L’idea di fare questo singolare viaggio nacque quando il settimanale L’Europeo acquistò una serie di mie foto sul Vietnam e sulla guerriglia palestinese da inserire in un servizio di Oriana Fallaci. Solo quattro mesi prima mi trovavo in Giordania, assieme a due compagni di viaggio, di ritorno da un raid automobilistico con capolinea in Estremo Oriente e nessuno poteva prevedere che saremmo finiti in prima linea, probabilmente per curiosità, incoscienza giovanile o desiderio di esperienze forti. Fu l’incontro con il simpatico Awad Saleh, ex studente universitario a Padova e membro del ‘Fronte Democratico Popolare per la Liberazione della Palestina’, che determinò questa situazione impensabile per un turista, ma quasi normale per noi che da sei mesi “trattavamo” quotidianamente con l’avventura. Nello stesso viaggio avevamo già rischiato un linciaggio in India e la vita in almeno altre due o tre occasioni; Awad capì che eravamo pronti anche per questa prova.
Il mio progetto, condizionato da irrisorie possibilità economiche, appariva quantomeno imprudente, ma descrive appieno la mia personalità di quel tempo: tornare in prima linea, consegnare due semplici Istamatic a combattenti, quotidianamente impegnati in azioni di guerriglia in ‘terra occupata’ e pregarli, sperando che accettino, di scattare delle foto in mia vece. Supplire cioè alla qualità dell’immagine con sequenze d’eccezione. L’elementare programma tragicomico, da reporter di guerra in poltrona, prese corpo dentro di me senza tanti preamboli: “al limite faccio un viaggio per rivedere gli amici”.
In un giorno, comunicai la mia decisione a Bonvi, per il quale lavoravo con le Strumtruppen, andai a casa a preparare le poche cose necessarie per il viaggio e passai poi da Milvia, la mia graziosa compagna dai capelli color rame, che aveva deciso di seguirmi.
Ancora oggi scrivo sempre un diario quando viaggio, e questo che segue è il resoconto di allora, la “diretta” di quell’esperienza.
Il viaggio. Di buon’ora ci troviamo sulla strada per Ferrara a fare l’autostop; è il primo giorno di primavera del 1970 e fa fresco. Per ripararmi ho un giubbotto di tela tipo militare prestatomi da Guidino (futuro ideatore di Lupo Alberto), il giovane collaboratore di Bonvi, che si è dimostrato il più entusiasta: avrebbe voluto venire pure lui. Anche Milvia è ben coperta e come bagaglio una piccola borsa per entrambi. Giunti in Jugoslavia ci carica un signore inglese che deve arrivare in nottata a Sofia; decidiamo di fare tutta una tirata, alternandoci al volante. Quando viene a conoscenza delle nostre intenzioni, mi fa la morale sui pericoli. In effetti, incontrare un ventenne che viaggia in autostop in compagnia di una bella ragazza, coi soldi contati per un’iniziativa votata al risparmio, diretto in un paese arabo distante 5000 km ed intenzionato a fare un servizio fotografico in prima linea con due Istamatic, non è da tutti i giorni e suona tremendamente bizzarro e di difficile comprensione; meglio non parlarne più a nessuno. Giunti a Sofia verso l’alba, troviamo un locale aperto e facciamo un pasto assieme prima di sistemarci per alcune ore in un piccolo albergo del centro.
L’indomani, una fila di Mercedes con a bordo solo l’autista si muove in direzione della Turchia; l’ultima della colonna si ferma per farci salire. Sono palestinesi che commerciano auto, vengono dalla Germania e si recano in Giordania per venderle, triplicando l’importo pagato. Ognuno di questi macchinoni usati è stato commissionato da un gruppo di persone, che uniscono i loro averi, per utilizzarli poi come taxi per un giorno a testa. Vanno ad Amman, la nostra meta, ma ci danno un passaggio solo fino ad Istanbul. Avevo deciso di non parlare più delle nostre intenzioni, ma questa è un’occasione speciale. Coinvolgere l’autista vorrebbe dire evitare un sacco di fatiche, e allora gli espongo tutta la storia con grande passione; gli mostro anche le foto della mostra di manifesti organizzata nella libreria Feltrinelli di Modena in favore della causa palestinese, portate per Awad. A Plovdiv il convoglio fa una sosta per un chai (tè). Qui inizia una lunga consultazione, dalla quale siamo esclusi, per decidere se darci o no questo passaggio, con esito finale negativo. Si scusano con fare paterno: ci aiuterebbero volentieri, ma ai posti di blocco militari e dei vari gruppi armati la presenza di stranieri potrebbe creare loro dei problemi per la psicosi delle spie israeliane e per altro ancora. Arriviamo ad Istanbul nel tardo pomeriggio. Dopo esserci sistemati in un buio alberghetto per freak nel quartiere di Sultan-Hamed, in giro per il bazaar incontriamo Yalcin, che ci racconta di essere definitivamente uscito di casa perché suo padre e sua madre non fanno altro che fumare hashish tutto il giorno e non capiscono mai un accidente. Vado in cerca degli amici e trovo Nedim che ci conduce nel nuovo botteghino di Hussein e Ayan, ai quali mi lega una splendida e consolidata amicizia. Hussein riesce a far partire la sua scassatissima auto e ci conduce a mangiare pesce fresco sul Bosforo. Raki e vino fanno il resto. Seguono disquisizioni su tutte le ‘cretinate’ che si possono dire in turco ed italiano, ma sempre con riguardo per la presenza di Milvia, che pare gradire tantissimo la compagnia. Chiudiamo così la seconda giornata di viaggio con lunghe cantate in vera allegria.
Asia (22 Marzo). Prendiamo il ferry per Uskudar, la parte asiatica di Istanbul, e ci appostiamo sulla strada per Ankara. Un camion dell’esercito, carico di militari eccitati per la presenza femminile, si ferma e i militi insistono per farci salire. Accettiamo giusto per uscire dai centri abitati. La truppa è un po’ scatenata e si fatica a tenerla calma, ma per fortuna il tratto è breve. Dopo svariati passaggi ci troviamo sui monti dell’Anatolia, in mezzo alla neve, senza macchine in transito su cui sperare. Ci mettiamo a parlare con un signore che è venuto a curiosare da vicino, il quale ci informa che l’autobus diretto alla capitale passerà tra breve: penserà lui a fermarlo e a farci dare uno strappo senza pagare. Ad Ankara cerchiamo l’alloggio nella quartiere più popolare. Mentre camminiamo per le vie del centro, una grossa auto piena di ragazzi ci segue lentamente e mi urtano volutamente col paraurti facendomi cadere all'indietro sul cofano. Un episodio che provoca grandi risate, non le nostre. Siamo entrati in una zona delicata, dove bisogna prestare più attenzione e dare meno confidenze. E’ l’inizio di una regione che ci aveva creato svariati problemi solo quattro mesi prima, quando la gente si divertiva a tirarci sassi o a sollevare l’auto con noi dentro.
Il giorno dopo, il quarto dalla partenza da Modena, ci rechiamo all’Ambasciata siriana per richiedere il visto; di prassi occorrono 24 ore, ma insistiamo fino ad ottenerlo subito. Torniamo a fare l’autostop che è già tarda mattinata, ma con Milvia non è mai un problema trovare un passaggio: se non la prima, la seconda auto in genere si ferma. Quasi tutti usano squisite gentilezze nei suoi confronti ed è sempre grazie a lei se alcuni pasti sono offerti così spontaneamente. A causa della tarda partenza da Ankara ci troviamo però al bivio sulla costa che è quasi buio, con l’ultimo conducente che ci raccomanda di fare attenzione. Entriamo nella trattoria del bivio frequentata da camionisti; alcuni di loro ci invitano al tavolo e ci procurano un passaggio fino ad Adana. In cabina siamo in quattro, noi due in mezzo con Milvia accanto all’autista. L’interruttore della luce è in alto e spesso viene acceso e spento da un impassibile turco che ogni volta struscia il braccio ad arte sul seno di Milvia, ma a parte ciò tutto fila liscio: muti per l’intera durata del viaggio. Ad Adana troviamo una camera nell’hotel più fatiscente tra i fatiscenti.
Medio Oriente (24 Marzo). Sul litorale tra Adana e Iskanderun assistiamo al rientro delle truppe turche da Cipro. Giunti a Latakia in Siria, prendiamo un carro pieno di gente diretto a Homs e qui un bus per Damasco. L’autista si occupa di Milvia, le offre dei biscottini, e durante una sosta rimediamo anche due uova al tegamino. Arriviamo a Damasco che è notte; fermiamo un’auto piena di giovani, che gentilmente ci portano nel quartiere degli alloggi economici. Iniziamo il sesto giorno a bordo di un camion diretto al confine giordano, in un paesaggio piatto, arido, ed un cielo azzurro, limpido, quasi accecante. I segni della guerra sono evidenti: movimenti di uomini in tenuta da combattimento, fabbriche e case mimetizzate, alcune distrutte dai bombardamenti. A destra le alture del Golan sono ben visibili ed alcuni Mig ci sorvolano diretti in quella direzione. Appena passato il confine ritroviamo la colonna di Mercedes; gli autisti, contenti quanto sorpresi di vederci con una tabella di marcia simile alla loro, ci portano fino alla capitale.
Gentilissimi, ci invitano a casa dalle loro famiglie e ci aiutano a rintracciare Awad nel centro di Amman. E’ fuori col taxi, anche lui lavora qualche ora al giorno per finanziare i ragazzi al fronte. Al rientro, quando ci vede, sembra impazzire dalla gioia, consegna le chiavi del taxi ad un altro socio e ci porta subito a casa sua. Rivedo la madre e le graziose sorelline Fatuma e Gesira, rispettivamente di 5 e 12 anni, che si agghindano per il nostro arrivo. Una grande accoglienza ed un lettone preparato con le lenzuola della dote della figlia già sposata. La casa, in un modesto rione fuori città, è in argilla con l’interno ordinato e pulitissimo. La sera Awad, con un amico che possiede l’auto, ci porta al The Diplomat, un elegante ristorante con musica, per continuare a festeggiare. Vuole sapere come stanno e cosa fanno gli amici di Modena Paolo e Adriano, perché non sono venuti e tante altre cose.
Seduti al tavolo di fronte c’è un sultano cugino di re Hussein in compagnia del direttore della televisione giordana, che ci guardano con insistenza, probabilmente attratti dall’atmosfera briosa del nostro tavolo. Turisti in Giordania non ce ne sono, pertanto ogni bianco è guardato con sospetto e noi siamo in compagnia di due rivoluzionari palestinesi. Awad mi avvisa di stare attento a parlare perché due ficcanaso ci stanno ascoltando. Questi si rivolgono a noi con garbo ed in pochi minuti sono seduti al nostro tavolo. Dalla Giordania passiamo alle bellezze dell’Italia, quindi si alzano e salutano. Appena usciti dal locale, Awad sorride divertito. Dice che sono venuti ad indagare sulla nostra identità, perché temono che in questo periodo i palestinesi stiano organizzando un colpo di stato, e ridendo conclude: “se anche fosse, non avremmo certo bisogno di voi due”. In effetti, tutta questa gente che gira disinvolta armata di mitra, pistole, bombe, qui, lontano dal fronte, fa uno strano effetto. Ma Awad ribatte che qui ad Amman c’è un altro fronte, alludendo all’esercito monarchico, e racconta: “anche tra palestinesi esiste una sostanziale differenza. Ad esempio i Feddayn di Arafat a nostro avviso sono troppo moderati, hanno le uniformi troppo stirate, in ordine e percepiscono anche uno stipendio, rivoluzionari stipendiati insomma. Noi marxisti-leninisti invece viviamo di donazioni. C’è anche differenza tra noi e i giordani; gran parte di loro è benestante, seguace del re reazionario e filo-americano, mentre i palestinesi sono emarginati in baracche e tendopoli, senza lavoro e col cibo razionato, ma così ben armati da rappresentare una seria minaccia per la monarchia. La situazione per i palestinesi è drammatica, questo squilibrio genera inoltre una delinquenza che disturba parecchio la borghesia locale, la quale comincia a dare segni di insofferenza e per le strade si respira aria di forte tensione”. Usciti dal locale siamo fermati da una jeep di militari giordani in assetto da combattimento e dall’aria poco rassicurante, passano però tre commandos palestinesi, si fermano a litigare duramente coi militi e gli impongono di lasciarci andare: “Questa è roba nostra”. Mentre parliamo, i tre ragazzi vengono accostati dall’auto dell’ambasciatore dell’Arabia Saudita, che gli allunga una busta contenente un obolo in sostegno, non ufficiale, alla causa palestinese. Amman è una capitale nelle retrovie, totalmente immersa nella dimensione di guerra. Awad racconta che solo ieri mattina la città è stata sorvolata da aerei israeliani: con l’allarme centinaia di persone armate di Kalashnikov si sono affacciate alle finestre per sparare verso il cielo. La settimana scorsa, invece, Ad un guerrigliero, che camminava per il centro, è caduta una bomba a mano e, per evitare una strage, l’ha coperta col suo corpo rimanendo dilaniato.
Domani andremo alla base palestinese e Awad mi avvisa che molti dei ragazzi conosciuti lo scorso dicembre sono stati uccisi nei combattimenti; sottolinea che sono stati mesi duri anche a causa del re Hussein. Secondo lui il vero nemico del re non è Israele, ma il popolo palestinese, che ormai ha fondato uno stato nello stato, non segue le leggi del regno e mette in pericolo il trono...
Per leggere la seconda parte:
Diario di guerra dal fronte palestinese: Al fronte
Per leggere la terza parte:
Diario di guerra dal fronte palestinese: Operazione "Talet Musa"
Per leggere la quarta parte:
Diario di guerra dal fronte palestinese: Verso casa