La Pamir Highway mi conduce al remoto e desolante villaggio kirghiso di Sary-Tash (3200 m), collocato al bivio per la Cina. Appena sceso dal Toyota 4x4, incontro Joris, un giovane ciclista australiano che mi racconta concitato che il giorno prima, in Pakistan, i talebani hanno ucciso 9 turisti nei pressi della Karakorum Highway”. Gulp! E’ la stessa strada che dovrei percorrere anch’io ma, mentre Joris rinuncia ad andarvi, io vorrei prima informarmi meglio strada facendo. Joris mi saluta, raccomandandosi di non fare acquisti nel negozio davanti a noi: “La signora è antipatica, mi ha negato dell’acqua”.
In cerca dell’alloggio meno peggiore, faccio il giro delle homestay per decidere dove sostare. Prendo atto che in tutte le dimore si dorme al suolo su tappeti, il casotto latrina è nei campi e, per lavarsi, è disponibile un unico, minuscolo secchio d’acqua, che deve bastare a tutti gli ospiti, posto in mezzo al cortile. Nessuno specchio. Scelgo la Sary-Tash Guesthouse gestita da due insulse ragazzotte con le guance rosse, indice di buona salute. Sommandole all’antipatia della donna che cambia la valuta, ai bambini irruenti che chiedono soldi, all’insistenza degli autisti che offrono esosi passaggi al confine cinese e ad altri analoghi dettagli, giungo alla conclusione che qui la gente è poco incline all’accoglienza. La solarità e l’ospitalità degli abitanti del Pamir tagiko sono ormai un ricordo. Trovo le fangose strade di Sary-Tash ricoperte da sterco di mucca, che viene essiccato in grande quantità quale combustibile per stufe e forni. Montagne di fieno accortamente depositate sul tetto di molte case, lontano dal terreno umido; cani, pecore, capre, cavalli, buoi e soprattutto mucche sono dovunque. Nei negozi si trova un po’ di scatolame, sigarette, alcool, biscotti e tanti diversi tipi di caramelle, indicate per le altitudini. Luogo freddo e ventoso, a sud del quale si vede la suggestiva e imponente catena innevata del Pik Lenin (7134 m).
Verso la Cina
La frontiera kirghisa di Irkestam dista 71 km e non è servita da mezzi pubblici, neppure i camion cinesi passano oggi. Al termine di un’intensa e contorta trattativa sul prezzo con un nugolo di pretendenti autisti, tra cui spicca un focoso poliziotto, riesco a trovare chi accetta di portarmi al confine per l’equivalente di 23 euro. Si chiama Ivan, ha 49 anni ma a giudicare dalle rughe potrebbe averne 70. La sua macchinina coreana si inerpica lentamente sui 4000 m; a ogni salita si blocca, ha bisogno di riposo, e io approfitto per ammirare le yurte nelle valli e le alte vette che ora sono davanti a noi, sempre più vicine.
Alle 11 sono all’Irkestam Pass, da cui prende il nome sia la dogana kirghisa che la singolare bidonville a ridosso della barriera doganale, caratterizzata da cassoni rimorchio rivestiti di lamiera con le scale composte da copertoni di camion sovrapposti. C’è anche il “magasin” (negozio), il posto web e un albergo (1.50 euro) con caffetteria, dai pavimenti obliqui che seguono il dislivello del terreno. Anche qui, come in tutte le dogane dell’Asia centrale attraversate, non devo compilare alcun foglio, nessuno mi fa domande, non subisco alcun controllo. Il rigore burocratico e paranoico del passato regime sovietico pare dissolto completamente. La frontiera cinese è a 8 km e non incontro né mezzi né uomini a cui chiedere un passaggio su una strada deserta, fiancheggiata da un bel fiume rosso. Mi incammino, il tempo cambia rapidamente e, alle 13.30, raggiungo il posto di frontiera cinese felicissimo di potermi riparare dalla pioggia battente. In questo punto geografico sono però le 15.30, poiché in tutta la Cina viene imposto l’orario di Pechino, nonostante da qui disti ben 5000 km. Questa è la prima postazione doganale di confine, mentre la dogana vera si trova a Wuqia, distante 140 km.
L’ufficiale mi avverte che, essendo la strada in pessime condizioni, non posso continuare se prima non trovo un mezzo che mi accompagni. Ed ecco, in intesa con l’ufficiale, apparire un agitato taxista che chiede 100 dollari. Una sorta di ricatto. Discuto, litigo con entrambi e, infine, chiedendo in giro rimedio il passaggio su un pulmino di amichevoli apicoltori tagiki. Strada dissestata all’inverosimile: sei ore di salti, sobbalzi e ammaccate di testa contro il soffitto del mezzo. Alle 23.30 entriamo nella luccicante dogana di Wuqia, dove non posso che restare ammirato dall’efficiente organizzazione militare cinese, e alle 4.30 di notte mi corico al Seman Hotel di Kashgar, affascinante struttura di genere coloniale nei pressi del centro e punto di ritrovo per viaggiatori occidentali (12 euro, singola o doppia). Kashgar è anche il capolinea della Karakorum Highway, la via più alta al mondo, che in 1300 km porta a Rawalpindi in Pakistan e questo hotel è il luogo ideale per informarmi sui pericoli del percorso, veri o presunti.
Kashgar
Oasi millenaria nella parte più occidentale della provincia cinese dello Xinjiang, assediata dal famigerato deserto Taklamakan (in lingua Uiguri significa “se entri non esci”), Kashgar oggi conta circa 200 mila abitanti, in gran parte appartenenti alla comunità musulmana del popolo Uiguri. E’ un antico snodo tra Asia e Europa sulla mitica Via della Seta, visitato da Marco Polo nel 1273. Girando per la città vecchia resto presto sedotto dal fascino semplice, autentico e straordinario di una città che sembra vivere in pieno medioevo: sbalorditiva! La vita si svolge sulla strada che appare come un enorme mercato all’aperto: capretti squartati appesi, panettieri che cucinano naan nei loro forni portatili, venditori e venditrici d’ogni varietà di frutta e verdura, angurie tagliate a fette, bevande ghiacciate fatte in casa, uova bollite, succhi di dattero, mais tostato, gelati, yogurt, omelette con patate, calzoni fritti ripieni o interiora di pecora, ma anche scialli di seta, vestiti da sposa, burqa, cappelli di pelliccia d’ermellino, tendaggi, tessuti, indumenti, tappeti, oggetti d’antiquariato, coltelli Uiguri, scarponi e una quantità incredibile di cianfrusaglie e tant’altro ancora, il tutto avvolto da nubi di mosche e dal vocio della gente che contratta il prezzo.
Grafie arabe e ideogrammi cinesi indicano la sequela interminabile di chayerie (tè), luoghi di ristoro provvisti di lettini e ristoranti che servono bolliti, stufati, zuppe, spaghetti, tortelli e grigliate, che vanno dagli spiedini di pecora ai cosciotti d’agnello. Tutto attorno, un variopinto traffico di carretti taxi, stracolmi di gente, trainati da antiquate motociclette o da cavalli. Il pulsare della vita si armonizza con lo sfondo formato da case di mattoni cotte dal sole, che ospitano studi dentistici, odontotecnici, orafi, barbieri, calzolai, sarti, lustrascarpe, riparatori di macchine da cucire, di biciclette, di serrature e lucchetti, stagnai, lattonieri e artigiani di ogni genere, uno accanto all’altro. Ci sono mamme che allattano col seno nudo e il viso coperto, intere famiglie sedute su di un unico motorino, ombrelli parasole doppi, e altre infinite curiosità in un’atmosfera onirica intrisa di umanità. Un carosello di visioni che, con prepotenza, accende la mia fantasia: assaggio di tutto e scatto foto a raffica, come in estasi. Ovunque mi giri, vedo movimento, colore, vita.
Oggi la Via della Seta non esiste più ma i mercati di allora ci sono ancora. Non è come stare nei tipici mercati cinesi, qui è tutto estemporaneo e caotico, un incredibile show in diretta e, ancor più al domenicale “Sunday Market”, che è comunque attivo ogni giorno, dove si respira a piene mani la tradizione, il folclore e la cultura dello popolo Uiguri, che riporta la mente ai tempi di Marco Polo. All’incirca cinquantamila persone di diverse etnie e provenienti da tutti i paesi limitrofi si riuniscono in città per partecipare a questa immensa fiera settimanale, che dicono essere la più grande di tutta l’Asia. Un pasto nei baracchini, dove si beve tutti dal medesimo tegamino che funge da bicchiere collettivo, costa 0.30 centesimi di euro.
Nel cuore della città c’è la Moschea Id Kah (1442), la più grande e frequentata della Cina. L’accesso è consentito anche a coloro che non sono di fede musulmana; giro liberamente nei giardini di questo vasto edificio di culto che durante la celebrazione annuale del Qurban Baiyram, dicono possa contenere fino a 20.000 fedeli. Sotto agli alberi osservo file di anziani che, seduti all’ombra, sfoggiano lunghe barbe bianche e indossano la doppa, il copricapo tradizionale Uiguro. Nel perimetro della piazza esterna, invece, si scattano le foto di rito per chi vuole farsi ritrarre a cavallo o sul cammello con lo sfondo della moschea. Vado a perlustrare il dedalo di viuzze in argilla della Old City, il nucleo più antico, con la cinta muraria alta dieci metri che si erge sul lato est del bazar domenicale. Per vederla nel suo insieme dall’alto, salgo sulla ruota panoramica che si trova su viale Renmin Donglu, di fronte al laghetto Dong. Il bigliettaio vede che intendo fotografare e mi fa salire sull’unica cabina senza vetri per godere della visuale a 360 gradi. I viali della città nuova, abitata da cinesi, ruotano attorno a quella Uigura, come fossero una sorta di minaccioso accerchiamento di colonizzatori. Le autorità stanno demolendo ad arte parecchi edifici dell’antico centro ed è tuttora in atto la secolare lotta armata dei separatisti Uiguri, simile a quella del Tibet, ma sono faccende che i viaggiatori stranieri in transito non percepiscono. Scorgo magnifici interni di case abbandonate, completamente in rovina. Nel traffico cittadino fa altrettanta impressione l’assenza del rumore di motori a scoppio, un silenzio irreale, essendo tutti i mezzi dotati di motore elettrico; in compenso strombazzano di clacson a tutto spiano.
Karakorum Highway
Nella hall dell’albergo Seman incontro Alberto ed Eva, una coppia di Desenzano del Garda che da sei mesi gira l’Oriente e che, a causa delle brutte notizie sul Pakistan, a malincuore, ha deciso di rinunciare alla Karakorum Highway. Da loro imparo che Khunjerab, il nome del passo che introduce in Pakistan, vuol dire “valle di sangue”, nome per niente rassicurante. Aggiungono che all’Ambasciata italiana li hanno sconsigliati di salire sugli autobus per il pericolo di bombe. Mi danno conferma dei pericoli anche alcuni pakistani, grossisti di pietre dure, i quali mi dicono: “Il percorso è sicuro fino a Gilgit, poi per Islamabad c’è l’aereo, oppure bisogna chiedere la scorta della polizia... i mezzi pubblici formano dei convogli scortati da militari armati di mitraglie pesanti... not save to Islamabad, dangerous right now, talebani everywhere!”. Nel frattempo arrivano in albergo, direttamente dal Pakistan, il cineoperatore Taylor e suo padre che, da 20 anni, insegna nella valle dell’Hunza, entrambi di Los Angeles. Hanno l’aria stravolta, come quelli che arrivano da un drammatico viaggio, passando attraverso un fronte di guerra. Ci dicono: “Dipende anche dalle vostre possibilità economiche, se volete chiamo il nostro autista che vi porta oltre la zona rossa, attraverso la scorciatoia del Boboser Pass”. Concludono: “Si può fare ma non è un viaggio privo di rischi”. Ibrahim Shah, scultore Hunza, si inserisce nella conversazione precisando che al termine della scorciatoia, il percorso non è fuori dalla zona di pericolo: “C’è ancora un tratto d’influenza talebana da fare... non andate con donne ed è meglio tenere la barba...” Taylor aggiunge: “La gente non vuole bianchi sugli autobus, sanno che i talebani sono avvisati della loro presenza col cellulare... l’unico albergo sicuro è il Riviera Hotel, accanto all’Army Jack Post (caserma) di Gilgit, ma essendo il più sicuro è spesso pieno... pure sull’aereo non è facile trovare posto ... partite in jeep alle 4 del mattino e non dite a nessuno dove siete diretti”. Situazione da caccia al turista, per creare problemi al governo. Dave, l’altro americano presente, tuona: “Il Pakistan oggi è più pericoloso dell’Afganistan!”. Alberto: “Ti va bene solo se hai fortuna ... sfidare la vita per niente è da incoscienti”. Nonostante tutti questi avvertimenti penso ancora che si potrebbe fare, ma viaggiare in paranoia non sarebbe il massimo.
Oceano Pacifico
A Ibrahim Shah, infine chiedo notizie sulla longevità del popolo Hunza, che io sapevo raggiungere, in media, dai 120 ai 140 anni, grazie alla proprietà dell’acqua che sgorga nel territorio. Ibrahim ratifica dicendo che era il succo di albicocca ad allungare la vita dei nativi in passato, mentre oggi la media è di 80 anni. Come in molta parte del mondo. E io che avevo scelto di percorrere la Karakorum per carpire il segreto della longevità del suo popolo… ! Vado alla stazione dei treni e decido di cambiare completamente rotta e scenario, sostituendo cioè i monti dell’Himalaya con i grattacieli di Shanghai e le palme da cocco del Pacifico.