Il mio viaggio overland lungo la mitica Silk Road, la via della seta che attraversa l’Asia centrale, ha inizio dalla marmorea Asgabat, surreale capitale del Turkmenistan, prosegue per Uzbekistan, Tagikistan, Kirghizistan e termina nella seducente Kashgar, sperduta oasi medievale situata nell’estremo angolo occidentale della Cina. Tremila chilometri tra deserti e alta montagna che verranno divisi in più articoli per dare giusto risalto alle straordinarie bellezze di queste terre ricche di storia, ruvide, nascoste, “fuori dal mondo”. Da qui poi in treno fino a Shanghai, Hong Kong e Macao, su spiagge tropicali di un pianeta che è invece già nel futuro.
Da sempre ho sentito parlare del Turkmenistan come di un paese “blindato” verso l’esterno, retto da una dittatura monopartitica fortemente personalistica, difficile da visitare; e questo, mi ha sempre intrigato tremendamente. Vorrei vedere con i miei occhi. Tutto sommato non è stato così difficile ottenere il visto, seguendo la procedura d’obbligo indicata da una delle agenzie approvate dal regime. Dopo la sosta al trafficato aeroporto di Istanbul, sul Bosforo, atterro ad Asgabat a notte fonda: dal cielo colpisce subito il forte bagliore di luci della città, “fuori misura”, e a terra la singolare assenza di aerei. Tutto vuoto, solo noi, in un vasto aeroporto con agenti che indossano severi berretti sovietici, ma dai modi semplici e bonari. Mi piace! Finalmente sono in Turkmenistan, un paese tanto più grande dell’Italia ma con soli 5 milioni di abitanti.
Asgabat, grandeur di una città fantasma
Oraz, l’asciutto autista dell’agenzia Owadan mi attende agli arrivi per portarmi in albergo. Il lungo vialone che accompagna al Grand Turkmen Hotel è costellato da ali di palazzi in marmo bianco illuminati a giorno e penso: “Eccessivo, sarà così solo l’ingresso in città, per fare bella figura”, ma scoprirò presto che avevo torto. Gran parte della città è composta da palazzi enormi di pregevole fattura, maestosi, sontuosi, in un vago stile impero orientaleggiante che unisce i caratteri tradizionali dell’architettura centroasiatica a moderne sperimentazioni. I palazzi sono rigorosamente rivestiti di marmo bianco, levigato e, strano ma vero, disabitati e vuoti. I vari ministeri, gli istituti, il palazzo della Stampa, quello della Felicità, teatri, librerie, musei e altre centinaia di palazzi monumentali testimoniano la grandeur di una città fantasma. Perfino il palazzo presidenziale, costruito da ditte italiane, è vuoto perché il presidente preferisce starsene altrove.
Un fluorescente museo delle cere da collocare tra Las Vegas e Disneyland. Strade e ampi marciapiedi deserti, costellati di statue dorate del presidente e addobbati con i suoi megaritratti a colori appesi in ogni dove. Cupole dorate, colonnati, porte alte venti metri, stupende cancellate, fontane zampillanti e raffinati lampioni in ferro battuto sempre accesi, tutto qui è superlativo, tirato a lucido, pulitissimo: neppure un mozzicone di sigaretta o una foglia viene lasciata al suolo. Il primo giorno, inebriato da questa insolita dimensione, credo di avere camminato una ventina di chilometri per guardare attentamente e cogliere quanto più possibile. La città è stata progettata su un reticolo di vie perfettamente perpendicolari, con la via principale chiamata Prospekt Machtumkuli che divide la capitale da est a ovest. Fu ricostruita così a seguito di un devastante terremoto che la distrusse nel 1948. Una megalopoli in marmo di Carrara, unica al mondo.
Nessun turista in giro: anche questo mi piace. Nei ristoranti pseudopretenziosi domina l’arredo in stile barocco, ricco di tendaggi, vistosamente kitsch. Il Grand Turkmen credo sia l’unico cinque stelle del centro, ovvero a due passi dal Rusky Bazar: gigantesco blocco mercato di concezione moderna che però racchiude e raduna l’animo informale della città, dove si mangia genuino e si trova di tutto per poca spesa. Riappaiono in gran numero le abbaglianti arcate circolari dei denti in oro, concezione di bellezza tipica dell’emisfero sovietico. Le donne gestiscono gli affari con la sicurezza, la padronanza e la scioltezza tipicamente femminili di una cultura matriarcale. I loro modi sono vispi e vivaci, portano lunghe trecce che escono da capelli raccolti in fazzoletti di stoffa, indossano abiti lunghi, colorati, attillati e spesso scollati, esprimendo così, una fiera ed evidente femminilità. Nulla a che vedere col rigore dei burka indossati dalle donne nel confinante Afghanistan.
Questa condizione delle donne è certamente dovuta alla influenza della lunga dominazione russa, terminata nel 1991. Infatti, l’attuale regime è stato fondato dall’ex capo locale del sistema sovietico Saparmyrat Niyazow, che ha detenuto la carica vitalizia di Presidente assoluto col titolo di Turkmenbashi, ovvero “padre dei turkmeni”, fino alla sua morte avvenuta nel 2006. Sostituito poi da Gurbanguly Berdymukhammedov (nomi non facili da memorizzare!), l’attuale presidente assoluto in carica. Niyazow avrebbe permesso ai musulmani di praticare il loro credo solo se questo avesse compreso il suo culto della personalità. Jennet Yalamanova, la bella ragazza della reception, afferma con cognizione di causa: “I turkmeni non sono molto religiosi, difficile trovare qualcuno che abbia letto interamente il Corano”. Forse per questo il Turkmenistan è meno esposto al rischio del fondamentalismo islamico. Effettivamente in questa selva di palazzi marmorei non ho visto moschee o minareti: l’invito alla preghiera qui non arriva.
La dittatura turkmena è caratterizzata da un’impronta peculiarmente filosofica, basata sul Ruhnama, il Libro d’Oro, ove Niyazow scrisse le proprie teorie filosofiche e politiche, e il cui studio è obbligatorio per accedere a qualsivoglia carica pubblica. In base a tali precetti, il popolo turkmeno deve preservare al massimo i propri costumi da eventuali corruzioni esterne. Da ciò derivano le leggi che vietano la diffusione di musiche e libri non turkmeni (tra cui l’opera lirica) e tante altre prescrizioni specifiche. Più che il Corano è il Ruhnama il libro spirituale dei turkmeni. Tuttavia nella piscina sotto al balcone della camera, le ragazze si mostrano in bikini e la musica a tutto volume è quella rap afroamericana.
A parte qualcuno che a volte va in paranoia di fronte alle macchine fotografiche, girando liberamente per la città si nota che la gente non è abituata agli stranieri, ma nessuno mi importuna minimamente anzi, sono tutti gentili, educati e rispettosi, in particolare le donne. Gli uomini, dai fisici asciutti, atletici, taurini e forti, sono taciturni e hanno lo sguardo cupo ancora legato al vecchio modello sovietico. Gli unici bar da bevitori, con la presenza di ragazze dall’aria equivoca, sono quelli sotto il mercato, locali che chiudono alle 23, ma nelle vicinanze non avverto segni della benché minima forma di delinquenza: nessun pericolo! Per trovare la città vera, quella della povera gente, bisogna recarsi in periferia, dove prima c’era l’affascinante old market di Talkuchka, abbattuto di recente per farne uno nuovo.
Mary, oasi nel Karakum desert
Alle 9 del terzo giorno Oraz viene a prelevarmi in Chevrolet Supervan per il trasferimento a Mary: 360 km di strada squinternata! Tutti guidano con gli occhi ben fissi sulla strada e procedono a zig zag per evitare le buche più grandi, veri crateri. Nessuno si lamenta se si passa da destra o da sinistra, ognuno segue il proprio itinerario dettato dalle buche, è normale così. Solo Oraz centra le buche a tutta velocità, tanto l’auto non è sua. Dopo la sosta alle rovine della Anau Mosque e alla old city di Abiverd distrutta dal figlio di Gengis Khan, sulla via della seta ma niente di trascendentale, alle 15 siamo al Margush hotel di Mary: piacevole città-oasi bagnata dal fiume Murghab, in mezzo all’altopiano desertico del Karakum. E’ questo il centro della florida economia del paese, basata su gas e cotone. Anche qui marmo, architetture belle mai banali, ordine, e il culto della personalità del Presidente coltivato in modo decisamente vistoso, con la presenza ingombrante di statue dorate raffiguranti il “boss” che indica sempre il sole: attraverso congegni a orologeria le statue sono in grado di seguire i movimenti solari – Credo che Hitler e Mussolini si mangino le unghie dall’invidia dentro alle loro tombe...
La bella moschea sunnita dedicata, guarda caso, al Gurbanguly Haji, con la scontata immagine del presidente che prega, si allinea agli altri palazzi che oltre il fiume conducono al superbo rione del vecchio Bolshevik bazar, vicoli dove la vita si esprime in termini decisamente più umani e realistici. Finalmente trovo i tempi lunghi tipici dell’Oriente: qui si ordina chay (tè) o pivo (birra) in vissute e fresche chayerie e volendo si può fare un pisolino in uno dei tanti lettini o al suolo su tappeti senza che nessuno disturbi. A differenza della capitale, non ci sono poliziotti agli angoli e la gente è più disinvolta, meno “ingessata”, nessuno obietta per le fotografie.
Merv, “madre del mondo”
La prossima meta d’obbligo è Merv, l’antica capitale di infiniti regni a soli 30 km, dichiarata patrimonio dell’Umanità dall’Unesco. Provo ad andarci privatamente, ma mi bloccano subito: in città posso muovermi liberamente ma per uscire è l’agenzia responsabile. Non resta che trattare sul prezzo: dei 50 US$ richiesti ne pago 20, e sono contenti lo stesso! Vado col solito Oraz. I siti da visitare sono sparsi per una vasta area, giriamo 15 km per vedere quelli principali: le suggestive mura del Grande Kiz-kale e quello che rimane del Piccolo Kiz-kale (VII sec.), il mausoleo di Askhab (VII sec.), le mura d’arena di Erk-gala (IV sec. a.C.), la cittadella medievale della moschea Yusuf Khemedany (XI sec.), il mausoleo di Mukhammed ibn-Zayd (VIII sec.) e quello più celebre del Sultano Sanjar (XII sec.).
Con Sanjar conobbe un periodo di grande splendore arrivando a contare 200.000 abitanti: capitale dell’impero persiano orientale, definita “madre del mondo”. Oasi di verde nel deserto, importante crocevia carovaniero e multiculturale sulla via della seta; da qui sono passati tutti i grandi conquistatori della storia, da Dario e Ciro ad Alessandro Magno e purtroppo anche Tolui, capo dei mongoli e figlio di Gengis Khan, che nel 1221 mise Merv a ferro e fuoco perpetrando un vero massacro. A parte 400 artigiani, ordinò lo sterminio dell’intera popolazione, incluso donne e bambini. Negli Annali si legge: “Ad ogni soldato fu assegnata l’esecuzione di 3-400 persiani, tanto che al crepuscolo i cadaveri formavano montagne e la pianura era inzuppata di sangue”. Ovviamente non risparmiò neppure la ricca biblioteca. Due secoli più tardi Shakrikh, figlio di Tamerlano (principe turco-persiano di Samarcanda) cercherà di portare la città agli antichi splendori.
Ai simpatici Akhmed (driver) e Yakur (traduttore) il compito di accompagnarmi al confine uzbeko di Farab in Toyota Siena: 270 km ai 120 orari su un manto dissestato che fende morbide dune di sabbia. Davanti a noi un’auto si ribalta a tutta velocità, brutta botta: l’autista privo di vita viene coperto da un panno a bordo strada. Dogane, nessun controllo, gli anni del recente rigore sovietico sembrano lontani anni luce, per fortuna!