fu comunque un funerale memorabile, cui presero parte le autorità locali ed un fiume di persone. L’E&O riapparve sulla scena soltanto nel 2001, ristrutturato per una clientela esigente, arricchito di palme da cocco e fornito di uscieri in abiti coloniali e delle immancabili Rolls Royce bianche, in tinta con l’edificio. Per molti viaggiatori l’E&O è diventato una specie di santuario. Il suo International Buffet Dinner offre una girandola di prelibatezze euro-asiatiche al costo di circa 20 euro a testa (bambini 10), mentre per un servizio al tavolo, decisamente più raffinato e costoso, sedetevi nel suo “1885 Restaurant”, aperto solo la sera. Vivamente consigliata la spigola al tartufo.
A due passi, sulla Jl. Sultan Ahmad Shah, c’è il cimitero cristiano dove hanno trovato sepoltura molti pionieri europei della prima ora, compreso Francis Light. Qui giace pure Thomas Leonowens, il marito di Anna Leonowens, che ispirò il film “The King And I”.
In giro per l’isola
Lasciato il trafficato centro di Georgetown, Penang sprofonda di colpo in una soporifera campagna assai piacevole e rilassante, gestita prevalentemente da contadini d’etnia malese; cinesi e indiani preferirono la città. La Federal Road (FR) n.6 compie il giro completo dell’isola in 73km. Il percorso non è lungo e la gita, sia in auto a nolo che in moto o in autobus, merita l’escursione di un’intera giornata per godere meglio gli aspetti paesaggistici e culturali di quest’isola verdeggiante. La parte della costa orientale è pianeggiante e trafficata, quella occidentale si snoda tra le colline dell’interno pressoché deserta e soltanto la litoranea settentrionale segue le spiagge e il mare.
Il tempio di Kek Lok Si
Seguendo Jalan Datok Keramat per una decina di chilometri, poco oltre la funicolare della Penang Hill, si arriva al Kampung Pisang, nell’area di Air Itam. Da qui si segue a piedi l’interminabile corridoio coperto, che conduce nella parte alta dell’affollato Kek Lok Si o “Tempio del Paradiso”, il complesso buddista più grande di tutto il Sudest asiatico. Al termine della scalinata, stretta su entrambi i lati dal brulicare di bancarelle di souvenir e venditori ambulanti, s’innalza la straordinaria Pagoda dei Diecimila Buddha, l’elaborata torre di sette piani alta trenta metri. Si pagano RM2 per salire i 193 gradini che portano in cima a questa singolare pagoda color panna, realizzata fondendo tre stili architettonici distinti: la cupola dorata birmana sovrasta la base ottagonale cinese e le eleganti finestre thai della parte centrale, elementi che abbracciano entrambe le correnti buddiste (Mahayana e Theravada). Dall’alto è ben visibile l’intera collinetta ricoperta da una moltitudine impressionante di stagni, giardini, lanterne, altari, sculture, gazebo, statue e suggestivi templi dedicati principalmente a tre divinità buddiste: Kuan Yin, dea della misericordia, Guatama, fondatore della fede, e il Buddha ridente Bee Lay Hood, tutti garanti di pace e serenità. E’ qui che i monaci si radunano per ore in preghiera. Da sempre le colline di Air Item sono considerate geomanticamente propizie dai taoisti in cerca d’immortalità; nel 1893 il monaco Beow Lean, capo della comunità cinese di Pitt Street, iniziò i lavori di costruzione finanziato dall’Imperatore manciù Kuang Hsi. Ma la pagoda fu terminata soltanto nel 1930, e da allora il tempio non ha mai smesso di espandersi. L’ultima new entry di rilievo è la gigantesca statua in bronzo della popolare Kuan Yin, alta 30 metri, posta nel 2003 sulla collina alle spalle della pagoda. Alla domenica si può assistere ad una vera e propria sfilata di famiglie cinesi che vengono a passare la giornata osservando le sacre tartarughe del tempio, più per motivi ricreativi che religiosi. Per uscire dal tempio più velocemente, evitando l’affollato “tunnel” dell’andata, è meglio scendere dalla strada usata dalle autovetture e in 10 minuti sarete all’esterno.
Penang Hill
L’altra principale meta turistica ad ovest di Georgetown è la panoramica Penang Hill, la collina alta 821m, che s’innalza nella zona di Air Item, un paio di chilometri a nord del Kek Lok Si Temple. Da Lebuh Chulia i bus Transit-Link 1 e 361 (per Bakit Pulau) in 40 minuti vi lasciano alla fermata distante 500m dalla funicolare; sono pochi minuti di cammino, ma c’è comunque un pulmino che fa servizio ogni mezzora. Carrozze a rotaia di concezione svizzera, dalla struttura inclinata, dal 1923 vengono lentamente trainate a cavo sulla vetta, attraverso un paesaggio che alterna tratti di fitta boscaglia tropicale a curati giardini privati e pendii terrazzati. Nella sub-stazione a metà percorso, si cambia convoglio per completare il ripido troncone finale indicato da antichi lampioni. Il viaggio dura mezzora ed il biglietto di a/r costa RM 4 (bambini RM 2), ma si può anche acquistare soltanto l’andata per RM 3, poiché non sono pochi coloro che fanno ritorno seguendo il bel sentiero parallelo ai binari che riporta a valle. Nel senso inverso, per la salita a piedi occorrono 4 ore circa. Sulla cima trovate parchi in fiore, pittoreschi chalet, un chiosco e le immancabili bancarelle con cibi e bevande, un tempietto Indù, una moschea ed anche un piccolo ufficio postale e la stazione di polizia, ma soprattutto una straordinaria veduta dei contorni dell’isola e della terraferma. Particolarmente piacevole al crepuscolo, quando le nubi si dissolvono ed una nitida Georgetown accende le prime di luci della sera, mentre l’aria si fa più fresca e tonificante. A pochi minuti dalla stazione c’è il piccolo e vissuto Bellevue, l’unico hotel in collina, con un bel giardino adorno di voliera e il ristorante dotato di veranda che offre una superba veduta della città. Gli stessi fratelli Sarkie, proprietari dell’E&O e del Raffles di Singapore, nel 1890 aprirono qui il Crag Hotel, oggi occupato dagli uffici del Dipartimento dei Lavori Pubblici.
I primi coloni bianchi che si trovarono su quest’isola palustre e tropicale, abbinarono subito i rilievi di Air Item al clima temperato e salubre del vecchio continente. Fu proprio Francis Light a far disboscare questa particolare altura per farne piantagioni di fragole, altura che, per qualche tempo, prese il nome di Strawberry Hill. Già all’inizio dell’800 le sue pendici erano riservate alle autorità amministrative della Corona, che salivano il sentiero a dorso di pony o in portantina. Ai prigionieri indiani era affidato il compito di tenere in ordine il tracciato. Nel punto più alto fu costruita la casa del governatore chiamata Bel Retiro, con l’alto pennone che diede il nome ufficiale alla collina: “Flagstaff Hill”, ovvero “Bukit Bendera” (“collina della bandiera”) in malese, ma comunemente nota come Penang Hill. In seguito agli asiatici fu concesso di coltivare i terreni più a valle ed anche se oggi la comunità locale supera le 500 anime, lungo i suoi ordinati sentieri si respira ancora un’affascinante atmosfera coloniale. La funicolare è operativa dalle 6.30 alle 21.30, ad eccezione di venerdì e sabato che chiude alle 23. Le carrozze partono ogni mezzora e nei fine settimana l’attesa può raggiungere anche i 60 minuti. Facili sentieri e piste sterrate collegano Penang Hill alle principali attrazioni dei dintorni. Per raggiungere il Kek Lok Si Temple (3km - 1ora), dal versante sud della Penang Hill in 25 minuti si scende ai piedi della collina del tempio, da qui occorrono altri 35 minuti di salita per raggiungere la pagoda. Per la grande cascata dei Botanical Gardens (5km - 3ore), invece, scendete la vetta dal versante nord seguendo la pista camionabile fino ad arrivare sulla Jalan Air Terjun, in fondo alla valle. Il Jungle Trail che inizia a lato della funicolare è ben marcato, ma più impegnativo: termina al “moongate”, distante 300m dal cancello dei Gardens, da dove si può tornare a Georgetown col bus della Transit-Link n. 7, che passa ad intervalli di circa un’ora.
Snake Temple e dintorni
Nella parte sud-orientale dell’isola, 2km a sud del Penang Bridge, sorge il famoso Tempio del Serpente, noto anche come “Tempio della Nube Azzurra”, eretto nel 1850 in memoria di Chor Soo Kong, un amato monaco taumaturgo taoista. Dall’esterno potrebbe sembrare un tempio anonimo, come tanti altri, ma una volta entrati noterete subito ciò che lo differenzia. Considerati “animali sacri”, grappoli di vipere velenose di circa un metro e serpenti verdi e gialli vagano per il tempio, pendono dagli alberi, dalle travi o sono avvinghiati agli altari, ai reliquiari, ai candelabri, agli arredi, dentro i vasi e dovunque. Pare che a renderli innocui sia il forte fumo d’incenso che brucia in continuazione nelle ore diurne, poi alla sera scendono per nutrirsi delle uova offerte dai fedeli. C’è pure una pianta dedicata alla “maternità”, con simulacri di neonati di pochi centimetri. Chi lo desidera, può farsi fotografare con un paio di rettili “a giro collo”. L’ingresso è libero, ma è gradita un’offerta. Se avete tempo, poco prima del tempio c’è l’ingresso all’Hibiscus & Orchid Farm. Da Georgetown il Yellow Bus 66 diretto a Balik Pulau, copre i 14km del percorso in circa mezzora. Sulla costa ad 8km dallo Snake Temple, poco oltre l’aeroporto, entrate a Batu Maung, il villaggio di pescatori cinesi noto per il piccolo santuario dedicato all’Ammiraglio Cheng Ho, figura prominente nella storia del sultanato di Malacca. Gli abitanti sostengono che l’impronta di piede trovata nei pressi del tabernacolo appartiene a questo grande viaggiatore, fermatosi qui durante uno dei suoi sette viaggi nell’arcipelago malese. Un impronta simile è presente nell’isola di Langkawi, 100km più a nord, e per i fedeli questi sono i due piedi di Cheng Ho, al quale chiedono sostegno in amore, nel gioco e nei commerci. L’intera spiaggia di Batu Maung sembra un cantiere occupato da abili maestri d’ascia, intenti a costruire e restaurare piroghe e vascelli, aiutati da attrezzi tradizionali. Nel centro dell’isola, il giro di Penang segue la discesa collinare che conduce a Balik Pulau, 10km ad ovest dallo Snake Temple, il villaggio di shophouse cinesi ricoperte di bouganville ed ombreggiate da persiane di bambù, dette chick. Il paesaggio idilliaco è dominato da piantagioni di chiodi di garofano, noce moscata e durian.
Batu Ferringhi
Da Georgetown, dopo appena 13km di piacevole litoranea verso ovest si entra a Batu Ferringhi (“Roccia dello Straniero”), la stazione balneare diventata famosa dai primi anni Settanta, quando lo splendore di Penang era all’apice ed i viaggiatori indipendenti, hippy ed ecologisti, accorrevano talmente numerosi al punto da dare il nome al paese. Come per Kuta Beach (Bali), Koh Samui (Tailandia), Goa (India) e tanti altri paradisi naturali scoperti dai giovani globetrotter di quegli anni, anche a Batu Ferringhi si è compiuto il destino di un futuro ricco di turismo e di conseguenti colate di cemento, con la costruzione a catena di alberghi di lusso, ristoranti, shopping arcade, pub e locali notturni, allineati per un paio di chilometri lungo la strada federale parallela al mare, che in questo tratto diventa Jalan Batu Ferringhi. Panorama ovviamente stravolto, mentre la spiaggia ed il mare hanno perso il lor appeal originale, tuttavia rimane una bella località inserita a pieno titolo nelle mete dei viaggi organizzati, ben attrezzata per svaghi, divertimenti e sport acquatici di ogni genere. Tappa obbligata per tutti coloro che mettono piede sull’isola e non mancano neppure i nostalgici della prima ora, schiere di “zainisti” attratti dalla sua fama. La fermata dell’Hin Bus 93 e del Transit-Link 202 provenienti da Georgetown (30 minuti) è nella parte centrale di Jl. Batu Ferringhi, di fronte alla moschea, alla lavanderia ad alla clinica ospedaliera. Pochi passi ad est trovate la stazione di polizia e a seguire l’ufficio postale e la Telekom, all’ombra dell’Holiday Inn. Qui vedete due mega edifici separati dalla strada: l’Ocean Tower e la Beach Wing dalla parte del mare. Subito a sinistra del bus-stop, invece, al numero 58-D si affaccia la Yahong Art Gallery, un’intera casa ricolma d’oggetti d’antiquariato cinese e malese, abitazione del noto Chuah Thean Teng, maestro di batik premiato un po’ ovunque nel mondo. Nelle ore diurne tutto rallenta, si arresta; la maggior parte dei turisti preferisce la piscina e le comodità dei resort in attesa della brezza marina serale, quando tutto si anima e le metalliche bancarelle del pasar malam (mercato notturno) illuminano al neon i marciapiedi della via principale fino a mezzanotte, per vendere articoli in pelle, d’artigianato, dipinti, vestiario, orologeria, cibi e quant’altro. Diversa atmosfera nei giorni di festa, coi pendolari che affollano questo tratto di mare a tutte le ore; particolarmente ammassati davanti al Parkroyal Hotel e attorno al Wave Runner Watersport, per noleggiare windsurf, motowater, catamarani, fare vela, sci nautico o salire col paracadute trainato da motoscafi.
Il centro di Batu Ferringhi è l’incrocio, l’unico del paese; se prendete la strada della caffetteria Guan Guan, in breve sarete sul vecchio e colorito lungomare delle guesthouse a conduzione famigliare. Qui si radunavano e si radunano tuttora i giovani viaggiatori dal budget limitato. Allineate sulla sinistra una accanto all’altra, trovate la linda Baba’s, soluzioni con e senza bagno ed a/c; la malandata casa della Shalini’s, chiedete le stanze col balcone; la popolare Ali’s, col vivace bar nel giardino; la gradevole Beng Keat, che possiede alcuni bungalow dotati di frigo e tv satellitare. L’ultima in fondo, l’Ah Beng Guest House, è la migliore, coi pavimenti in legno tirati a lucido e le sedie a dondolo poste nella veranda in comune affacciata sul mare.
I moderni complessi alberghieri d’alta categoria sono, invece, appartati alle due estremità di Jl. Batu Ferringhi, ad un chilometro dal centro. A sud-ovest, sulla via per Teluk Bahang, si erge il solitario Casuarina Beach, con cucina italiana ed un distaccamento di raffinati chalet sulla spiaggia, mentre sul lato opposto, all’altezza della traversa di Jl. Sungai Emas, dominano sul litorale il numero uno Rasa Sayang, 514 camere tutte col balcone fronte mare, e suo fratello minore Golden Sands, entrambi della catena Shangri-La, attrezzato di trapezio, tiro con l’arco ed il favoloso Peppino Restaurant. Poco più avanti, nella viuzza prima del ponte, risiede l’affascinante edificio del Lone Pine Hotel, il primo albergo del paese, costruito nel 1948 con 50 camere ariose rimodernate di recente.
Per mangiare in giro, l’agglomerato più folto di bancarelle-ristorante lo trovate a bordo spiaggia, nell’enclave delle guesthouse, dove i fornelli si accendono soltanto all’imbrunire. Tra i banchi anche i buoni Ferian Cafè e BF Bistrò. Di fronte, piatti abbondanti e per poca spesa al giapponese Akebono. Sulla Jalan Batu Ferringhi non c’è che l’imbarazzo della scelta. Per una ricca colazione all’occidentale, molto indicato è l’AB Cafè, subito dopo l’appariscente ristorante indiano Palace e prima dell’agenzia di viaggio Smile Tours. Andando verso est, dopo l’incrocio a destra, in mezzo tra la polizia e la Posta trovate il Reggae Club, un bar affollato a tutte le ore, perfetto per conoscere gente e fare amicizia con altri viaggiatori. Se avete voglia di una buona cena a base di pesce, dopo gli Holiday Inn sul lato del mare, entrate nel vasto ed eccellente Eden Seafood Village e scegliete il “piatto” preferito dal mega acquario all’ingresso, allietati dalla musica del pianobar, per una spesa onesta. Accanto, impossibile non notare la sagoma del grosso veliero nero, completo di sartiame, in cui è stato adattato l’elegante ristorante Ship, dove servono ottimo pesce arrosto e squisite bistecche ai ferri, seduti nella penombra d’altri tempi.
Tanjung Bunga
Le due località di Tanjung Bunga e Teluk Bahang rappresentano le ali degli immediati dintorni di Batu Ferringhi. Venendo da Georgetown, prima di entrare a Batu Ferringhi s’incontra la bella insenatura di Tanjung Bunga, che raduna una flotta permanente di sgargianti sampan da pesca, ancorati nel mare cristallino in cui si specchia la piccola moschea del villaggio, costruita accanto al porticciolo. Lo scoglio che vedete al largo è detto “degli innamorati”. A parte questo pittoresco dettaglio, non c’è molto da vedere, ci sono molte proprietà private e la spiaggia migliore è quella dopo il Seaview, l’hotel più a buon mercato della baia. Alle spalle, un muro di colline verdi s’alza dalla litoranea, che ospita grandi resort, come il Sandy Bay Paradise da 200 camere, ed il Copthome Orchid da 318 camere. Meno pretenzioso, ma comunque confortevole il The Lost Paradise. Tra i ristoranti, l’Hollywood ha un vasta scelta di piatti cinesi ed europei, mentre per provare l’autentica cucina malese occorre ordinare al Sari Batik.
Teluk Bahang
La FR6 attraversa Batu Ferringhi e in appena 5km si entra a Teluk Bahang, il tranquillo kampung di pescatori che rappresenta l’ultimo lembo di spiaggia della costa settentrionale dell’isola. All’entrata, inizia subito la nuova zona commerciale del paese, con a sinistra l’edificio in stile tradizionale malese del Pinang Cultural Centre - che ospita il costoso Istana Malay Theatre Restoran - e di fronte l’enorme complesso a 5 stelle del Mutiara Beach Resort, provvisto di 438 ampie suite rifinite con gradevoli decorazioni, una superba piscina dalla parte del mare, campi da tennis e sport acquatici nel miglior tratto di spiaggia della baia, magnificamente tenuto dal personale alberghiero. Il suo ristorante italiano La Farfalla è stato premiato dall’Ente del Turismo quale migliore ristorante dell’isola. A giudicare dall’esercito di bambini presenti, è un resort amato dalle famiglie: apprezzato per l’ottima organizzazione e la posizione tranquilla, a pochi minuti di taxi dalla più frenetica Batu Ferringhi, ma anche per la consistente riduzione dei prezzi applicata per gran parte dell’anno. Se volete evitare l’alto costo del servizio lavanderia interno e delle bevande alcoliche al bar o altro, rivolgetevi ai gestori dei negozi sull’altro lato della strada. Ancora 3-400m e si arriva alla rotatoria dove la strada federale gira verso sud. Nel primo chilometro sulla sinistra trovate la Batik Factory, estesa a svariati prodotti dell’artigianato nazionale, con appresso l’Orchid Park, un curatissimo giardino che ospita infinite specie d’orchidee, e la vastissima Butterfly Farm, allevamento con oltre 4000 esemplari di farfalle tropicali raccolte all’interno di giganteschi reticoli, dove il visitatore può passeggiare liberamente. Molto interessante il box di vetro che consente di osservare in diretta l’uscita dal bozzolo e la deposizione delle uova.
Tornando alla rotatoria, alle spalle della polizia e del ristorante Fishing Village Seafood, due imbarcaderi e la strada riducono la spiaggia ad una misera striscia di sabbia scura, poco indicata per il bagno. La parte più folk la trovate in fondo alla strada, 2km ad ovest, dove il pontile in legno si protende verso il mare aperto per accogliere i pescherecci di ritorno ancor prima dell’alba. In questo scorcio di terra e mare si possono vedere barche di varie misure e marinai attenti a sistemare reti, lanterne e casse di pesce per il colorito mercato che qui si svolge ogni mattina. Attorno al rustico molo si radunano svariati localini dove viene servito buon pesce, come l’End of the World, specializzato in gamberoni giganti. Pochi passi oltre l’imbarcadero ed il camping, la strada asfaltata termina davanti a un bivio di sentieri maestri, che solcano il suolo roccioso della Riserva Forestale di Pantai Achech, la penisola all’estremità nord-occidentale di Penang. Verso nord, due ore di trekking nella foresta conducono alla spiaggetta isolata di Muka Head (6km ca), sulla punta non distante dal faro. In alternativa, gli hotel organizzano escursioni via mare, ma anche i privati giù ai moli vi chiederanno di fare il giro in barca. Il sentiero verso sud, invece, in 90 minuti di cammino vi porta alla Pantai Keracut (4km), “Spiaggia delle Scimmie” in malese, meglio nota come Monkey Beach, dove si trova lo spiazzo riservato alle tende da campeggio ed i servizi igienici.
Per dormire, la soluzione più a buon mercato apprezzata dai giovani viaggiatori rimane la guesthouse di Madame Loh’s, nella strada di fronte al giardino delle orchidee. Buon rapporto qualità/prezzo la sistemazione in spiaggia all’Hotbay Motel, nei pressi del Mutiara Beach Resort. Se volete gustare cibi autenticamente locali, i restoran alla rotatoria servono piatti cinesi, malesi e indiani. Buon Viaggio!