Grazie alla convivenza di diverse culture, in Malaysia si celebra sempre qualche festa a sfondo religioso o sociale. Gli eventi sono in maggior parte regolati dal calendario lunare, come vuole la tradizione orientale, dal Ramadan e Capodanno cinese all’altrettanto celebre festa induista del Thaipusam, durante la quale i devoti fissano al proprio corpo pesanti intelaiature metalliche usando spiedi e uncini. L’aspetto più cruento di questa celebrazione è proibito persino in India, sua terra d’origine, ed è significativo che Kuala Lumpur, capitale di uno stato islamico, le dia piena espressione a conferma di un alto senso di tolleranza interculturale.
Prova ne è che proprio nel cuore di Chinatown risiede il principale tempio induista, Sri Maha Mariamman Temple, punto di partenza della processione del Thaipusam, facile da individuare per le divinità scolpite all’ingresso e il variopinto raja gopuram, l’elaborata piramide di sei piani che si erge al 163 di Jalan Tun HS Lee, parallela della nota Jalan Petaling. All’esterno vedrete un gran via vai di credenti, bancarelle con ghirlande di fiori gialli e la scarpiera, dove occorre depositare le proprie calzature prima di entrare. Eretto nel 1873 per volere della famiglia Pillai, nel luogo in cui oggi sorge la stazione centrale, il santuario fu trasferito dodici anni dopo nell’attuale ubicazione, aperto al pubblico alla fine degli anni venti e consacrato nel 1973. È il più antico del paese e occupa un posto di rilievo nella vita religiosa degli Indù malesi. Dedicato alla divinità Mariamman dagli immigrati del Tamil Nadu (Terra dei Tamil, nell’estremo sud-est dell’India), per chiedere protezione da malattie e infortuni, la pianta del tempio ha la forma di un enorme corpo umano coricato sulla schiena e il gopuram corrisponde ai piedi, che simboleggiano la soglia fra il mondo materiale e quello spirituale. Una significativa rielaborazione estetica alla torre piramidale, alta 22.9 metri, fu apportata nel 1968, quando alcuni architetti dell’India meridionale arricchirono le sue pareti con altri 228 idoli, decorazioni in oro, pietre preziose e bellissime tegole importate appositamente dall’Italia e dalla Spagna.
Superato il gateway della torre, si entra in un grande cortile che cinge la struttura in marmo eretta a protezione del sacro garbagraham, la piccola casa verde corrispondente alla testa, residenza del divino Maha Mariamman. È il fulcro del santuario, dove i ministri di culto e i musici, con tabla (tamburo), saraswati (sitar del sud India) e ottu (flauto), accompagnano i fedeli nell’orazione del puja (rosario Indù). La statua di Ganesh, a protezione dagli influssi maligni, è posta all’ingresso del garbagraham e nella mensa sacra di sinistra, mentre a destra risiede suo fratello Subramaniam. Le otto figure femminili sparse per il tempio sono di Lakshmi, la dea della ricchezza venerata dalla comunità originaria dell’India settentrionale. Qui è custodito pure il famoso cocchio, costruito in India con 350 chili d’argento, trainato per le vie della città fino alle grotte di Batu durante l’annuale festa di Thaipusam. L’ingresso è libero dalle 6 alle 21, tuttavia è d’uso comune versare un piccolo obolo.
Thaipusam festival
L’avvenimento più spettacolare del calendario Indù malese, che per la crudezza dei riti è stato proibito persino in India, sua terra d’origine, è certamente il Thaipusam festival che si svolge in tre giorni all’insegna del martirio mistico in onore del dio Muruga, comunemente noto come Subramaniam, celebrato alle Batu Caves (descritte nel prossimo articolo) nel mese Tamil del Thai, che coincide con l’ultima decade di gennaio o la prima di febbraio, quando con la luna piena appare la costellazione di Pusam. Secondo la credenza popolare, la nascita del Thaipusam è legata al vel (“lancia”) della dea Parvathi, grazie al quale suo figlio Muruga uccise tre feroci demoni.
La processione dei pellegrini ha inizio alle due di notte, col pesante cocchio d’argento lentamente trainato dal tempio di Sri Maha Mariamman (Chinatown) alle sacre grotte, distanti 13 km, con l’arrivo previsto nel primo pomeriggio. L’immagine del divino, addobbata di pietre dure, diademi, ghirlande e gioielli, è posta sul prezioso carro tirato da giovenche, seguito da circa un milione di persone, tra fedeli e spettatori. I devoti, molti dei quali provengono da 40 giorni di preghiera e ferree privazioni, come dormire al suolo ed astenersi da rapporti sessuali, ora invocano la grazia gridando vel-vel accompagnati da un pressante rullio di tamburi. Lungo la via, dominata dai colori giallo e vermiglio, sono decine di migliaia i penitenti che sfilano coi kavadi (“fardelli” in lingua Tamil), trafitti da lame, ganci, aghi, ami e fantasiosi body piercing, in un impressionante corteo di mortificazioni corporali che ha reso celebre il Thaipusam festival di Kuala Lumpur nel mondo. Una surreale passerella d’occhi strabuzzati in evidente stato di trance, volti alterati da lunghi spiedi e tridenti che forano guance, lingua, labbra e corpi deformati dall’acciaio, che penetra senza fare uscire una goccia di sangue, in una cornice di grandi sofferenze purificatrici offerte alle divinità in cambio di grazie.
I doni più semplici consistono nel paal kudam, un pentolino di latte sulla testa, a volte arpionato alla pelle tramite una catenella, soluzione preferita da donne e bambini, sandali col plantare di aculei, uncini che sorreggono decine di frutti freschi, in particolare aranci e lime, mini urne argentate, vasetti di miele, campanelli dai colori sgargianti e infinite altre forme incruenti di voto sacrificale. Il più spettacolare, invece, è rappresentato dalla pesante intelaiatura metallica a gabbia detta vel kavadi, un altare itinerante di circa due metri d’altezza poggiato su testa, spalle e cintura, ornato di piume di pavone e fissato al corpo da 108 [1] uncini o ganci che lacerano le carni del portatore. Il quale, ogni tanto si arresta e comincia a danzare. Acqua benedetta viene spruzzata sulla folla e noci di cocco, a disposizione di tutti, sono scagliate e rotte sull’asfalto in segno di disprezzo verso malvagità e vergogne. Con l’avvicinarsi alle grotte, lo stato di trance mistico dei portatori si acutizza, con canti privi di senso e danze smodate, dominate da torsioni e piroette (e qualche svenimento), che gettano nello sconcerto osservatori e turisti. Al fiume, distante ormai due chilometri dalle grotte, i devoti fanno le pulizie di rito prima di salire i 272 ripidi scalini del tempio in preghiera.
Per trovare una postazione decente è consigliabile appostarsi in loco già prima dell’alba. Non lesinate schede digitali per le foto. Vale la pena di unirsi alla processione ed entrare in grotta per assistere all’aspetto forse più interessante della festa: i sacerdoti che “tolgono” lo stato di trance a pellegrini visibilmente esausti e sfilano lame e uncini da corpi apparentemente deturpati. Una cenere bianca viene passata sulle ferite, che subito cessano di sanguinare, per rimarginare poi senza lasciare cicatrici, ed anche il dolore svanisce. Al termine dei rituali liturgici, tra forti odori di incenso e canfora, i fedeli sputano latte per ingraziarsi Subramaniam, ma anche Ganesh e Rama. La prima ondata di devoti sale la scalinata in prima mattinata, gira all’interno del Temple Cave e fa il percorso inverso per un totale di quasi 30 chilometri: alle 9 del terzo giorno il cocchio rientra nella sua sede ufficiale di Chinatown, ma la festa prosegue fino a sera. Durante il Thaipusam i bus cittadini fanno servizio 24 ore e tutto è ben organizzato per i visitatori. Per contro, è bene prenotare l’alloggio con largo anticipo e le donne dovrebbero evitare vestiti troppo attillati e scollati.
Questa festa è celebrata, in forma meno solenne, anche in altre città con un’importante presenza indiana, come Ipoh (Siva Subramaniam Temple), Penang (Nattukottai Chettiar Temple), Johor Bahru (Sri Thandayuthabani Temple) e Singapore (Sri Srinivasa Perumal Temple).
[1] 108, numero fortunato per Indù e Buddisti.