Il Vittoria è decisamente un hotel fatiscente e triste per cui la priorità immediata di questo primo giorno a Mogadiscio è quella di cercare un alloggio che sia modesto ma decoroso e posizionato nella stessa zona centrale in cui siamo ora, la più gradevole e funzionale ai nostri movimenti. Accanto c’è l’Arta ma è troppo simile al Vittoria. A pochi passi troviamo il Darsn, perfetto per le nostre esigenze e superiore alle aspettative: bello, pulito con bagno in camera e balcone per 4 dollari, il migliore in fascia economica. Unico neo, le camere mancano di ventilatore.
Siamo vicini alla linea dell’Equatore dove il sole sorge ogni giorno alle 6 e tramonta alle 18. In questa stagione, alle 9 fa già molto caldo e si comincia a sudare. Iniziamo coi primi passi esplorativi della città che ci appare subito tranquilla, senza traffico, con poca gente per le strade e priva di smog: un’armonica e bella capitale assolata e splendente. Entriamo per un cappuccino al grande “Caffè Nazionale” e restiamo subito affascinati dall’atmosfera di casa nostra in epoca coloniale e ancora intatta. Siamo piacevolmente sorpresi anche dalla simpatia dei baristi e dei camerieri che scherzano in un italiano a volte buffo, usando termini in voga ai tempi della monarchia, e dalla presenza di alcuni connazionali residenti, personaggi curiosi pronti a fare conoscenza e, con tono suadente e complice, a spiegarti ogni cosa. Ognuno con un vissuto ricco di complicati aneddoti e colpi di scena legati alla storia di questo paese. Il più folk di tutti è Sergio di Forlì: “Mè a stag bein kè, le quendez ann ka sun kè e an fagh gninta, a fagh sol al zugador e al putaner (Io ci sto bene qui, sono qui da 15 anni e non faccio niente, faccio solo il giocatore e il puttaniere)”.
Aldilà delle posizioni politiche e dei vari estremismi, si percepisce che somali e italiani stanno bene assieme e Sergio ce ne dà conferma: “Quando ci incontriamo all’estero siamo come fratelli, ci aiutiamo a vicenda”. Ed è vero, a noi è successa la stessa cosa nello Yemen. Mentre conversiamo osservo che ogni particolare in questo locale riproduce i nostri bar in Italia e tutto qui ci è familiare, dalle macchine del caffè espresso ed i telefoni a gettoni, ai giornali, i manifesti dei film al cinema, le insegne, le scritte e infiniti altri dettagli. Si sta bene, bella atmosfera, gente vivace!
Il nucleo storico della città coloniale si colloca attorno all’incrocio centrale di Corso Somalia (ex Corso Vittorio Emanuele III) e Corso Primo Luglio (ex Viale Regina Elena), in un’area percorribile comodamente a piedi. A pochi passi si innalzano le due torri della Cattedrale cattolica eretta nel 1923 in stile arabo-normanno, copia di quella costruita a Cefalù e fondamentale punto di riferimento della comunità italiana. Di fronte, l’elegante palazzo dell’ex governatore, con a destra l’Albergo Croce del Sud ed oltre la strada a sinistra il cinema Hamar e il Caffè Nazionale, collocati davanti alla moschea imbiancata a calce di Arbah Rukun risalente al 1269. Alle sue spalle, circondato da aiuole verdi e panchine in pietra, troviamo l’arco Umberto di Savoia, datato 1928 ed alto 14 metri, mentre poco oltre, sulla rada del vecchio porto si erge l’altrettanto scenografico faro a pianta ottagonale del 1912, simbolo del quartiere indigeno di Shingani. Affacciati sull’oceano, gli edifici dipinti di bianco e rosa riflettono un’architettura riconducibile alla riviera ligure e al meridione del nostro paese.
Entriamo a curiosare al Cappuccetto Nero, un ristorante che è anche pizzeria, rosticceria, pasticceria ed il suo bar è considerato uno dei luoghi di raduno preferiti da ogni genere di espatriato italiano. Stanno commentando la fucilazione di due somali avvenuta questa mattina alle 6: uno per aver rubato l’equivalente in scellini di 800 mila lire e l’altro per aver ucciso la propria moglie. Le esecuzioni a Mogadiscio sembra siano all’ordine del giorno. Tra i presenti, la figura più incline a soddisfare la nostra curiosità è il bolognese di nome Giuseppe, un simpatico faccendiere 67enne che vive qui da 50 anni: “Se volete, nella caserma vicino al porto si può assistere alle fucilazioni”. E precisa: “La politica somala è giusta. Fate attenzione, evitate sempre di parlare di politica, ci sono parecchi agenti in borghese in giro e sono molto severi è un servizio di sicurezza nazionale molto efficiente, creato sul modello del KGB sovietico”.
Giuseppe ha una vera venerazione per il presidente Siad Barre, che definisce un tiranno illuminato: “È un uomo in gamba che ama l’Italia e gli italiani. Senza alcuna istruzione scolastica, a Firenze è riuscito a diventare sottotenente dei carabinieri e oggi parla correttamente italiano, inglese e arabo. Ha subito istaurato nel Paese un sistema gratuito di istruzione scolastica e di cure mediche”. Gli chiediamo come abbia fatto da autodidatta a diventare il capo della Somalia e Giuseppe sente il dovere di partire dalle origini: “Con l’indipendenza della Somalia nel 1960, Siad Barre fa carriera nell’esercito e abbraccia gli ideali del marxismo. Dopo l’assassinio del precedente presidente e il rischio di guerra civile, con un colpo di stato nel 1969 prende il potere e promuove il socialismo a favore della laicità dello Stato, decretando l’uguaglianza di uomini e donne in una società arcaica e maschilista”. Dopo un lungo sospiro Giuseppe replica: “Non vuole intrusioni di clericali e sono frequenti le esecuzioni di coloro che si oppongono al regime”.
Nel bar, luogo ritenuto sicuro e di libero pensiero, oltre a noi e Giuseppe, è rimasto solo Bruno e il barista somalo che con fermezza esprime una punta di dissenso: “Giuseppe ha ragione ma dopo dieci anni di regime le cose purtroppo anche qui stanno cambiando. Con la guerra dell’Ogaden i membri del governo in poco tempo sono diventati tutti ricchi, ora girano su grosse macchine e hanno grandi ville. È evidente che c’è chi ha interesse che la guerra continui, considerata un big business. Ma per la gente comune è un cattivo esempio e inizia ad esprimere un certo malcontento. Mogadiscio è come un grosso paese di provincia e questa improvvisa ricchezza di pochi, in mezzo a tanta miseria e in nome di un marxismo flessibile ed aperto, comincia a generare dubbi da più parti”. La discussione si accende assumendo dei toni appassionati a cui per noi, essendo appena arrivati, è utile assistere.
La conversazione continua sul periodo in cui c’erano i russi poiché Giuseppe che si ritiene un grande giocatore di scacchi, giocava con loro e spesso vinceva: “Se ne sono andati due anni fa, quando Siad Barre ha iniziato la guerra per la riconquista dell’Ogaden, la terra di suo padre e delle sue origini”. E aggiunge un particolare degno di nota: “I russi in borghese che arrivavano in Somalia parlavano perfettamente l’italiano, alcuni addirittura i dialetti regionali ed altri con stretto accento da scugnizzo napoletano, tutti agenti infiltrati tra la gente comune che operano per il KGB in Italia”. E termina con un velo di rimpianto: “Erano sempre in disparte, non legavano con i locali e qui non erano per niente amati. Alcuni di loro sono stati uccisi da anonimi somali per motivi politici ma per me erano bravi ragazzi. In Somalia si sono comportati bene, mentre in Etiopia hanno dato loro carta bianca tanto da spingerli a compiere soprusi atroci”. Salutiamo, grati per quelle opinioni che si apprendono solo vivendo sul posto. L’impressione è che Giuseppe, Bruno e tutti gli altri soffrano il “mal d’Africa” e se tornassero in Italia sono certo che morirebbero di noia.
Facciamo l’autostop per un sopraluogo al pluri citato Lido, distante 2 km dal centro, verso Est. Ci carica Jamal, un rappresentante di piastrelle in ceramica che solo due giorni prima alloggiava all’hotel Canalgrande di Modena, il quale ci riferisce che in Italia c’è ancora freddo e nel Nord sta nevicando. Confessa di esportare illecitamente collane, bracciali ed altri oggetti in avorio acquistati per poca spesa all’emporio statale. Nel salutare ci raccomanda di fare attenzione con le donne, per la nuova legge: “Si può ballare e mangiare al ristorante con loro ma è proibito andarci in giro assieme, anche tra somali. Se una coppia convive senza essere sposata, in casa sta insieme ma all’esterno deve muoversi in modo individuale”.
Eccoci al Lido, la zona balneare della città. Non si vedono italiani per le vie del centro perché son tutti qui sulla spiaggia a giocare a pallone coi somali. Si tratta soprattutto di insegnanti dell’università, assieme ad impiegati di grosse ditte e qualche residente ma nessuno ha il visto turistico come il nostro. Ci spiegano che gli unici visitatori presenti in Somalia, a parte noi, sono quelli che manda il P.C.I. (Partito Comunista Italiano). Seduti sulla terrazza del Circolo Italiano, dove c’è il tratto di spiaggia più bello e pulito, ci servono spaghetti alla bolognese, pesce fritto e papaia. Interessante notare che diversi piatti del menù rivelano una cucina tradizionale somala fortemente influenzata sia dalla speziata gastronomia araba che dalla raffinata gastronomia italiana.
Con noi al tavolo si siede Fabio di Pistoia che da sette mesi lavora alla facoltà di geologia il quale, assieme ad un nutrito plotone di 150 giovani professori, fa formazione professionale agli insegnanti somali. Gli argomenti girano attorno all’universo femminile che a Mogadiscio, nonostante la religione musulmana e la pratica tribale dell’infibulazione, è sorprendentemente disinvolto e particolarmente vitale. Ma ci consiglia di usare cautela: “Tutte le sere i somali bevono parecchio e dovunque, anche al Lido, finiscono per fare a cazzotti quasi sempre perché gelosi delle loro donne. Quando bevono diventano molto litigiosi. Se vedono un bianco seduto con una somala, dopo un certo numero di bicchieri si possono irritare e diventare aggressivi. Più che la legge, sono gli uomini che non vogliono vedere le loro donne assieme ad un cosiddetto ‘gal’, termine dispregiativo che equivale a ‘negro’, per una sorta di razzismo verso i bianchi. Quando avviene è facile che insultino le donne fino alla rissa, poiché queste rispondono a tono. Per la legge credo che fino a mezzanotte si possa uscire assieme. Molti miei colleghi hanno una relazione fissa con donne somale ma, per evitare problemi, escono sempre separati”.
Alla conversazione si uniscono anche due operai che precisano un particolare importante: “Siamo stati a lavorare in Algeria, Libia e Nigeria ma per ciò che riguarda la gente qui al confronto è un paradiso”. Quando ci alziamo per salutarci, Fabio ci autorizza ad usare gli spogliatoi della università essendo gli unici gratuiti. Prima di andarcene ci rendiamo conto che nel frattempo abbiamo bevuto ben dodici spremute di pompelmo in tre.
Intorno a noi sulla spiaggia è impossibile non notare l’abbondanza di glutei femminili, prosperosi, sporgenti e sodi, tanto da sembrare tanti balconcini che danzano. Due signore sulla spiaggia tengono in un cesto cinque belle cernie grosse che vendono per 15 scellini l’una, mentre un pollo intero in città ne costa 30. Penso subito ad un mare talmente pescoso che il pesce perde di valore. Le vere ragioni sono invece altre e le trovo grazie al signor Abdullahi Shurie, il quale cita un altro viaggiatore stupito nel costatare che in Somalia un’aragosta costi meno di un rotolo di carta igienica: “Pur avendo una costa lunghissima e straripante di fauna marina, la maggior parte della gente disdegna, non conosce o addirittura si schifa dei pesci, per non parlare dei crostacei, molluschi e affini. In tutto il Paese vi sono pochissimi mercati ittici. A Mogadiscio ce n’è solo uno, antico e fatiscente dove il pesce viene fatto a pezzi e venduto in poche ore. Non vi sono celle frigorifere e tutto il pescato deve essere consumato in giornata. Niente, la maggior parte dei somali non mangia pesce. Poche donne sanno cucinarne alcuni tipi ma l’aragosta mai, dicono… che schifo!”. In pratica ci dice che la pesca non fa parte della cultura del Paese.
Il sole è ancora forte e abbronza all’istante ma si fa il bagno solo fino alle 15, poi inizia l’alta marea con gli squali affamati e in agguato che si avvicinano a riva. La regola che tutti rispettano: “Bassa marea uguale squali a riva, mare mosso uguale squali via dalla riva”. I racconti degli attacchi sono talmente tanti che non ce la sentiamo di rischiare anche se il mare oggi è torbido e mosso. Veniamo a conoscenza che la tecnica dei pescatori da fondale è di immergersi sempre in tre, due pescano e il terzo fa la guardia ai pescicani. Per i lavoratori italiani della ditta Pessina incontrati ad Hargheisa, tra i luoghi che meritano di essere visti a Mogadiscio c’era proprio il mattatoio, dove ogni giorno alle 15 buttano gli avanzi di carne in mare e molti squali arrivano fino a riva per mangiare, esortandoci però a fare attenzione perché qualche tempo prima un ragazzo di Roma ha perso una gamba, divorata da un pescecane. Il mattatoio dal Lido dista solo un chilometro ma tutti si raccomandano di non andare a piedi perché è una zona pericolosa, dov’è facile trovarsi un coltello alla gola. Qualcuno ricorda che in quel tratto hanno violentato una donna bianca.
I taxi sono perlopiù scassate Fiat 124 di colore giallo col tetto rosso, ne cerchiamo uno per andare a curiosare alla Casa d’Italia, edificio che si trova alle spalle della Cattedrale. Dopo la doverosa contrattazione saliamo con un simpatico ed estroverso driver che, giunti a destinazione, spegne il motore e si gira comodo verso di noi per raccontarsi. Rivela di essere un killer di professione e per diecimila dollari uccide su commissione. Aggiunge che qui tutti rubano e ci sono molte persone che pensano solo a come rapinare la gente, specie i bianchi. Con fare paterno ci avverte di stare attenti ad andare troppo in giro, insomma, ci stiamo facendo “un killer per amico”. Un altro pazzoide! Molti avvertono che siamo digiuni di tutto e fanno a gara nel tentare di terrorizzarci, eppure noi non percepiamo Mogadiscio come un luogo pericoloso, tutt’altro! Le informazioni ci appaiono spesso contrastanti ed esagerate ma da tenere comunque in giusta considerazione.
La Casa d’Italia, accanto all’hotel Scebeli, rappresenta un polo di raduno importante per gli italiani presenti in Somalia, molto frequentato da famiglie di connazionali residenti e da un nugolo di chiassosi bambini. Dai volantini affissi, leggiamo dell’organizzazione di un safari in Kenya e dell’ospedale gestito dalle suore missionarie della Consolata, ma ciò che ci colpisce maggiormente è la breve nota storica sull’eccidio di italiani avvenuto a Mogadiscio in data 11 gennaio 1948.
Chiedo spiegazione al primo signore che passa e questo, dopo averci squadrati da capo a piedi e chiesto chi siamo, cosa facciamo e dove andiamo, fa segno di accomodarci nelle poltroncine di lato per raccontarci con la dovuta calma: “Era di domenica, trent’anni fa... con la sconfitta dell’Italia nella Seconda guerra mondiale, la gestione provvisoria della Somalia fu assegnata alla Gran Bretagna. Le Nazioni Unite dovevano però stabilire a chi affidare il compito di preparare la Somalia all’indipendenza, in una contesa tra inglesi e italiani. Agli inglesi non piacque la manifestazione organizzata quella domenica, atta a dimostrare che gli italiani avevano mantenuto buoni rapporti con la popolazione per cui fecero infiltrare gruppi della Lega dei Giovani Somali fatti appositamente arrivare dal Somaliland britannico per creare quella carneficina che costò 54 civili italiani e 14 somali, barbaramente uccisi nelle vie del centro.
Circa 800 italiani riuscirono a salvarsi chiudendosi all’interno dalla cattedrale. Dopo anni, a seguito di un lungo processo, il governo di Londra ammise la responsabilità dell’eccidio”. Il signore conclude dicendo: “Su richiesta dello stesso popolo somalo, l’ONU affidò l’amministrazione fiduciaria della Somalia all’Italia, unico caso nella storia in cui si assegna la gestione di una ex colonia ad una nazione che ha comunque perso la guerra”. Una tragica pagina ancora ben viva nella memoria della gente di Mogadiscio, con tantissimi testimoni di quel giorno, tuttora presenti.
Poco dopo entriamo nel salone ristorante del circolo, dove risalta la figura del pizzaiolo somalo col cappello da chef e qui ordino una pizza. Non è granché nonostante sia stata cotta in un forno a legna, sono molto meglio i cannelloni al forno ed il filetto ai ferri scelti da Aldo. A Mogadiscio si mangia benissimo!
Fuori, nei campi del circolo, stanno giocando a tennis mentre nella sala coi due biliardi si gioca a boccette, alla goriziana. Qui incontriamo di nuovo il prof. geologo Fabio che ci intrattiene sulla differenza razziale, un argomento stimolato dal luogo: “Qui ci sono adulti e bambini meticci, ovvero figli dell’unione tra il colonizzatore bianco e la donna somala. Sia per la realtà italiana che per quella somala, il colore della pelle degli italo-somali rappresenta un elemento di disturbo, un fattore discriminante che confina la figura del meticcio nella diversità e toglie la purezza alle due razze, come un ibrido”. Per l’opinione comune dei somali il meticcio rimane sempre un “wacal”, ossia bastardo.