Mombasa è una città affascinante e ricca di storia, costruita su di un’isola separata dal continente da due piccoli fiumi e collegata alla terraferma dal Nyali bridge, dal terrapieno della ferrovia e da un servizio di traghetti. In swahili la chiamano Mvita, che significa “isola di guerra”, a ricordare le numerose contese per il controllo della città, soprattutto da parte del Sultanato di Oman, dei portoghesi e dei britannici. Da sempre è stato il principale polo commerciale dell'Africa orientale. Da qui partivano le esportazioni di avorio e di schiavi.
Per noi ora il problema è fare il biglietto per le Seychelles, dove Valentina ed Angelo sono ad attenderci. Da Mombasa costa l’equivalente di 210 dollari americani, una pazzia. Dalla Tanzania, invece, se ne spendono la metà. Il prezzo sembra identico, ovvero 1620 scellini in entrambi i paesi, ma al cambio in banca col dollaro lo scellino tanzanese, rispetto a quello keniota, vale il doppio: 7,35 scellini in Kenya, mentre in Tanzania ne vale 15. Se domani troviamo una nave che va in Tanzania e non costa tanto ci conviene andare a fare il biglietto a Dar es Salaam. Inoltre, domani guardiamo cosa costa il passaggio su quella navetta vista al porto che proprio in questi giorni va alle Seychelles.
L’amico Abdullà ha l’ufficio alla East African Shipping Line dentro l’edificio della Seaman House, conosce tutte le compagnie di navigazione, i loro movimenti e domani promette di aiutarci. Dice che la Dodwel è una compagnia polacca che va spesso in Tanzania. Tra una conversazione e l’altra, Abdullà ci racconta un fatto curioso che qui tutti conoscono: “Un marinaio italiano della nave Vittoria si è invaghito di una ragazza keniota ed era sparito. Ricercato dalla polizia, solo quattro mesi dopo, è stato trovato in un hotel di Nairobi e riportato a bordo”.
Da un taxista riusciamo ad avere 8 scellini al dollaro, a Mombasa non si riesce ad ottenere di più. Vorrebbe portarci alla Tiwi Beach che definisce un paradiso a soli 25km da Mombasa, sulla Kenya-Tanzania Road. Nei Cottage sulla spiaggia del Tiwega Lodge, dove certamente il taxista ha una commissione dai titolari, si può anche cucinare e costa 60 scellini. Chissà, visto che i programmi cambiano in fretta, ci segniamo anche questa possibilità. Molto gradevole è pure Nyali Beach, già vista in passato e distante appena una manciata di chilometri a nord del centro.
All’imbrunire passeggiamo in città, per ambientarci con la realtà locale e, nello stesso tempo, rasserenarci. Rivedo il bar New Castle sulla Kilindini Road, che nel 1972 era un ritrovo per freak e giovani viaggiatori e adesso è stato trasformato in una pizzeria di lusso, come tutto il centro tirato a lucido per un nuovo genere di turismo impostato sui tour organizzati, i pacchetti per i safari. Giriamo attorno alle mura di Forte Jesus, fortezza portoghese del XVI secolo che delimita la parte meridionale del centro storico. Leggo che questo forte fu catturato e riconquistato almeno nove volte tra il 1631, quando cadde nelle mani del sultano di Mombasa, e il 1895, quando fu trasformato in prigione dai britannici. La città è piena di turisti, molti i tedeschi, tanto da farla sembrare un Club Mediterranee. Un vero boom, gli hotel a cinque stelle, come il Silver Beach ed il Mombasa Beach, sono al completo. L’atmosfera generale era più interessante prima, nel 1972, perché meno artificiosa, ricercata.
Proviamo a telefonare alle Seychelles, impossibile! Da Mombasa chiamano prima Nairobi, poi Londra e infine le Seychelles, un intreccio di chiamate proibitivo. Sistema all’inglese anche per usare i bagni pubblici, dove occorre la monetina, un metodo che in Africa suona un po' fuori luogo. Ottimo, invece, il latte di produzione locale e l’ice cream al pistacchio nella gelateria in Chembe Road. Mentre ci gustiamo il gelato al mercato, assistiamo al movimentato pestaggio di un ladro da parte della gente che lo consegna, un po' ammaccato, alla polizia.
Giovedì 26 aprile, la nostra camera al Nord-Cost Lodge in Digo Road è sulla strada, proprio dietro al distributore di benzina, collocazione che “garantisce” di trascorrere la notte assieme ad un intenso via-vai di camion. Andiamo subito in giro alla ricerca di un passaggio marittimo per la Tanzania. Dopo aver fatto un dentro e fuori frenetico nelle varie agenzie marittime allineate lungo la Kilindini Road, l’esito è il seguente: 1) anche via mare occorre il permesso speciale per entrare in Tanzania.
A conferma di quello che dice la gente, taluni che rivestono cariche pubbliche sono poco affidabili nel dare informazioni, per cui è facile essere consigliati male. 2) l’unica agenzia che porta passeggeri alle Seychelles è la Kenya Shipping che con la piccola Neoveda va a Victoria, capitale delle Seychelles, ogni “morte di papa”. La prossima partenza sembra sia fissata per l’11 di maggio e costa 1135 scellini, comunque meno dell’aereo. 3) la Steamship Corporation of India prima, sulla via per Bombay, qualche volta sostava alle Seychelles, ma ora non caricano più passeggeri. E, comunque, chiedendo in giro, sono sempre meno le navi cargo che accettano passeggeri. 4) L’unica via possibile nell’immediato rimane l’aereo da Mombasa. 5) Acquistare il ticket di solo andata per Victoria costa molto. Conviene allungare l’itinerario: da Mombasa alle Seychelles e poi le Mauritius viene solo 65 dollari in più.
L’impiegato della Bunson Travel ci avverte che per acquistare i biglietti aerei occorre presentare la ricevuta della banca, una legge governativa per evitare il mercato nero. A noi poco importa. Dopo affannose ricerche riusciamo a trovare un negozio che ci dà 8,30 scellini per ogni dollaro, uno scellino in più della banca. Ado ed io cambiamo 500 dollari a testa. Adesso occorre lavorare di carta velina: in banca cambiamo 30 dollari, la ricevuta che ci danno è su carta carbone e con un piccolo ritocco aggiungiamo due zeri. Alla Bunson fanno la fotocopia della ricevuta e ci restituiscono l’originale da presentare alla dogana dell’aeroporto. Dopo quattro giorni di rincorse demenziali alle 16, finalmente, acquistiamo i biglietti per Mombasa, Seychelles, Mauritius: partenza domenica 29 aprile alle 12, arrivo a Victoria, sull’isola di Mahè, alle 15:45. Travel deriva da “travail”, cioè lavoro fisico, fatica, travaglio, non è affatto un viaggio di piacere.
Seduti sulla riva del fiume, due ragazzi kenioti ci invitano a fare un paio di tiri d’erba che hanno appena acquistato per 2,50 scellini al cartoccio, che qui chiamato “finger”. Lavorano al Taj Hotel, dopo il mercato, e sono molto simpatici. Raccontano che anche qui a Mombasa dopo una certa ora la polizia arresta una nera se è in compagnia di un bianco, ma anche un nero se in compagnia di una bianca. Questo per scroccare soldi, basta pagare e tutto diventa lecito.
Ad ora di cena, paghiamo l’ingresso ed entriamo al Sunshine Discobar per cercare Sofia, l’ex compagna di Pasquale. Il locale è un “puttanaio” buio e puzzolente pieno di bravi marinai squinternati. C’è la sala da ballo con l’orchestra e a mezzanotte fanno pure lo spettacolo di spogliarello semi integrale. Troviamo Sofia e riusciamo a capirci nonostante il rumore e il fatto che è sordomuta: non conosce il cognome di Pasquale e quindi, per avvisarlo di portare i rullini fotografici in Italia, dovremo trovare un altro modo. Si è fatto tardi, io torno in albergo mentre Aldo, un po' alticcio, preferisce dilungarsi nel locale.
Dopo un’oretta Aldo si presenta con una giovane ugandese dal naso “mattonato” ma molto dolce e carina. Si chiama Betty e racconta di essere letteralmente innamorata del suo paese ma a causa della guerra ha dovuto emigrare a Mombasa e arrangiarsi. Vorrebbe un figlio bianco e Aldo, per lei, potrebbe essere una buona occasione. Confessa poi una realtà africana impossibile da condividere: “Se avessi un figlio bianco, i dottori per invidia lo potrebbero uccidere. Se, invece, fosse gay sarei io stessa ad ucciderlo, in Uganda essere omosessuali è una grande vergogna”. Per via della barba, Betty ama appellare Aldo col nome di Vasco da Gama, il primo navigatore bianco che ha messo piede sia a Malindi che a Mombasa.
Parliamo animatamente e il guardiano dell’hotel bussa alla porta. Aldo gli allunga 20 scellini e tutto torna regolare. Infine, Aldo e Betty dormono fuori, sul terrazzo della camera, sopra allo smog dei camion ma poco importa. Prima di addormentarci decidiamo di andare domani a Malindi, distante 105km.
Venerdì, 27 aprile. Il bus per Malindi parte da Digo Road, accanto alla moschea, e pare che il viaggio debba durare un paio d’ore. Alle 9,45 siamo sul bus e partiamo. Prima ancora di pagare il biglietto, notiamo che il driver si ferma ogni chilometro e, secondo noi, segue dei tempi da sonnolenza profonda. Preferiamo scendere per fare l’autostop e in breve troviamo un passaggio su di un’auto diretta a Malindi. Il passaggio in ferry nella località di Kilifi è gratuito. Qui, fotografo un autobus capovolto, trainato dall’acqua sull’argine e chiediamo spiegazioni: purtroppo, nel pomeriggio di ieri, un autobus con 60 persone a bordo invece di salire sul ferry ha rotto i freni e si è inabissato, un tragico incidente che è costato la vita a 50 passeggeri e solo in dieci sono riusciti a salvarsi. Tanti visi mesti a guardare le operazioni di recupero, in un’atmosfera cupa, di lutto generale.
Giunti a Malindi, la prima impressione, ironizzando, sembra di essere arrivati in una Saint Tropez africana, piena di residenti e turisti occidentali danarosi e amanti della “vida alegre”. È evidente che il turismo è la maggiore industria di Malindi, abitata però anche da molti personaggi insulsi e grossolani, specie i “nuovi ricchi” della comunità from Germany. Il troppo denaro può rendere stolto e arrogante chi lo ostenta. È tedesca anche la giovane ed eccentrica donna che sta raccogliendo coperchini di bibita per farsi un abito, dice che gliene occorrono 520. Tedesco è pure il vecchio porcone sulla spiaggia che si vanta di aver pagato solo 5 scellini per farsi mostrare il pene da un keniano.
Molti i nostri connazionali che hanno acquistato boutique e ville a bordo spiaggia, quella italiana credo sia la presenza di stranieri più numerosa. C’è pure il Casinò, il “Number One”, con negozi fornitissimi e, inoltre, ci dicono che qui a Malindi le nere possono passeggiare liberamente con i bianchi h24, senza che nessuno le disturbi come avviene invece a Mombasa e nel resto del paese. Sembra un’oasi decisamente dissoluta, evidentemente con regole speciali favorite dallo scorrere del denaro.
Questa situazione genera fenomeni di insicurezza e violenza tali da spaventare alcuni abitanti che raccontano preoccupati: “Una settimana fa alcuni soggetti sono penetrati nella casa di un italiano per derubarlo e lo hanno ucciso”. Fatto che ha messo in allarme tutti i residenti bianchi di Malindi. Il turismo esclusivo richiama in città ogni genere di procacciatori d’affari. Per strada i ragazzi ti urlano se vuoi acquistare marijuana o avorio e fanno gli spiritosi come in tutti i luoghi del mondo con questo genere di turismo. Turismo che modifica l’ambiente e molto spesso in peggio. Le prostitute, poi, sono dovunque: quelle più carine hanno delle belle casette, forse statali, dietro alla discoteca Hababi Niga. Jeni Rosa e Maria ci invitano a casa loro col chiaro intento di fare sesso ma rifiutiamo: molti bianchi considerano Malindi una loro “riserva di caccia”, a noi pare più una trappola per topi.
Alloggiamo al Malindi Lucky Lodge, camera doppia per 30 scellini. Dobbiamo stare attenti con le spese per evitare di dover cambiare altri dollari prima della partenza. Appena usciti, incontriamo alcuni giovani kenioti che ci portano dove i locali si stonano, dietro la moschea vicino al nostro hotel. Nel vederci il pusher di nome Yuma, assieme ad altri, si arrabbia con chi ci ha accompagnati poiché ora, secondo loro, dei bianchi conoscono il posto dove l’erba costa poco. Quando capiscono che siamo in transito e che, in effetti, a noi importa poco dei loro affari, il clima si rasserena, contenti di parlare liberamente e condividere una buon joint in compagnia. Il cartoccio a loro costa due scellini e lo vendono ai bianchi a dieci volte tanto.
Qui, Mudaris Solomon, che tutti chiamano “maestro pazzo”, ci invita a casa sua che si trova dietro all’Hindu Temple. Solomon è un mitomane “flippato” per gli affari e per il denaro: vende e affitta case, ma alla fine si fa pagare da noi le sigarette, il bere e anche il mangiare per lui e sua moglie. Ci porta a casa sua con la lusinga di darci 10 scellini per un dollaro ma, al dunque, è calato a 7,50 che è lo stesso cambio della banca. Continuiamo a perlustrare l’abitato di Malindi, vediamo il ristorante italiano di R. Marini che è chiuso per ferie dal 24 aprile al 24 giugno. Il proprietario si trova in Italia ed è la persona indicataci dall’amico velista Ennio Bonomelli di Brescia, conosciuto durante la sua permanenza a Malindi. Altro italiano indicatoci da Ennio è il sig. Duranti, proprietario del lussuoso Suli-Suli Hotel, pure lui in Italia.
La gente vede che curiosiamo un po' dovunque e qualcuno ci confida che ci credono dei mafiosi venuti ad indagare. Torniamo in spiaggia, costellata da lussuosi ma vuoti resort e, a guardar bene, la Silversand Beach in questa bassa e spoglia stagione non ci appare così speciale. Tuttavia, ci dicono che il parco nazionale marino di Malindi è uno dei più belli e antichi parchi marini dell'Africa. Nella partita a calcio sulla sabbia tra kenioti, ci dividono uno per squadra. Con Aldo gioca pure un altro occidentale di nome Ritter, ragazzo tedesco che da due anni vive sull’isola di Lamu, 140km a nord di Malindi. È bloccato a Malindi perché la strada che conduce al traghetto per Lamu è al momento impraticabile a causa delle piogge. Racconta che l’isola è molto bella, sul genere Zanzibar e, non distante da dove abita lui, ha la casa pure lo scrittore italiano Alberto Moravia. Mi dona alcune sue foto dell’isola. L’abitato di Lamu è considerato il più antico del Kenya, uno dei primi insediamenti swahili sulla costa orientale dell'Africa.
A fine partita, Ritter insiste per andare insieme ad ascoltare musica nella sala disco del Lowfords Hotel. Quel genere di musica non ci esalta, in compenso mi regala attimi di forte emozione nel sentire, nel cuore dell’Africa, la voce di Rossana Barbieri, mia sorella, che canta la famosa canzone “Soleado” con i Daniel Sentacruz Ensemble.
Lasciamo Ritter che parla a raffica ed è un po' pesante, per tornare ad esplorare l’abitato in libertà. Le donne in età passeggiano col seno nudo anche se floscio, per niente attraente e, fatto curioso, sotto le vesti hanno due piccoli cuscini fissati sui glutei: non capiamo se li mettono per mostrare un culo più prominente o se, invece, è soltanto per stare più comode quando si siedono. Assistiamo anche al dolore di una giovane famiglia di tedeschi che ieri, fatto rarissimo e “incredibile”, hanno perso l’anziana madre, nonna dei ragazzi, a causa di una noce di cocco che gli è caduta direttamente sul cranio.
Verso le 22, quando il cielo si accende di stelle, facciamo il giro delle discoteche più vivaci: Habari Niga, Twenty Eight, Eden Rock e Tropicana. Qui in Kenya fumano tutti le Benson o le 555, ”triple five”, mentre le Sportman nazionali, che costano la metà, sarebbero per gli “sfigati”. Al banco ordiniamo birra. Peccato che, quando paghiamo, tendano sempre a non darci il resto. Aldo si lamenta e, per irriderlo, il cameriere gli porta i pochi centesimi di resto su di un grande vassoio in ottone. Aldo si prende sia il resto che il vassoio ed il suo commento è giocosamente sarcastico: “Bisogna tener bassa la servitù, se no questi si allargano e non li tieni più”. Tuttavia, salvo qualche ovvia eccezione, dobbiamo dire che i kenioti sono brava gente, più aperti e amichevoli sulla costa che nell’entroterra.
Sabato 28 aprile, di prima mattina facciamo il bagno nella piscina del Lowfords Hotel e la colazione al New Safari Hotel, in centro a Malindi: una casa a due piani, sotto si mangia e sopra si dorme. Il titolare parla italiano e ci offre 12 scellini per un dollaro, non saranno troppi? Prima di partire, visitiamo il nucleo originario di Malindi che troviamo fatiscente e autentico al punto giusto, come piace a noi. La gente di lingua swahili ripete spesso “hujambo”, un saluto del tipo ciao, “karibuni”, che vuol dire welcome o benvenuti, e “rafiki”, che sta per amici. Lo Swahili è la lingua nazionale di Kenya, Tanzania, Uganda e Ruanda, parlata da circa 70 milioni di persone.
Facciamo l’autostop e ci carica David, un inglese che va a Mombasa. Lungo il tragitto ci mostra la pianta della corda, che a noi pare un ananas capovolta, ed una decina di chilometri prima di Mombasa ci indica un vasto terreno che dice essere di proprietà dall’Aga Khan. Parlando, invece, della nostra destinazione di domani, David racconta di andare spesso alle Seychelles e narra che al villaggio turistico di Vacoa, sulla West Cost di Mahe, si compra bene perché un’impresa edilizia della zona sta fallendo e ha bisogno di denaro. Informazioni commerciali per noi prive d’interesse che tuttavia fotografano la realtà di un luogo in quel momento. Giunti a Mombasa, torniamo ad alloggiare al Nord-Cost, ma questa volta siamo in una camera in comune con quattro letti, tutti occupati.
Domenica 29 aprile, dopo colazione camminiamo per 4km fino all’ufficio immigrazione del porto. L’agente della compagnia Messina è la KIA, ma il comandante della nave Roberto Emme non ha lasciato la lista dell’equipaggio pertanto non conoscono il cognome di Pasquale. Cercheremo di raggiungerlo a Durban, diversamente ho il suo indirizzo e andrò a trovarlo una volta giunti in Italia.
Torniamo in hotel, facciamo scorta di rullini fotografici che in Kenya costano meno e, con l’autostop alle 10, siamo puntuali all’aeroporto. L’aereo per le Seychelles è in ritardo, invece delle 12 parte alle 17:30. La Kenya Airways, per scusarsi, offre a tutti i passeggeri il pranzo al ristorante dell’aeroporto. Siamo “carichi” e curiosi di vedere cosa ci aspetta in queste mitiche isole dell’oceano Indiano, compreso il “coco de mer”, un cocco da palma doppio, endemico delle Seychelles.