Alle 18, timbrata l’uscita da Gibuti, Aldo ed io raggiungiamo a piedi il posto di frontiera somalo di Loyeda, dove nessun funzionario, seppur sorpreso dalla presenza di due bianchi in un luogo così insolito, osa mettere in discussione il visto concesso da un diplomatico dell’ambasciata del Cairo. Ci timbrano l’ingresso nel Paese senza complicazioni, nonostante in ben tre ambasciate ci sia stato verbalmente proibito di entrare in Somalia via terra, tralasciando di segnalare questo dettaglio sul passaporto. Oggi è il 26 marzo e il visto è valido 30 giorni.
Ismail e un altro paio di poliziotti alla dogana parlano italiano, ma questo non impedisce loro di fare un po’ troppo i furbastri: vorrebbero convincerci a prendere un passaggio per Hargheisa da un loro conoscente al costo di 400 dollari, affermando che tutti pagano quella cifra. Sappiamo bene che il prezzo in cabina con l’autista è di 20 dollari e già son tanti. Il bravo Jamal, conosciuto in Yemen, ci aveva avvisato che la gente nel Nord della Somalia è diversa da quella del Sud: “Lì son tutti ladri”.
Da questa dogana passano camion e Land Rover che fanno la spola tra Gibuti ed Hargheisa, stipati di gente carica di pacchi, cartoni, sacchi, capre e capretti dappertutto e i controlli durano ore. Vediamo il camion partito da Gibuti alle 14 ancora in attesa di passare la dogana. La ventina di mezzi, parcheggiati tra gli alberi alle spalle dell’edificio, sono diretti ad Hargheisa, distante 370 km. Tutti quanti sono a conoscenza del fatto che cerchiamo un passaggio, perciò non ci resta che aspettare senza forzare gli eventi. Ci soffermiamo tranquillamente all’esterno di questo ufficio di frontiera all’ombra di palme, coi piedi nella sabbia e non distanti dal mare. Siamo contenti di essere finalmente riusciti ad entrare in Somalia, nonostante i divieti e gli ostacoli incontrati, consapevoli che se ci avessero rifiutato l’ingresso sarebbe stato un grosso guaio a causa della scadenza dei visti.
Veniamo avvicinati da una marea di mediatori dei driver che, uno dopo l’altro, ci offrono un passaggio a prezzi proibitivi, mai inferiori a 150 dollari. Tutti scrutano i nostri zaini con sguardi interessati, tanto che la situazione si fa, di ora in ora, sempre più tesa. Un poliziotto ci invita a non perdere mai di vista i bagagli, neppure per un attimo. Comunichiamo al capitano superiore, in capo alla dogana, la nostra intenzione di dormire all’aperto in prossimità della stessa, per avere la possibilità di trovare un trasporto più favorevole il giorno dopo. Lui avverte che molti passeggeri dei camion sono ladri dichiarati e dormire all’esterno può essere rischioso. Tra l’altro Aldo ha dovuto ammettere che viaggiamo con 2500 dollari a testa proprio al poliziotto che ora ci appare il meno affidabile, ma per fortuna sembra che quel visto firmato da un console li faccia desistere da pensieri malvagi. Il capitano ordina ai militari di procurarci due letti intrecciati all’afgana e ci mette sotto la protezione del mitra di quell’odioso di Ismail.
Ceniamo con pane e tonno e restiamo svegli fino a notte fonda a parlare con un gruppo di soldati rivelatisi simpatici e aperti al dialogo. Ci mostrano i fori di mitraglia sui muri fatti dai francesi nel 1976 a difesa di Gibuti, quando il sogno di una grande Somalia del presidente Siad Barre includeva anche questa fetta di territorio. I militari che sono di Kisimaio, la città sul fiume Juba al confine col Kenya, sostengono: “Qui a Nord la vita è tre volte più cara e la gente tre volte più disonesta”. Con trasporto, ci raccontano alcune curiose peculiarità della loro regione: “Allontanarsi dai villaggi è molto pericoloso, ci sono iene e leoni che attaccano l’uomo ed elefanti che ti rincorrono. Ogni giorno qualcuno muore. Di notte poi nessuno si azzarda ad uscire”. Paradossalmente da queste parti sono gli animali a tenere prigionieri gli umani.
Attorno alle 9,30 arrivano in dogana i camion da Gibuti diretti ad Hergheisa e viceversa, ma tutti ripartono alla sera col fresco, dopo avere trascorso l’intera giornata a succhiare foglie di khat, un alcaloide di natura anfetaminica a spiccato effetto euforizzante che reprime gli stimoli della fame e della fatica. La stessa cosa accade con l’assunzione della noce di betel nel Sud-Est Asiatico e delle foglie di coca in Sud America, tutte però provocano forme di dipendenza. Nei Paesi del Corno d’Africa e nello Yemen ne viene fatto un uso diffuso nelle tipiche khatterie arredate con letti che ricordano, seppur con effetti opposti, le fumerie d’oppio dell’Estremo Oriente.
Ora, riparte il carosello delle contrattazioni sul prezzo. Il driver della Land Rover chiede addirittura 430 dollari, cifra che poi diminuisce fino ad 80, mentre un camionista vuole solo 10 dollari per sistemarci dietro, scoperti, al sole e seduti sui sacchi assieme alle donne, in un percorso che si rivelerebbe massacrante. Il loro modo di socializzare è curioso, sempre chini su se stessi, ti sorridono e ti toccano poi, quando sembra che debba iniziare la conversazione, si alzano e se ne vanno, senza neppure salutare. Altra cosa curiosa, nessuno sa dire con esattezza quante ore di viaggio occorrono per Hargheisa: chi dice 12, chi 24 e chi 48-50, eppure è un percorso che i driver fanno costantemente. Per loro il tempo è vago e non sono in grado di stabilire un orario preciso.
Verso mezzogiorno arriva un’auto carica di khat da Gibuti, sarebbe illegale accoglierli ma i doganieri arrotondano lo stipendio chiudendo un occhio. Carico molto atteso da un nugolo di gente in fermento, poiché trasporta una sostanza utile anche per star svegli e guidare di notte. Assistiamo pure ad una lite per il khat, in cui i contendenti si affrontano a suon di bastonate.
Il telegrafista ci invita nella sua tenda a masticare khat per un paio d’ore. Questi militari, presi uno ad uno, confessano di non avere troppe simpatie per la politica del governo centrale. In compenso, manifestano un grande interesse per i cantanti inglesi e americani, tanto che sentiamo il dovere di regalare loro un nastro classico dei Beatles, di cui ci sono molto grati. Preso atto che noi ci piazziamo in dogana finché non troveremo un prezzo adeguato per il trasporto, sono gli stessi poliziotti che, pur di toglierci di mezzo, si informano personalmente e trovano il passaggio giusto per noi: in cabina con l’autista per 20 dollari a testa, lo stesso prezzo dei somali.
Alle 18 si parte, la strada è senza dubbio una tra le più impervie del pianeta, impraticabile se piove. L’autista non ha un attimo di rilassatezza, sempre in lotta per tenere il camion il più ritto possibile. Non so come facciano a non volare via quelli che sono tra i sacchi nella parte posteriore del mezzo. A solchi giganteschi si alternano dune, dove ci insabbiamo due volte e per altre due volte nel percorso notturno il vento alza il cofano che sbatte contro il vetro. Nell’abitacolo il rumore del motore è impressionante ed il cotone nelle orecchie è d’obbligo. Il camion salta da una buca all’altra, con l’autista che trova l’attimo per togliere una mano dal volante solo per infilarsi il khat in bocca, utile a mantenersi sveglio e lucido.
Lo schienale in legno ad angolo retto, è fissato con dei bulloni che pungono la schiena ad ogni sobbalzo e in certi tratti il corpo salta senza controllo. Mentre questo scassatissimo camion giapponese bordeggia senza sosta, siamo talmente esausti che io mi addormento e scivolo senza accorgermene nel fondo del veicolo con il volto che ciondola a pochi centimetri dal pedale del gas. Ogni tanto, tra una capocciata e l’altra, dischiudo gli occhi davanti al piede dell’autista che pigia e stacca nervosamente i pedali e quasi mi schiaccia il naso, ma non riesco a reagire dalla stanchezza e continuo a dormire come un neonato. Uno stato da “coma profondo”, quando non t’importa più nulla di nulla e vuoi solo dormire.
Con la luce del giorno siamo un po’ stravolti ma contenti alla vista della bellezza del paesaggio, un deserto con macchie di verde e cactus alti e diversi tra loro. Qua e là vediamo linci, iene, tartarughe giganti, piramidi di termiti e vari tipi di uccelli dai colori vivaci. Ci fermiamo per una breve sosta nel villaggio di Borama, nei pressi della frontiera etiope, abitato da gente fiera ma estremamente povera. In un piatto in metallo la cameriera della caffetteria in cui sostiamo mette due fette di pane su cui versa una decina di gocce di tè e mezzo cucchiaino di zucchero. Legge il mio stupore e pronta ribatte: “Il tè innervosisce”, rivelando un’ironia anglosassone impensabile in questa parte di mondo.
Pranziamo con spaghetti stracotti, mentre l’autista mangia un po’ di spezzatino da miseria pura. In molti si meravigliano che due bianchi facciano un percorso così ostico assieme ai somali. Ci osservano con intensità e due poliziotti ci spiegano che non hanno mai visto dei bianchi, sono curiosi, ma poi anche questi se ne vanno senza dirci niente, neppure un cenno di saluto. I tipi più interessanti sono certamente i nomadi, dal portamento eretto e altezzoso tanto da sembrare sempre minacciosi e concentrati su se stessi. Abitano in piccole capanne a forma di “iglù” e ricoperte da pelli. I celibi hanno capigliature crespe enormi, come criniere, destinate ad essere ridimensionate solo dopo il matrimonio. Gente taciturna, orgogliosa e permalosa, così ci dicono, ma a noi piace. Prima di salire nuovamente sul camion ci viene indicato il foro della bomba francese che ha bucato il soffitto della caffetteria nell’attacco aereo di tre anni prima, quasi fosse motivo d’attrazione turistica.
Si riparte, il villaggio successivo si chiama Dila e quello dopo Kalabaydh, con il bivio a destra che conduce a Jijiga in Etiopia, la città che l’anno scorso è stata riconquistata dalle truppe etiopi, russe e cubane provocando la disfatta dei somali e la fine della guerra nella regione contesa dell’Ogaden. Tuttavia, pare che le operazioni di guerriglia continuino. Procediamo con i soliti sobbalzi e, dopo circa un’ora, il camion si blocca per un problema elettrico. Due volenterosi ragazzi riescono a riparare il guasto ma poco dopo rimaniamo a secco con la benzina. Un camion che procede in senso inverso ce ne dà un po’ ma ad un paio di chilometri da Hergheisa siamo di nuovo fermi, proprio davanti ad un cartello che indica il campo di lavoro della ditta italiana Pessina.
Aldo ed io prendiamo una tanica a testa e andiamo a chiedere benzina ai nostri connazionali che, quando ci vedono, restano sbalorditi, come se fossimo scesi da Marte. Ci manifestano una calorosa accoglienza e dopo aver consegnato la benzina, salutiamo il conducente del camion perché gli italiani ci invitano a rimanere alla base per rifocillarci alla loro mensa immacolata, ricca di cibo squisito e di buon vino. Maurizio di Modena ci permette di fare la doccia nella sua camera e torniamo come nuovi.
Sono 32 gli italiani presenti, un po’ stravolti ma davvero molto bravi, che lavorano 10-12 ore al giorno per la ditta Pessina, una prestigiosa impresa di Milano che dagli anni ‘50 opera in Italia e nel mondo nella costruzione di infrastrutture d’eccezione. Hanno l’incarico di costruire 200 km di strada, da Hargheisa a Gabiley ed oltre, tuttavia sono qui già da un anno e con tanti macchinari ma ancora non sono iniziati i lavori, mentre rimarcano che i cinesi, nello stesso lasso di tempo, hanno costruito i mille chilometri di strada che da Garoe porta a Mogadiscio. Si tratta ovviamente di strade meno curate, costruite senza compenso, in linea con la strategia politica ed economica della Cina finalizzata ad inserirsi nel Corno d’Africa.
I lavoratori della Pessina fanno una vita di sacrifici, resa più accettabile da buoni stipendi e da un’ottima assistenza generale: dalla cucina all’infermeria, ai giornali e alla tv a colori tutto in lingua italiana, scontati nel nostro Paese ma straordinarie in un luogo sperduto nel deserto in mezzo al nulla. Per noi è un colpo di fortuna insperato. Vogliono che restiamo anche per la cena e non solo, tant’è vero che il capo del campo, Bruno Paiarola, ci procura una camera con due letti e il bagno nella villetta accanto alla mensa.
Il mattino dopo Piero, il giovane medico del campo, mi cura e fascia il dito medio in cui pare sia entrato un fungo che sta facendo infezione. Piero ci appare decisamente maniaco dell’igiene, si lava le mani in modo ossessivo, per ogni cosa che tocca e ad ogni stretta di mano. Di certo non sta vivendo al meglio questa esperienza lavorativa. È irritato dal fatto che i bambini nei villaggi urlino: “Italiani bastardi!”. E prova a spiegare: “I somali del Nord chiamano quelli di Mogadiscio schiavi degli italiani, ma anche loro sanno che gli italiani sono bravi o comunque meglio degli inglesi”. Pian piano, conversando, emerge sempre più il lato opposto del loro quotidiano: “Qui siamo nella Somaliland, l’ex Somalia britannica, abitata da musulmani integralisti che chiedono l’indipendenza da Mogadiscio, un popolo introverso e per niente amico, arretrato e razzista contro i bianchi. L’ex Somalia italiana è un paradiso al confronto”. E, forse per amor patrio, il medico tiene a precisare che anche gli inglesi non godono di simpatie: “Come in tutte le loro colonie hanno solo preso senza dare niente”.
Piero, come altri, non si sente per niente al sicuro: “La settimana scorsa è passato un camion pieno di feriti che tornava da un’operazione di guerriglia in Etiopia. Tutte le sere i somali attraversano il confine per fare delle imboscate all’arma bianca”. E aggiunge: “Noi italiani siamo stati costretti ad abbandonare il campo a Sud bombardato dagli etiopi e sono certo che quando questa strada sarà completata i Mig russi e cubani, loro alleati, la distruggeranno per evitare che sia usata a scopi bellici”. In effetti questa vita al campo è paragonabile a quella in una caserma: sveglia alle 6 e tutti a letto alle 21.
Al raduno in mensa nell’ora dei pasti, si respira più ottimismo, dominato dalla leggerezza tipica della nostra gente. Il gruppo di geologi si diverte a scherzare con le cameriere somale che, senza malizia, definiscono “donne cucite” a causa dell’infibulazione, il barbaro rituale della mutilazione genitale femminile praticato in gran parte del paese. Seguono le disquisizioni sul fondo schiena delle somale, alto e sodo tanto da sembrare un bauletto. Un paio di loro ammette di essere attratto dalle “boscaiole”, pare che le ragazze che lavorano nei campi non abbiano problemi a fare sesso. Con spassoso sarcasmo napoletano Antonio lamenta che una delle sue sorelle ha scelto di fare la prostituta: “Sono vent’anni che lavoro in Africa e puzzo di fatica, mentre quella in poco tempo si è fatta nù palazzo di casa”.
Dietro ad ogni discorso traspare spesso la nostalgia della famiglia e dell’Italia. Franco di Cuneo invece, più riflessivo, si preoccupa di indicarci i luoghi che meritano di essere visti a Mogadiscio: “Andate al mattatoio, dove ogni giorno alle 15 buttano gli avanzi di carne in mare e molti squali vengono fino a riva per mangiare”. E aggiunge: “Fate però attenzione perché un ragazzo romano ha perso una gamba, divorata da uno squalo”. Ci consiglia di recarci al circolo italiano al Lido sul mare, con ristorante e spiaggia privata: “È una città stupenda dove gli italiani sono stimati e tutti gli abitanti parlano la nostra lingua. Bellissima la costa verso Sud, da Mogadiscio a Merca e Kisimaio, bel mare e tanti animali”. Per le serate di svago Franco ci sciorina altri consigli: “I locali da ballo sono pieni di donne. Il Giuba Dancing è statale e tranquillo, mentre è meglio evitare La Terrazza, lì fanno sempre a scazzottate e usano i coltelli. Solo i marinai sono temuti”.
Ci avverte inoltre di non comperare mai pelli di animali senza ricevuta: “Alla dogana sono molto severi. Ad un operaio della Pessina, per una pelle hanno dato 30 milioni di multa ed ha trascorso un mese di prigione”. Mentre lo racconta mi tornano alla mente le quattro pelli di zebra acquistate in Kenya sette anni prima, ma in quel caso era tutto in regola anche se poi me ne sono pentito grazie ad una sorta di presa di coscienza animalista.
La conversazione si sposta poi alla politica in tempo di guerra fredda: “Prima l’Unione Sovietica era con la Somalia e l’America con l’Etiopia, poi si sono scambiate le parti”. Il parere di molti è che si stiano formando dei gruppi di guerriglia ostili al presidente Siad Barre. Secondo Franco i somali sono filo capitalisti perché sostengono spesso: “Se hai bisogno devi pagare”. C’è un detto arabo che qui è molto seguito: “Chi ha bisogno è un finocchio!”. Modi di dire che rivelano pensieri prodotti da una mentalità discriminante per la quale essere indigenti e bisognosi è sinonimo di una debolezza ascrivibile alla omosessualità. Tutte informazioni, utili o banali, che mi annoto perché da tenere in giusta considerazione come presupposto al nostro ingresso alla capitale.
Nel pomeriggio, mentre tutti i ragazzi sono al lavoro, ci rechiamo ad Hargheisa distante due chilometri. Vie larghe in una città poco interessante, fatta eccezione per il souk dell’oro e il mercato gestiti da donne col viso ricoperto dalle polveri vegetali di kasil e curcuma che proteggono la pelle dai raggi del sole. In generale, la gente ci sembra un po’ strana, taciturna e tranquilla. Il bus per Mogadiscio parte ogni mattina alle 7 dalla piazza centrale e senza prenotazione ma, se arriviamo presto, l’autista ci tiene i posti davanti.
Di ritorno alla mensa della Pessina, per un ultimo gustoso pasto dello chef Armando, apprendiamo da Bruno di Pavia che fu un suo concittadino, di nome Luigi Robecchi Bricchetti, a dare il nome Somalia a questo Paese. Esploratore affascinato dai viaggi in terre lontane, nella seconda metà dell’800 fu il primo europeo a visitare in modo estensivo la Somalia e le altre regioni del Corno d’Africa. Ai saluti, prima di coricarci, tutti ci fanno gli auguri qualificandoci come temerari ma in verità siamo noi a non capire cosa ci sia poi di così speciale, è un viaggio pianificato mettendo in conto i disagi. Maurizio ci regala una stecca di sigarette italiane MS e Bruno ci augura buon viaggio alla sua maniera: “Se andate alla Impregilo in Nigeria dite che vi mando io, sarete trattati bene”. Della ditta Impregilo ho dei ricordi indelebili di gratitudine, per la provvidenziale assistenza avuta nel ‘69 in Pakistan, sul fiume Indo.