Quando il governo dell’Honduras offrì di ospitare una conferenza internazionale antidroga nella città di San Pedro Sula, l’agenzia delle Nazioni Unite per la quale lavoravo ebbe qualche titubanza ad accettare. I grandi giornali anglosassoni avevano infatti soprannominato la città “murder capital of the world”, per l’alto numero di morti ammazzati nelle guerre fra gang rivali di narcotrafficanti. Ma nonostante i timori sulla sicurezza, era difficile dire di no a un presidente democraticamente eletto, Juan Orlando Hernández, che stava dando del filo da torcere ai cartelli dei trafficanti e si era guadagnato per questo gli entusiastici elogi di Washington.

San Pedro Sula

Incaricato di gestire la conferenza, vincendo le resistenze di mia moglie mi recai dunque a San Pedro Sula nell’ottobre del 2015. Arrivatoci, mi resi subito conto che la città, al di là della sua cattiva fama, era anche un importante centro industriale e commerciale con una fiorente e operosa comunità di discendenti di immigrati libanesi, siriani e palestinesi giunti ai tempi dell’impero ottomano.

In altre parole, la seconda più importante città dell’Honduras dopo Tegucigalpa e la sua vera capitale morale. Scoprii anche che nei suoi pressi si trovano le rovine della città maya di Copán, che nulla hanno da invidiare a quelle, più famose e frequentate dai turisti, di Tikal (Guatemala), Chichen Itzá e Uxmal (Messico). Con una certa dose d’incoscienza decisi quindi, con alcuni colleghi, e sfuggendo all’occhiuta sorveglianza della scorta di polizia che ci era stata assegnata, di visitare le rovine nella domenica precedente l'inizio della conferenza.

Copán

Pur non essendo le rovine di Copán troppo lontane in linea d’aria da San Pedro Sula, raggiungerle non si rivelò affatto agevole, dovendo oltrepassare, tramite una strada stretta e tortuosa, una serie infinita di ripide colline coperte da una fitta vegetazione tropicale. Notai come in tutti i paesi attraversati, piuttosto miserabili, campeggiassero le chiese rutilanti di luci al neon delle varie sette protestanti di provenienza USA, che stanno di fatto scalzando la Chiesa cattolica in tutta l’America centrale.

Appena giunti, ci rendemmo subito conto che il viaggio era valso la pena, a cominciare dal paesaggio: le rovine dell’antica città maya sorgono infatti a un'altitudine di 600 metri sul livello del mare in una fertile valle dalla lussureggiante vegetazione tropicale. Coloratissimi pappagalli rossi, verdi e gialli, e innumerevoli farfalle volteggiavano fra gli alberi giganteschi e una nebbia azzurrina si levava dal suolo umido. Insomma, un vero e proprio paradiso terrestre, per citare il paragone spesso usato dai cronisti spagnoli della Conquista nel descrivere il continente americano che si disvelava ai loro occhi meravigliati.

Copán fu la capitale di un importante regno del periodo classico maya dal V al IX secolo d.C. nell'estremo sud-est della regione “mesoamericana”, l’area culturale comprendente la metà meridionale del Messico e i territori di Guatemala, El Salvador , Honduras, Nicaragua e Costa Rica, caratterizzata, fra le altre cose, dalla coltivazione del mais, dai sacrifici umani e dall'uso del calendario (a quest’ultimo riguardo, non si può non ricordare l’ondata d’idiozia collettiva che pervase la rete globale nel 2012, anno di una presunta fine del mondo secondo il calendario maya). La società era divisa in due sole classi, i laici, ignoranti e i governanti- sacerdoti, colti.

Il sito archeologico è noto soprattutto per una serie di stele in pietra riccamente incise con decorazioni e geroglifici, collocate nella piazza centrale della città e nell'adiacente acropoli, un grande complesso di piramidi a gradoni, piazze e palazzi sovrapposti. Vi sono inoltre i resti, perfettamente conservati, di un grande stadio per il gioco del pallone.

Per terra, nella rigogliosa vegetazione, resti di statue, fra cui gli immancabili teschi e teste di serpente piumato, la divinità delle religioni Azteca e Maya protettrice dei sacerdoti. In un piccolo museo, teste scolpite di pappagalli, e figure umane d’una purezza degna dell’arte greca arcaica o delle teste di Modigliani (quelle vere!)

Avemmo la fortuna di incontrare un’ottima guida. Uno strano personaggio, quasi uno sciamano, dotato di un bastone coronato di piume di pappagallo, in grado di tradurci i geroglifici maya sulle intricatissime vicende dinastiche della città. Ci fece anche cantare dai bambini del posto canzoncine in lingua maya e, soprattutto, ci evitò una gran brutta avventura. Ci eravamo infatti addentrati dietro di lui all’interno di una piramide, percorrendo a tentoni bui ed angusti cunicoli. Ad un tratto si fermò, e prese a colpire col suo bastone ornato di piume, uccidendolo, un velenosissimo serpente che ci si era parato davanti. Ci disse poi che chi ne fosse stato morso sarebbe morto in pochi minuti, senza possibilità di scampo…

Un visitatore illustre di Copán

Qualche tempo dopo il mio viaggio scoprii di aver avuto un predecessore illustre nella visita di Copán: lo scrittore inglese Aldous Huxley.

L’autore famoso per i suoi romanzi - alcuni dei quali distopici, come Brave new world - e per la sperimentazione con le droghe per la ricerca interiore (molto popolare fra gli hippies il suo saggio The doors of perception, che ispirò il nome del complesso rock The Doors), fu anche prolifico scrittore di viaggi. Dopo aver trascorso il 1925 e il 1926 in India, tra il 1934 e il 1937 compì una serie di viaggi in Centroamerica, in seguito ai quali cominciò a sperimentare con la mescalina e ad interessarsi sempre più a temi spirituali e mistici.

Da questa esperienza nacquero l’opera Beyond the Mexique Bay così come svariati saggi sulla cultura maya. Fra questi, On tradition and individual style che fa un paragone tra l’arte classica indiana e quella maya, e tratta anche di Copán. E poiché non sono un esperto (né un vero appassionato) della civiltà maya, lascio volentieri la parola a Huxley sull’argomento.

Scrive il nostro a proposito dell’architettura di Copán: “Il suo stile è astrattamente inorganico. Un insieme di piramidi, di pareti piatte suddivise in pannelli rettangolari, di scalinate ampie e regolari (…) linee rette e angoli, superfici piane e perpendicolari tra loro: tutte le astrazioni della geometria pura compaiono nella ricca esuberanza della decorazione simbolica dei Maya.”

Quanto alle famose stele osserva: “I copricapi dei personaggi sacri, rappresentazioni dei diademi di piume indossati dagli uomini di rango, sono pura astrazione geometrica, consistono in fantastiche combinazioni di motivi decorativi e simbolici. Queste elaborate aureole di piume sono allo stesso tempo graziosamente naturalistiche e austeramente astratte nella loro disposizione formale, come il più matematico dei disegni cubisti”. Quanto ai simboli di teschi che abbondano nelle decorazioni, li trova più raccapriccianti di qualsiasi imitazione realistica, e nota come gli scultori maya avessero espresso l'idea della morte meglio di chiunque altro in tutta la storia dell'arte.

Sui geroglifici, usati principalmente per la registrazione di date, scrive: “tra le combinazioni ornamentali più stravaganti dei Maya ci sono i geroglifici ma questa stravaganza è sempre rigidamente disciplinata. Ogni geroglifico è contenuto, riempiendolo completamente, nel quadrato che gli è stato assegnato. La mise en page è quasi sempre impeccabile. Questi simboli fantastici e spesso selvaggiamente grotteschi sono in realtà soggetti alla più severa disciplina intellettuale.”

Infine, nota come nella scultura maya l'assenza più vistosa sia quella delle figure femminili e come l’arte maya sia sì florida, ma invariabilmente austera, a differenza di quella indiana, impregnata di sensualità (si pensi solo ai templi “erotici” di Kajuraho).

En passant ricorderò come anche un altro famoso scrittore inglese, D.H. Lawrence, contemporaneo di Huxley ma dallo stile ben più viscerale, fu affascinato negli stessi anni dalle culture del Centro America. Trasferitosi in Messico nel 1923, vi scrisse il romanzo ll serpente piumato che tratta dell’innamoramento da parte della solita “romantica donna inglese” per le pittoresche rivoluzioni e i culti precolombiani della regione, soprattutto in chiave “sessuale”. È anche da ricordare come Huxley, l’intellettuale ultra-snob, rampollo di una illustre dinastia intellettuale vittoriana e vicino all’elitario gruppo di Bloomsbury, ironizzasse sull’esotismo sensualista di Lawrence (che era di umili origini), rappresentandolo, nelle vesti del personaggio di Mark Rampion, nel romanzo Point Counter Point, satira feroce sugli intellettuali della Londra degli anni Venti. Insomma, tout se tient.

L'Honduras

Al termine della conferenza, nell’ultimo pomeriggio libero prima del ritorno a Vienna, trascorsi un paio d’ore ai bordi della piscina dell’albergo in compagnia di uno dei partecipanti, un brillante diplomatico hondureño che mi rese edotto sulla storia e la politica del suo paese.

In particolare, mi spiegò la differenza fra “America centrale” e “Centroamerica”: la prima, pura espressione geografica del territorio compreso fra Messico e Colombia, la seconda un’area politico-culturale ben definita, comprendente Guatemala, Honduras, El Salvador, Nicaragua e Costa Rica. Queste cinque repubbliche, dal passato, la cultura e la geografia comuni, avevano provato a federarsi dopo l’indipendenza dalla Spagna (1821), ma il progetto, propugnato dall’illuminato statista hondureño Francisco Morazán, liberale, anticlericale e riformista, era fallito nel 1838 a causa delle rivalità campanilistiche dei vari caudillos locali (così come Simón Bolívar non era riuscito a creare gli Stati Uniti del Sud America, o “Gran Colombia”, per le stesse ragioni). E Morazán aveva pagato il suo fallimento con la vita.

Di qui, secondo il mio interlocutore, derivava la successiva storia violenta e disastrata dell’America Centrale (guerre, rivoluzioni, golpes militari, dittature, imperialismo yankee, narcotraffico), che aveva fatto dell’Honduras la “Repubblica delle banane” per antonomasia, e che dura fino ad oggi.

Conclusione

Vorrei concludere questo pezzo tornando al punto in cui l’avevo iniziato: il traffico di droga.

Recentemente, leggendo il Daily Telegraph (la notizia non è apparsa sui giornali italiani) mi sono imbattuto in questo titolo: “Former Honduras leader faces cocaine charges”. Leggendolo, ho ritrovato la mia vecchia conoscenza, l’ex presidente Juan Orlando Hernández, scoprendo che era stato rieletto nel 2017 in violazione della costituzione, e, al termine del suo mandato nel 2022, arrestato ed estradato negli Stati Uniti per traffico di droga.

Stando all’articolo del giornale, Hernández non è solo accusato di aver facilitato l'invio di migliaia di tonnellate di cocaina negli USA, ma anche di aver cooptato nei traffici la polizia, l'esercito e altre istituzioni pubbliche del paese, contribuendo così a trasformare la nazione centroamericana - afflitta da una gravissima povertà e da un'estrema violenza delle gang criminali - in un vero e proprio "narco-stato".

A prescindere di quello che sarà verdetto finale dei giudici, il caso evidenzia come l'Honduras sia diventato il più importante snodo logistico per le spedizioni di cocaina dalle Ande al Messico - da dove entra nel più grande mercato di consumo del mondo, gli Stati Uniti - e la grande difficoltà del governo americano a farvi fronte. Insomma, come per la maggior parte dei paesi dell’America Latina oggi, al centro di tutti problemi c’è la droga, sempre la droga, dagli effetti politici e sociali (oltre che sanitari) devastanti, checché ne dicano i suoi cantori alla Aldous Huxley…