Da sempre desideravo visitare la costa nord del Mar Nero ed i Paesi Caucasici, un’area abitata da popolazioni con radici antichissime quanto bellicose, ed è ancora il mio fedele Granduca 49, montato su Talento 1900D, a darmi la possibilità di soddisfare quest’altra fantasia esplorativa, altrimenti impensabile con tre bambini al seguito: Clelia di 8 anni (celiaca, allergica al glutine), Fabio di 6 e il piccolo Giorgio di appena cinque mesi (alla partenza). Determinate per la riuscita dell’impresa la presenza di Rosy, la mia infaticabile mogliettina, che quest’anno dovrà badare più al neonato che al volante.
In primavera ci siamo informati sui rischi e siamo partiti nonostante i numerosi avvertimenti su quei territori caratterizzati da eserciti in fermento, strade scassate su passi altissimi, miseria e corruzione diffusa. Le informazioni sui pericoli lungo tutto il percorso saranno perennemente contrastanti, spesso dettate da paure e pregiudizi personali più che da una serena valutazione oggettiva. Alla fine tutto è andato come previsto, con tanti intoppi ma anche tante piacevoli sorprese: questo percorso ad ostacoli, tra guerra e pace, ha il merito di donare al visitatore un antico sapore d’avventura, di vedere luoghi d’incontaminata bellezza e di conoscere gente con un senso di ospitalità raro.
I segni della guerra nella città croata di Slavonsky Brod e ancor più nella vicina BOSNIA-ERZEGOVINA, sembrano presagire la tipologia del nostro percorso. Entriamo in SERBIA dallo sperduto valico di Batina, prevenuti per i taglieggiamenti denunciati da altri camperisti, ma passiamo senza particolari problemi. Subito dopo Subotica però, la polizia ci ferma col chiaro intento di creare problemi per estorcere denaro, il mio rifiuto è categorico e dopo mezzora di ‘lotta psicologica’ ci restituiscono i passaporti e ci lasciano andare. Nell’incantevole Szeged, la città universitaria nel sud-est dell’UNGHERIA, sostiamo tre giorni parcheggiati sotto la torre medioevale di S. Demetrius, che contraddistingue l’elegante centro cittadino. Il mondo cambia radicalmente con l’ingresso in ROMANIA, per il degrado e la povertà visibili ad occhio nudo ed anche per il carattere particolarmente estroverso della gente. La sera del 14 per un paio di euro ci sistemiamo nel parcheggio dell’Hotel Cantemir, nel pieno centro di Husi, pronti per il grande balzo. Il viaggio, quello vero, per noi inizierà domani in MOLDAVIA, considerata la prima vera incognita del percorso, un “muro tenebroso” che vorremmo attraversare nell’arco di una giornata. Alle 6.20 passiamo il ponte sul fiume Prut, che delimita il confine moldavo di Albita; il militare al cancello chiede all'istante: “preferite darmi 5 US$ e andare in dogana subito, oppure aspettare qui in eterno”. Entriamo alle 7: bisogna passare per 5 uffici, tempi lunghi, però nessuna molestia particolare. Per la tassa ecologica mi chiedono 35 dollari, ma dopo una macchinosa trattativa il capo approva lo sconto a 15. Dalla mia, un piccolo espediente artigianale: un foglio stampato col PC di casa con su scritto a caratteri cubitali PRESS – ITALIAN EMBASSY – Emergency call, coi numeri telefonici delle varie sedi diplomatiche della regione a seguire, un paio di timbri qualsiasi, inserito poi dentro ad una busta di plastica e messo in bell’evidenza sul cruscotto. Orbene funziona, con qualche eccezione. Le guardie sono cordiali e ci danno un’informazione utilissima: non devo aggirare la Transnistria da sud, come raccomandatisi a viva voce da più parti (console moldavo a Roma, Unità di Crisi della Farnesina, Ambasciata italiana a Bucarest) definendola “terra di nessuno”, ma posso tranquillamente attraversare la repubblica ribelle seguendo la strada principale per Odessa.
Alle 9 lasciamo la dogana e dopo appena un chilometro ecco il primo posto di blocco, mi chiedono i documenti, ma subito gli mostro il “salvacondotto” aggiungendo “Diplomat”, e mi fanno passare senza neppure spegnere il motore. Ancora un chilometro e abbiamo il bis, l’ufficiale è tentato di chiedere qualcosa ma la “carta” lo frena. La strada, deserta e in buone condizioni, taglia la foresta della Bessarabia centrale in un lieve saliscendi fino alla capitale Chisinau, una città tutt’altro che attraente, dominata da palazzi anonimi, chiaro retaggio del socialismo reale. I posti di blocco si susseguono regolari, ma riusciamo a passare indenni. A volte fingo di non vederli e tiro dritto, tanto non è una cosa seria e poi spesso sono a piedi, non potrebbero neppure inseguirci. La richiesta di ammende o quant’altro senza ricevuta da parte della polizia è forse l’unica “nota di colore” per il turista in transito, una realtà estremamente dispersiva (tempo e denaro) con la quale si è costretti a convivere: in 220km ci hanno fermato 17 volte. Prima del previsto troviamo le guardie russe di confine sistemate alle porte della città di Taghina. Alla dogana paghiamo un dollaro di transito con regolare ricevuta e proseguiamo senza alcun intoppo. I cartelli ci avvisano che siamo entrati nella Repubblica indipendente di TRANSNISTRIA: la striscia di terra compresa tra il fiume Nistr e l’Ukraina, abitata prevalentemente da ucraini e russi. Il progetto moldavo di integrarsi alla Romania portò alla guerra civile del ‘91-’92 e all’arrivo della XIV Armata russa, tuttora presente, a salvaguardia delle proprie matrici e tradizioni culturali. In breve siamo nella trafficata Tiraspol, la capitale di questo singolare paese. La gente è molto discreta, passeggia tranquillamente per fare compere e nessuno mostra una qualsiasi morbosa attenzione nei nostri confronti. In UKRAINA ci si può finalmente rilassare: l’assillo dei posti di blocco a scopo di lucro è terminato. Alle 20 percorriamo il bellissimo tunnel alberato di viale Pushkinskaya, che conduce direttamente al parcheggio situato alle spalle del Teatro dell’Opera, di fronte alla “rambla” del Musical Comedy e a due passi dalla scalinata del leggendario film “La corazzata Potemkin” (Potionsky), nel pieno centro turistico di Odessa. Il parcheggio (ul. Ciaikovskogo, angolo Primorsky) costa l’equivalente di 1.60 euro ogni 24 ore, c’è l’acqua e le guardie sono molto disponibili ed affidabili. Diversamente, il Camping Delfin lo trovate in ul. Kotovsky 307, a 200 metri dal mare. Per noi Odessa è stata una vera rivelazione: ci siamo innamorati di questa stupenda città e della sua gente, tanto da sostarvi per ben 9 giorni, passati serenamente tra spettacoli e matrimoni in piazza, musei, spiagge, mercatini, shopping e mille altre piacevoli distrazioni. Impossibile non notare le schiere interminabili di ragazze filiformi e bellissime.
Il 23 lasciamo Odessa alle 15.30 e la sera dormiamo nel parcheggio “blindato” (0.80 euro) di fronte all’Hotel I-Ngul di Nikolaiev. Alle 5.30 del mattino seguente partiamo decisi a raggiungere Yalta in giornata. Verso mezzogiorno superiamo il posto di confine sull’istmo di Perekop ed entriamo nella Repubblica Autonoma di CRIMEA, antichissima terra di conquista da oriente ed occidente. Dalla capitale Simferopol si sale bruscamente sul panoramico Krim Kiory, la catena montuosa affacciata sul mare a sud-est della penisola, che protegge il litorale dai venti gelidi del nord favorendo un clima mite ad ogni stagione ed un intenso turismo balneare, di matrice prevalentemente russa. Scendiamo a Yalta verso l’imbrunire e com’è nostra abitudine puntiamo dritto verso il centro per posizionarci in un altro punto strategico, comodo a tutto: il tranquillo piazzale custodito del Kactus Club, in ul. Rusvelta (3 euro al dì) alle spalle del porticciolo. La città è distribuita tra situazioni ed atmosfere diverse, tutte assai vivaci ma non chiassose: un mondo vacanziero simile a quello delle nostre coste, però esclusivamente “cirillico”. I turisti del “blocco occidentale” qui sono una rarità. Se dal camper andiamo verso destra, a pochi metri troviamo l’affollato passaggio pedonale affacciato sulle spiagge di ghiaia, mentre andando a sinistra subito ci sono negozi, mercati ed il luna park sul lungo mare con un gran passeggio a tutte le ore. La sera, si beve e si balla fino all’alba con tanta musica dovunque. Intanto i nostri bimbi, col passare dei giorni, cominciano ad avere una brillantezza negli occhi ed un’armoniosa disinvoltura nei movimenti per noi appagante. D’origine bizantina, Yalta fu occupata dai genovesi nel XIV sec.; l’esempio più fulgido del loro dominio è testimoniato dalla grande fortezza di Sudak, una cinta muraria di 14 torri a picco sul mare. Da non perdere in città, la casa-museo di Cekov, la cattedrale di Nevsky. ed il palazzo zarista di Livadia (1911), celebre per la conferenza del 1945, tra Stalin, Roosvelt e Churchill, che definì il futuro assetto politico dell’Europa.
Dopo 3 giorni di spensierata permanenza, all’alba del 27 lasciamo Yalta diretti a sud, lungo la litoranea disseminata di autentici gioielli. Tra questi, il monumento architettonico del palazzo-museo di Alupka, il fiabesco minicastello “Nido di Rondine” (Lastockino gnezdo), uno dei simboli della Crimea, e la chiesa della Resurrezione (1892) eretta sopra un dirupo di granito, raggiungibile in 3km di ripida salita. Da Sebastopol, seguendo la nazionale M26 si giunge presto a Bakchysarai, sede del palazzo residenziale dei Khan durante il dominio tartaro. Ad est, l’abitato è dominato dalla fortezza medioevale di Chufut-Kale, la città sotterranea scavata su una parete alta 560 metri. L’ingresso a Kerch è sorprendente, con condomini simili a torri yemenite e vaste aree della città apparentemente disabitate. Ci allunghiamo di pochi chilometri per vedere il gigantesco monumento costruito all’ingresso delle gallerie sotterranee di Adjimushkay, secolare rifugio delle popolazioni locali durante tutte le guerre, finché nel 1942 i nazisti pomparono al suo interno tonnellate di gas tossico causando migliaia di vittime. A Port Krim, nell’estrema punta orientale della penisola, i traghetti per la RUSSIA partono anche di notte, ma noi preferiamo dormire nel piazzale accanto alla dogana, provvisto di tre bar-ristorante ed un negozio duty free. Il passaggio ci costa l’equivalente di 62 euro (ben 54 per il mezzo), un’enormità se paragonato ai 25 minuti di traversata. L’indomani ci mettiamo in fila alle 8.30, ma lo sbarco nel scenico “lager” di Kavkaz, un mortificante recinto militare chiuso da muri altissimi, reticolati, torrette e fari, avverrà solo 3 ore dopo. Pago i 1180 rubli (35 euro) per l’assicurazione stradale obbligatoria, seguendo una trafila faticosa poiché qui si parla solo russo, a parte “italiano mafia, cAsa nostra”, che a volte condisco con: “spaghetti, maccheroni, pizza, lasagne”. Sono le 14, abbiamo impiegato 5 ore e mezzo. Il manto stradale è perfetto e le auto non sono più così vecchie e scassate come in Ukraina, in comune permane però il forte tanfo di nafta, che impregna l’aria lungo la via, e la riservatezza della gente, che sovente risponde “niet” per timore di non capire, ma basta mostrare la mappa e un sorriso che diventano gentilissimi e non smettono più di parlare. Superato la città portuale di Novorossijsk, si torna nell’entroterra fino all’incantevole località turistica di Gelendzik, dove troviamo posto nel parcheggio custodito dal simpatico Ivan (0.90 euro), esattamente a lato della promenade principale. La mattina del 29 torniamo sulle montagne dell’interno: purtroppo solo una piccola parte dei 500km di costa russa scorre accanto al mare. Giungiamo a Sochi col buio e il naso a mò di radar, tra moderni edifici in stile romanico e gotico; un poliziotto ci dà la giusta direzione per un altro posto d’eccezione: il centralissimo parcheggio con vista a mare (2.80 euro al giorno), situato tra la spiaggia e il Park Rivera. Siamo circondati da ristoranti pieni di gente festosa, luci e musica. La città, capitale del turismo russo con 4 milioni di visitatori l’anno, ci appare straordinaria per il senso di libertà che si respira, superiore ad ogni aspettativa. Adesso capisco perché l’Abkhazia, la repubblica separatista tuttora in guerra con la Georgia, vuole rimanere russa: qui siamo ancora in Europa e per loro questo è il paese di bengodi, mentre sull’altro fronte c’è la disperazione della miseria. L’indomani mi reco subito alla capitaneria di porto, dove purtroppo mi confermano ciò che l’amico Yaroslav, direttore del Sochi Club, mi aveva anticipato tramite e-mail: la nave diretta al porto georgiano di Poti può caricare solo mezzi inferiori al 1.90mt. di altezza. Rintraccio Yaroslav, sostenitore del “no problem”, e come da preventivo accordo organizziamo una rapida escursione in ABKHAZIA, distante appena 39km, per analizzare la situazione sul posto. La mattina del 31 seguiamo la bella superstrada per Adler, superiamo una lunga fila di autobus fermi per il controllo e giungiamo in dogana, l’estremo confine orientale dell’Europa. Yaroslav discute a lungo con un funzionario e pare proprio che sia impossibile attraversare l’Abkhazia via terra: occorrono permessi speciali e comunque il confine meridionale è minato. Nel girare l’autocaravan ci allunghiamo per qualche centinaio di metri oltre confine, in Asia, sufficienti a saggiare l’atmosfera tipica dei posti di frontiera: tantissimi magazzini stipati di merci e la calca di gente che attende di passare con montagne di bagagli. Prima di mezzogiorno siano nuovamente a Sochi e, come temevo, non mi resta che entrare in Georgia dalla Turchia. Torno in capitaneria e prenoto il viaggio sull’Apollonia II, la nave per Trabzon, che dovrebbe partire sabato 2 agosto. Il conto totale è di 605 euro (Gulp!!). Grazie all’intervento della brava Natasha, che vende kas (tipica bevanda russa) davanti la biglietteria e parla inglese, riusciamo a calare il prezzo fino a 497 euro: comunque tantissimi! L’interminabile porticato di ul. Navaginskaya, la via prima dell’Hotel Moskow, è indicato per gli acquisti di ogni genere; i prezzi sono esposti e vi trovate anche diversi negozi di alimentari, forniti ma con poca scelta. Per fare il bagno, invece, tenete presente che la spiaggia di sassi scende subito in mare e se avete dei bambini occorre fare attenzione. Dopo due giorni di rinvii, riusciamo a salire sulla nave la sera del 4 agosto, le cabine sono anguste e tutti dormono con la porta aperta per il caldo infernale. Alle 9 del mattino successivo paghiamo i 5 visti d’ingresso (US$ 50) alla dogana TURCA di Trabzon, l’antica Trabisonda di Marco Polo. Una bella strada panoramica e deserta segue la costa tra mille baie, perfora un paio di tunnel e di colpo siamo davanti ai cancelli della dogana di Sapi. Sono solo le 17, ma qui nella Turchia orientale è già l’ora del tramonto. Sostiamo nell’”otopark” a bordo mare (2 euro), all’esterno della dogana, lasciamo i passaporti ai militari in guardiola ed entriamo nella zona dove si trova l’abitato per cenare nell’unica “lokandasi”, ben intenzionati a raccogliere più informazioni possibili. Tutti qui sembrano tranquillizzarci ed anche il blando viavai di passeggeri che attraversa il confine ci rasserena. Entriamo in dogana alle 4, considerando che in GEORGIA sono le 6, per cercare di sfruttare ogni minuto di luce: il confine armeno a 600km di strada orrenda e il visto georgiano che scade all’indomani. Alle 8 entriamo nel settore georgiano ed alle 9 usciamo tra tante sceneggiate e 90 dollari in meno. Alle porte di Batumi, capitale della Repubblica di ADJARIA, un poliziotto insiste per rifilarci una scorta armata (US$ 150) fino a Kobuleti, il vero confine della Georgia. Anche al blocco successivo, dove la carta con su scritto ”Italian Embassy” serve solo a calare il prezzo dell’estorsione da 20 a 5 dollari, propongono la stessa cosa e la domanda sorge spontanea: “dove accidenti siamo finiti se occorre una scorta armata?”. Dopo il chilometrico parco sul mare di Kobuleti, si giunge al posto di frontiera, dove enormi blocchi di cemento ci obbligano a zig-zagare tra una marea di militari che ispezionano le auto in transito. Alle 13 siamo tra le vie di Poti sommerse dall’acqua; in quasi 4 ore abbiamo percorso 95km e di questo passo non riusciremo certo a raggiungere il confine armeno entro domani. Lasciamo la costa e la situazione peggiora ulteriormente: strada allagata, enormi voragini dovunque, un tempo da lupi e la centralina elettrica “saltata” che fa un rumore assordante. Mi fermo a bordo strada per riflettere sul da farsi, quando ci accosta la monovolume nera del giovane Coba, un georgiano emigrato a Como, il quale ci invita alla sua villa vicino Tbilisi e, soprattutto, ci informa che a breve inizia la strada buona, terminata da poco. Provvidenziale è pure l’incontro avvenuto al posto di blocco successivo col bravo tenente Ramasi, che ci chiede un passaggio e grazie a lui filiamo lisci fino a Zestatoni, evitando una ventina di controlli. La strada serpeggia agilmente sulle alture caucasiche, dove la polizia è meno presente ed assillante che in Adjaria; dopo il lungo tunnel a pagamento (0.50 euro) si scende al bivio di Hasuri e poi Gori, la città natale di Stalin, toccando l’Ossetia. Alle 21 siamo a Mtskheta, l’antica capitale religiosa della Georgia, a cena nella lussuosa villa di Coba, assieme al padre, la nonna e allo zio, ex Ministro dell'Economia. La mattina seguente il sole risplende sull’incantevole combinazione di architetture orientali ed occidentali di Tbilisi, città multirazziale e caravan serraglio storico della Transcaucasia. Percorriamo il centralissimo viale Rustaveli, passiamo il pittoresco bazaar di Maiden Square e sostiamo nel piazzale panoramico della celebre chiesa di Metekhi, sotto il maestoso monumento equestre di Re Vakhtang, fondatore di Tbilisi. Di fronte, oltre il fiume Mtkvari, che taglia in due l’abitato, è ben visibile la fortezza della cittadella feudale di Narikala del IV sec., arroccata sulla collina. Dopo Marneuli il paesaggio diventa arido e polveroso, caratterizzato da 25km di strada deserta e squanternata, capace di mettere a dura prova la carrozzeria di un carroarmato. Alle 14 siamo al confine georgiano (4796km), dove ci sbrighiamo in un attimo e sorprendentemente “senza spese”, mentre nella parte ARMENA occorrono 43 US$ per la tassa sul mezzo ed un’oretta di tempo, passata in assoluto relax. I funzionari sono teneramente attratti dal piccolo Giorgio e questo ci pare di buon auspicio. Al primo grosso bivio imbocchiamo per errore la nuova strada (H26) diretta al lago Sevan, più lunga, isolata e tortuosa, tuttavia, la natura selvaggia che ci appare dopo la salita a Noyemberian ci induce a continuare. Di colpo, sulle colline a sinistra ci appaiono numerose case abbandonate o distrutte, elicotteri con gli sfollati, trincee, soldati, e apprendiamo così di essere entrati in territorio azero occupato militarmente dagli armeni. Questi, si offrono di riempirci le taniche alla vicina sorgente e accettano di buon grado di farsi fotografare con le armi in pugno. A Dilijan iniziano i tornanti per l’interminabile ascesa al Sevan Pass (2114m) e poi giù fino al parcheggio dell’esclusivo Harsna Qar Hotel, un mega complesso balneare affacciato sul “mare armeno”. Alle 10 dell’8 agosto ci sistemiamo nel parco di viale Sargsyan (0.75 euro per 24 ore), a 50 metri da Viale Italia, sede dell’ambasciata italiana, e a 10 da Piazza della Repubblica, il cuore di Yerevan e della nazione. “Abitare” a piacimento nei posti più belli e comodi del mondo a volte mi rende incredulo per il sommo privilegio concessoci. Andiamo subito a salutare il Prof. Paradiso, l’addetto consolare conosciuto in Italia, il quale intercede per farci avere il visto iraniano ed evitare così di ripetere la stessa strada dell’andata dal Nogorno-Karabakh a Trabzon (1400km ‘pesi’). L’agenzia preposta per questo genere di operazioni è la Blue Masque (tel. 428498; asbluemosque@hotmail.com), 12 Mashtots St., gestita dagli addetti culturali alla moschea: Azad e l’italo-armena Sara, entrambi di fede cristiana. Dopo soltanto 2 giorni riceviamo il visto (US$ 60), che ci consente di uscire dal valico di Megri, unica alternativa alla Georgia. Euforici per la gioia, corriamo poi all’Ambasciata della “Republic of Nogorno-Karabakh”, in Moskovyan St. 11, per ottenere in giornata un altro visto importante (US$ 25). Osservando la città, si resta incantati dalla moltitudine di grandi edifici costruiti nelle diverse tonalità di tufo rosa o nero, che rendono questa capitale unica, tanto quanto la spontanea disponibilità della sua gente ad aiutare lo straniero. Ma ancor più sorprendente ed unico è l’atteggiamento delle persone nei confronti del piccolo Giorgio, l’irrefrenabile impulso a toccarlo, nei negozi come per strada: chi gli bacia il collo, chi i piedi, chi le braccia o le gambe e lui pare gradire tantissimo elargendo sorrisi a raffica. Può sembrare un paradosso, essendo questo un paese in guerra, ma a noi Yerevan sembra la capitale più sicura del pianeta, traffico caotico e sismi a parte (25.000 morti nel terremoto del 1988). Il centro cittadino, localmente chiamato getron, è molto compatto ed i musei, le gallerie, i teatri ed i monumenti che normalmente si desidera visitare sono facilmente raggiungibile a piedi. Da non perdere, qualsiasi rappresentazione al Teatro dell’Opera (54 Tumanyan St.), tutte di alto livello e ad un costo d’ingresso irrisorio (1.60 euro), ed il grande “Vernissage” o weekend market, dove si vende di tutto, collocato di fronte all’Ente del Turismo (3 Nalbandyan St., tel. 542303; e-mail: help@armeniainfo.am). Lasciamo Yerevan la mattina del 14, dopo sei giorni intensi passati ad esplorare la città, sovente ospiti di Sara nell’oasi di pace della moschea, l’unica risparmiata dal regime sovietico e l’unica a contenere 3 “Meherab” (le porte rivolte verso la Mecca); di solito sono due, mentre tre riportano al discorso della Trinità: qui tutto è un misto tra Islam e Cristianesimo.
La strada per il sud (M2) entra nella regione dell’Ararat, con le torrette del confine turco ad un tiro di sasso e dietro la maestosa scenografia del monte innevato, che s’innalza a 5165 metri. Dal bivio di Yeraski, uno spoglio paesino al confine con l’enclave azera del Nakhidivan, si sale rapidamente al passo di Tukh Manuk (1795m). Il paesaggio è lunare intervallato da fontane d’acqua sorgiva e da oasi di ristoro. Il ripido tornante dopo Saravan ci conduce invece sul Vorotan Pass (2344m), indicato da due torrioni a bordo strada e da un mega cartello, che segnala l’ingresso alle Highlands della Sjunik Region, i confini orientali della nazione. L’altopiano armeno scorre tra laghi e monasteri di difficile accesso, fino alla discesa di Goris, città circondata da pinnacoli e da strane formazioni calcaree, che ricordano la Cappadocia. Alle 21, dopo preventivi accordi con Nadia, la titolare della B&B Guesthouse in Khorenatsi St. 55, parcheggiamo accanto alla sua casa, nel medesimo piazzale del Goris Hotel, un enorme e fatiscente edificio occupato perlopiù da rifugiati armeni provenienti da territori azeri. Il mattino di ferragosto, dopo la visita alla chiesa di St. Grigor (XIII sec.), con al suo interno i quadri di Jirayr, il marito di Nadia, prendiamo la M12 che sale subito verso la strada scassata di Tex, un paese sparso tra le grotte, abitato da gente che usa muoversi cavalcando in sella. Subito dopo la strada torna bella e si entra in AZERBAIJAN, seguendo però il ‘cordone ombelicale’ del “Lachin Corridor”, una striscia di terra occupata, che consente ai due popoli armeni di restare uniti. Tuttavia, la comunità internazionale considera l’intera area parte integrante dell’Azerbaijan. Al posto di frontiera, i militari sono stupefatti perché non hanno mai visto una “casa viaggiante”. Sostiamo al monastero di Cicernavak a Berdzor (ex Lachin), la città in pieno territorio azero, oggi abitata da rifugiati armeni. Ancora pochi chilometri e i cartelli ci avvisano che siamo nella Repubblica del NOGORNO-KARABAKH (‘Montuoso-Giardinonero’), altrimenti noto come Artsakh, una regione tuttora contesa a suon di proiettili e martoriata dalla guerra dal 1988 al 1994. L’ultima fatica si conclude alla trattoria del Lisogorsk Pass (2220m), da dove si godono panorami d’alta quota in assoluta pace alpestre, per poi scendere giù fino alla capitale. Sulla via, Shushi, l’antica capitale storica e culturale della regione, fondata dai Khan nel 1752, rappresenta una sosta obbligata. La città, posta su un dirupo e cinta da enormi mura affacciate sulla valle, era certamente importante ed il gran numero di edifici secolari in pietra bianca, nella tradizionale architettura locale, lo testimonia. Purtroppo, l’abitato appare tuttora pesantemente lacerato dalla guerra: tantissime case distrutte o abbandonate e pochissima gente per le strade, tanto da sembrare una città spettrale. Notevole la Cattedrale del “Santo Salvatore”, appena restaurata, molto grande, bianchissima ed attraente sede del Vescovado. Da vedere anche il palazzo del Khan e la moschea azera di Verkhiya (entrambi del XVIII sec.), l’unica ancora intatta, dov’è concesso salire sul minareto per avere un’ampia veduta del circondario: da qui gli armeni prendevano le coordinate per bombardare Stepanakert. Lasciamo questa bella e desolante città con un profondo senso di tristezza, che persiste lungo la via per la visione amara di villaggi, fabbriche e ristoranti colpiti dagli obici e privi di vita. Alle 16 finalmente entriamo alla meta prefissata di Stepanakert (40.000 ab.), la capitale in gran parte ricostruita, con strade ampie e ben tenute. Orientarsi è facile, in fondo a Sargsyan St., la via principale fortemente inclinata, c’è una grande rotatoria alberata: a sinistra trovate il Palazzo del Governo, con accanto la residenza presidenziale, mentre a destra c’è la posta e l’ufficio preposto alla registrazione del proprio arrivo. Qui rilasciano pure i permessi per visitare le zone interne della repubblica. Gli ufficiali (donna), ci dimostrano grande entusiasmo, contattano subito i giornalisti per farci un servizio, considerando il nostro arrivo al pari di un evento storico: il primo autocaravan ad entrare nel Karabakh. A Stepanakert non c’è granché da vedere, ma per la sua posizione, al centro del paese, costituisce un buon trampolino di lancio verso le altre località della giovane repubblica. Si raccomanda di usare la strada principale che porta ai territori occupati via Mardekert (a nord) o Martuni (a sud), piuttosto che utilizzare le piste dell’interno: anche se la distanza è doppia ci si impiega la metà del tempo. Vedrete frontiere ancora sconosciute e paesaggi ancora da disegnare nel cuore dell’Eurasia. Per ulteriori informazioni contattate la brava Lucie, direttrice dell’agenzia Air-Tourist (tel. 44131; lucie_kh@yahoo.com). Mr. Ararat (tel. 46168) è invece perfetto per visitare il noto monastero di Gandzasar (XIII sec.) ed altre suggestive località dell’entroterra in jeep. Per mangiare in giro, in cima a Sargsyan St. (chiedete alla fruttivendola) c’è il Tsitsernak Restaurant a forma circolare, coi tavoli separati in tante piccole stanze, nel tipico stile armeno. All’inizio della stessa c’è pure il Green Bar, dove servono pizza ed alcuni piatti semplici. Diversamente, all’interno del mercato all’aperto (shuka) si mangia bene per meno di un dollaro. Nei ristoranti come nei bar, i menù sono in armeno e russo ed in genere si usa chiamare i camerieri tramite un campanello collegato ad ogni tavolo. Per alloggiare, la soluzione più spartana la offre il Stepanakert Hotel (3US$), mentre la migliore la trovate al Nyree Hotel (tel. 286415; hyree@arminco.nk.am). Il nostro luogo notturno è in uno spiazzo del centro, stretto tra la caserma e la stazione di polizia, scaldati dal sacco a pelo perché qui fa freddo anche d’estate.
Sulla via del ritorno, poco prima di Shushi, si trova la statua simbolo del paese raffigurante due persone anziane popolarmente chiamate Mamik Babik (mamma e papà); vicino c’è pure il piccolo Museum (‘tankaran’) of Artsakh. A Goris riprendiamo la M2 verso sud, che conduce in Iran. Appena fuori Kajaran, la strada sale ripida e interminabile fino al Tashtun Pass (2535m!!), tra le nuvole, e poi giù a balla coi freni che faticano a tenere. Alle 21, senza crearci troppi problemi, ci sistemiamo nel piazzale di un condominio di Megri, il grazioso paese nei pressi della frontiera. La mattina di domenica 17 seguiamo la strada assolata e deserta a lato del fiume Araks, che delimita il confine con l’Iran, circondati da montagne brulle che creano un paesaggio mozzafiato. Mi fermo per una foto, quando un camion mi blocca bruscamente la via ed un anziano soldato scende deciso a sequestrarmi la macchina fotografica. Mi rifiuto perché non c’è alcun cartello a riguardo, minaccia di portarmi dai russi, quelli del KGB (?). Cerco di persuaderlo, ma non mi resta che seguirlo. Lascio il camper e la famiglia sulla strada e noi ci inerpichiamo su per un sentiero sterrato fino al cancello della base militare. Minacciano più volte l’arresto, facendomi il segno delle manette ai polsi, ma non gli riesce di impressionarmi. So che la cosa si risolverà, devo solo valutare se è una faccenda di 10 minuti o di 2-3 ore, molto dipende da quanto è ebete l’ufficiale. Esce il comandante russo e da come si muove è facile intuire che andremo per le lunghe. Infatti, tirano fuori un tavolo per una farsa da operetta, che si riassume in 3 verbali assurdi, con traduzioni sballate prive di senso. Uno show da armata Brancaleone che lentamente si stempra nelle risate. Quando capiscono che mi diverto pure io, ci salutano in amicizia. Alle 12.15, dopo due ore e mezzo circa di sosta obbligata, entriamo nel posto di frontiera armeno, dove scaturisce un’altra questione ben più preoccupante: non vogliono farci passare perché la legge armena impone di uscire dal valico utilizzato all’ingresso, quindi noi dovremmo tornare in Georgia (Gasp!). La fermezza degli ufficiali ci fa tremare, l’idea di dovere rifare tutti quei valichi fino a Yerevan, chiedere il visto georgiano e tutto il resto equivale a una catastrofe! Corro nell’ufficio del capo dogana, il quale dopo lunghe e sofferte trattative accetta di aiutarci, sottolineando che lo fa per i bambini. Firmo una lettera di “colpevolezza” ed è fatta! Usciamo dal gate alle 16.56, dopo ben 4 ore e mezzo. Felici ed esausti superiamo il ponte di confine ed entriamo nel grande recinto della dogana IRANIANA, dove troviamo però l’ennesima sorpresa spiacevole della giornata: chiedono US$ 300 perché siamo sprovvisti di carnet de passages. Mi rifiuto categoricamente di pagare una tale somma, anche perché qui tutti sembrano improvvisare tariffe e modalità differenti, un vero caos! Offro US$ 100, che sono già tanti, ma nessuno pare accettare, così mi rassegno a passare la notte nel piazzale centrale, circondato da enormi track bardati in stile orientale. Il perimetro interno è fornito di negozio d’alimentari e di ristorante, dove per delicatezza nei confronti di Rosy, unica donna, e dei bambini, ci sistemano un tavolo solo per noi nel retro cucina. Il mattino seguente ricomincia il carosello di proposte, idee balzane e prezzi assurdi. Sono i civili che sbrigano le pratiche e questi non calano, così nel primo pomeriggio mi rassegno, pronto a passare la seconda notte in dogana, quando mi vengono a chiamare accettando i 100 dollari, che diventano poi 147 per la tassa stradale a parte. Il transito ci viene però diminuito da 7 a 2 giorni only. Alle 17 del 18 agosto, dopo 24 ore di dogana e 32 dal fermo dei russi, entriamo in Iran. L’impatto con Golfa è piacevolissimo, superiore ad ogni previsione, la gente saluta in un modo davvero rassicurante. A Marand un ragazzo ci accompagna nella zona universitaria, dove ceniamo in un posto stupendo e dormiamo all’esterno del ristorante. Le persone criticano liberamente il governo e la dimensione è di massima rilassatezza. Il 19 facciamo un’escursione rapida a Tabriz e poi veloci su alla città storica di Mako, sede della famosa “Black Church” (VI-XI sec.), presumibilmente fondata dal discepolo Taddeo, dove leghiamo al volo con tante persone e intere famiglie, che ci invitano a casa loro solo per il piacere di conversare con degli stranieri, proprio come negli anni sessanta. A Bagarzan, la città di confine, facciamo il pieno di diesel per il prezzo simbolico di dollari uno! Entriamo in TURCHIA verso le 19; ad appena 500m dalla frontiera incontriamo il sentiero per Meteor che conduce sull’Ararat, il monte vicinissimo sulla destra. Istanbul dista 1538km: è curioso trovarsi a 4000km da Modena e sentirsi già a casa. Entrando a Dogubaiant, tre bambini kurdi ci tirano dei sassi come proiettili, facendo una crepa nella finestra della cucina. Se mi colpivano al volante sarebbe stata una tragedia! Rosy inferocita rincorre i bambini brandendo la mazza da baseball, si arrampica sopra le case in argilla fino a raggiungere i genitori, che fanno gli gnorri. Dormiamo nella piazzetta della fontana ed il mattino di buon ora saliamo a visitare lo stupendo Iskan Pasar Saray, panoramico caravan serraglio datato 1685. Siamo nel KURDISTAN ed i posti di blocco dei militari turchi si susseguono fino ad Erzurum, dove incontriamo il primo camper del viaggio. Dal 24 al 27 mattino restiamo nella magica Istanbul, sistemati nel parcheggio (3 euro al giorno) davanti alla moschea blu di Sultanhamed. Nella parte finale del viaggio, visitiamo i monasteri di Meteora, in GRECIA, e l’Acropoli ad Atene, passiamo il canale di Corinto ed infine ci rilassiamo una settimana sulla bianca spiaggia di Kalogria, a sud di Patrasso, prima di imbarcarci il 6 Settembre per Ancona; la sera dopo alle 20 siamo nuovamente a Modena.