Questa volta abbiamo scelto di lasciarci trasportare dalla casualità dell’improvvisazione, un vento che ci ha condotto dritto in Africa, nella singolare enclave spagnola di Melilla, e in Marocco, sulle desolate alture del mitico Rif, una regione vergine abitata da popolazioni berbere custodi di uno straordinario senso dell’ospitalità. Il Maghreb dalle nevi perenni, evitato però dal turismo tradizionale a causa dei ripidi tornanti e dei pregiudizi legati alla massiccia produzione di cannabis, localmente nota col nome di kif.
Dopo la sosta sulla chilometrica spiaggia di Cap d’Agde in Francia e la breve visita al Principato d’Andorra, seguiamo l’Autovia Mediterranea che fende le colline aride di un paesaggio già spiccatamente africano, ingentilito da rovi di fiori rosa che ornano la mezzeria per centinaia di chilometri fino al porto di Almeria. Il nostro viaggio, quello vero, ha inizio la sera dell’8 luglio sul confortevole traghetto Ciutad de Valencia diretti nell’intrigante possedimento spagnolo di Melilla, situato nella penisola di Capo Tres Forcos, sulla costa nord orientale del Marocco. Alle prime luci dell’alba, in coperta un entusiasta ragazzo di Malaga mi spiega la scelta della sua vita: “Mi trasferisco qui con lavoro e famiglia, adoro questo luogo e la sua gente”. Prima delle 8 attracchiamo sotto le mura della città vecchia, usciamo dal porto e ci colpisce subito la gradevole architettura degli edifici in stile coloniale e l’atmosfera esotica e serena, tipica dei luoghi privilegiati. Gli orari dei negozi parlano chiaro: aperti dalle 11 alle 13 e poi si riapre alle 18 per un paio d’ore. Nelle ore più calde la gente si riversa sulla lingua di sabbia, fornita di docce, della baia cittadina, racchiusa tra la capitaneria e l’interminabile molo recintato, che delimita il confine meridionale del piccolo e ambito lembo d’Europa in terra africana.
Fondata dai fenici e colonizzata da romani, goti e arabi, nel 1497 Melilla fu occupata dalla Spagna durante la riconquista iberica. Teatro di lotte contro la dominazione europea, negli anni ‘20 le tensioni nella regione portarono a quella che viene ricordata come Guerra del Rif, tra la Spagna e le tribù berbere della regione. Da questo piccolo presidio, inoltre, prese le mosse il colpo di stato militare del 1936, che diede inizio alla guerra civile contro il Fronte Popolare Spagnolo. Oggi Melilla è una città moderna di 70.000 abitanti, un “porto franco” cresciuto nell’armonica mescolanza di quattro culture: musulmana, cristiana, ebrea e induista, circostanza che dona un carattere peculiare e straordinario a questo lido. Da non perdere: le strade attorno l’Iglesia del Sagrado Corazòn e la superba fortezza che racchiude l’istmo roccioso su cui poggia la ciudad vieja, localmente nota come El Pueblo, con cinque anelli fortificati di protezione, torrioni panoramici affacciati sulle acque cristalline del Mediterraneo, e in più l’interessante Museo de Arqueologìa e Historia (ingresso gratuito) e la chiesa della Concepciòn nel punto più alto. Di giorno si può tranquillamente lasciare il camper sul malecon accanto al mare, ma il posto migliore durante la notte è certamente il parcheggio libero sotto le mura di San Juan, quelle di fronte l’ingresso al porto, dove si può cenare in privato tra palmizi e antichi cannoni o recarsi alla trattoria dietro l’angolo, sotto la scalinata che conduce al forte.
Prima di lasciare Melilla ricordatevi di fare il pieno, qui il gasolio costa molto meno che in Marocco. La porta d’ingresso al continente africano si trova in fondo ad Avenida Gen. Astilleros ed è meglio arrivarci prima che giunga la nave delle 7.30 da Almeria. Alla dogana il calendario musulmano appeso alla parete ci ricorda che stiamo entrando nell’anno 1423. I funzionari dimostrano un’educata curiosità per il nostro autocaravan, in ogni caso la procedura è celere e, strano ma vero, passiamo senza spendere un centesimo. I numerosi gruppi di ciclisti agonisti, che regolarmente varcano il confine per farsi una pedalata lungo le strade dei dintorni, sono per noi una curiosa e piacevole sorpresa. Entriamo nella vicina Nador per fare bancomat, percorriamo vie ampie e ordinate in una città ancora deserta a causa dell’ora mattutina (-2h da Melilla). L‘assolata statale del Rif (P39) si allarga quando attraversa alcuni centri abitati, che appaiono improvvisi con “pareti” di grandi edifici ai lati, da sembrare un fiume che scorre tra argini di cemento. Dopo il vivace mercato all’aperto di Midal, la statale inizia a salire decisa in un paesaggio sempre più arido e coinvolgente, tra bagliori color ocra e staticità solenni, vera delizia per i puristi della natura: s’inerpica tortuosa e a tratti stretta, qualche camion passa a fatica, ma rimane comunque ben percorribile e in gran parte deserta. A parte qualche gruppo di allegri ragazzini che vendono sacchetti pieni di lumache e ortaggi all’ombra di piante spoglie o trasportano taniche d’acqua a dorso di mulo, lungo la via non s’incontra molta gente.
Il tratto più impegnativo, ma anche il più affascinante, comprende i 65 km che dal bivio per Fes conducono ad Al Hoceima. Purtroppo i segni del tragico terremoto che ha colpito la regione nel febbraio scorso sono ancora evidenti. Alle 15 entriamo ad Al Hoceima, costruita sulla scogliera in posizione panoramica, poi una ripida discesa ci conduce all’affollata stazione balneare di Plage Quemado (“spiaggia” in francese e “bruciata” in spagnolo – la fusione di due lingue che qui tutti conoscono bene), che consiste in un’ampia striscia di sabbia delimitata da pareti di roccia. Al Hoceima ha un centro moderno, non particolarmente suggestivo, ma strategicamente importante per visitare le superbe bellezze naturali dei dintorni. Grazie alla gentilezza di Dris, un ragazzo che chiude il proprio negozio solo per accompagnarci, in breve raggiungiamo il Camping Cala Bonita (5 euro al giorno), nella baia situata 6 km a est della città. Un campeggio spartano affacciato sul mare, egregiamente gestito dalla municipalità locale. L’ampio spazio ci ciascuna piazzola è interamente occupato da famiglie di campeggiatori autoctoni, con enormi tende arabe poste al centro e il perimetro recintato da muri di canne in modo impenetrabile.
Siamo gli unici europei presenti e questo non è certo un luogo da tintarella in bikini, in compenso nel ristorante a bordo spiaggia servono deliziosi spiedini di pesce alla brace, nel bar attiguo si ascolta musica, si beve birra e si socializza in massima tranquillità. Il proprietario ci offre la cena, confermando le impressioni raccolte lungo il tragitto sull’ospitalità e la rettitudine del popolo Berbero. Il 14 luglio, dopo tre giorni di sosta, la smania di muoverci ci riporta sulle alture del Rif verso ovest; la stretta striscia d’asfalto si alza sempre più e lentamente la terra arsa dal sole si copre di verde fino a divenire, sotto la vetta del monte Tidiquin (2448 m), un ombreggiato e rinfrescante paesaggio alpino, dominato da folte foreste di lecci, cedri, querce e alberi da sughero. L’unica auto della polizia la vediamo a Ketama, capitale delle più estese piantagioni di hashish del globo, definite ironicamente il “granaio” d’Europa. Lungo la via giovani venditori propongono l’acquisto di kif o “chocolate”, un’ancora di salvezza per l’economia domestica di molta povera gente, ma basta rifiutare con garbo che nessuno insiste più del lecito. Gli abitanti del Rif la coltivano e la fumano da secoli: “Ci aiuta ad alleviare le fatiche, qui il governo è latitante e dobbiamo fare tutto da soli”. I montanari berberi arrivarono perfino a fondare la Repubblica del Rif, che proclamò la propria indipendenza nel 1921 e solo nel 1926, quando il capo della resistenza Abd El Krim si arrese, la conquista spagnola divenne effettiva. La gente del posto, pur legittimando l’autorità reale, ancora oggi si considera rifiana prima che marocchina. Scendendo di quota, curva dopo curva, le tracce dei torrenti in secca appaiono costellate da enormi rovi selvatici di fiori lilla, spazi rubati alle pietraie che donano armonia all’ambiente, mentre da bordo strada le terrazze di sconfinati appezzamenti di canapa indiana, ormai prossima alla mietitura, si perdono all’orizzonte. Nella ribattezzata Kif Republic la legge ne autorizza la coltivazione, ma non il commercio.
Dopo il colorito villaggio di Bab Taza, oltre la valle ci appare la splendida visione di Chefchaouen, città arroccata sulla parete orientale del monte Tisuka (2170 m). È ormai il tramonto quando seguiamo la ripidissima strada che dal centro conduce sopra la città, al Camping Azilan (5 euro), di fronte al grande Asmaa Hotel. Un campeggio tra il verde della montagna, frequentato prevalentemente da europei: qualche autocaravan, camper, furgoni adattati, ma nessun italiano. Qui si respira ancora l’atmosfera spartana degli anni ’70: giovani che dormono all’aperto sul tetto del mezzo e altri che praticano yoga per ore. È anche la base della Nomadic Expedition, rustici truck che attraversano il Sahara carichi di giovani viaggiatori, perlopiù anglosassoni. Al ristorante ceniamo con un ricco cous-cous, insaporito dal ras el hanout (una miscela di 27 spezie), e un’ottima tagina di manzo, un piatto molto nutriente cucinato e servito dentro a un tegamino di terracotta. Il mattino seguente, l’affollato dedalo di vicoli dai muri azzurrini della kasbah e l’imponenza del forte-museo in terriccio rosso, felice esempio d’arte ispano-moresca, ci cala finalmente in un’atmosfera fiabesca tipicamente araba. In questo storico caravanserraglio del XVI sec., ex roccaforte di rivoluzionari e contrabbandieri, fino agli anni ’20 l’accesso agli stranieri era severamente proibito.
Lasciamo questo incantevole regno dell’armonia con la promessa di ritornare e seguiamo la strada panoramica che dolcemente scende a Tetouan, dove ci sistemiamo nel parcheggio custodito sotto le vecchie mura della città. Il profumo di antico che respiriamo nella medina e il biancore lunare delle sue case, ci riportano al covo di pirati e al rifugio di Mori ed Ebrei scacciati dalla Spagna: è come un salto indietro di secoli, tra bettole con capretti squartati in vetrina, concerie di pelli, laboratori artigianali e botteghe d’altri tempi, in una realtà dominata dai colori sgargianti tipici della regione. Una breve sosta a Tangeri per un ultimo immancabile tè alla menta, seduti tra placidi uomini dagli sguardi rivolti verso il nulla, e poi la bella costa affollata di bagnanti fino a Ceuta, l’altra enclave spagnola in suolo africano, più frenetica di Melilla e trafficato “ponte” per l’Europa.