Negli ultimi anni ho preferito viaggiare solo, spesso modificando gli itinerari strada facendo, senza dover spiegare o discutere su cambiamenti di rotta repentini dettati da suggerimenti o suggestioni raccolte lungo il percorso. Questa volta però mi sono lasciato conquistare dall’idea di accettare come “compagno” di viaggio una donna. Lei è Patrizia Diacci, fotografa professionista amica di amici, ispirata dalla frase del poeta bolognese Luca Gamberini: “Se non inseguiamo i nostri sogni, saremo inseguiti dai nostri rimpianti”. Un tipo attento, duttile, attratta dalle culture orientali capaci di coniugare il sacro col profano. La curiosità di viaggiare gomito a gomito con una donna amica ma sconosciuta, comprendere come pensa, valuta o giudica le situazioni da un punto di vista prettamente femminile, mi ha convinto che sarebbe stata un’esperienza utile nonché nuova e interessante: “Una donna per amico”.
Avevo già visitato la Birmania negli anni ‘70 e ‘80, quando concedevano il visto per una sola settimana, sempre diretto alle bellezze situate nel Nord del Paese, le uniche senza divieti. La notizia che l’accordo del governo con l’etnia Karen consente ora di visitare anche la parte meridionale del Paese, in passato chiusa ai visitatori a causa di una guerra durata più di sei decadi, mi sollecita il desiderio di andare a curiosare sul posto, prima che si sparga troppo la voce, per sfruttare il privilegio di poter toccare con mano la cultura ancora intatta di queste genti capaci di riportarti lo spirito indietro nel tempo.
La storia della Birmania, ex Myanmar (si può dire in entrambi i modi), è inscindibile da quella delle regioni limitrofe di Cina, India e Thailandia, in un intreccio di vicissitudini belliche e non, attraverso le civiltà che l’hanno abitata nei secoli, principalmente Mon, Tai, Shan, Pyu e Bamar. In tempi recenti, fino al 1937 la Birmania era una provincia dell’India Britannica. A seguito di rivolte anticolonialiste le fu concesso un autogoverno, tuttavia, il grosso degli affari rimaneva nelle mani di inglesi, indiani e cinesi, che comunque portavano e tuttora portano progresso all’economia. Solo alla fine della Seconda guerra mondiale e la sconfitta del Giappone che aveva occupato il Paese, il 4 gennaio del 1948 la Birmania ottiene la piena indipendenza dal Regno Unito. Le classi dirigenti birmane provarono a creare un regime democratico che fu brutalmente stroncato nel 1962 dal colpo di stato del generale Ne Win, ideologo di un esclusivo Eden buddista sulla Terra che chiamerà “la via birmana al socialismo”. Da allora seguì mezzo secolo di isolamento dal resto del mondo, con al suo interno una miriade di gruppi armati che da sempre combattono il governo centrale. Esistono più di cento gruppi etnici che hanno interessi diversi e parlano lingue diverse. Dopo il massacro della rivolta studentesca denominata 8888, in riferimento all’8 agosto dell’88, Ne Win fu costretto a cedere le redini ad un dittatore meno narcisista. Gli anni Novanta vedono la vittoria della Lega Nazionale per la Democrazia di Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la pace, e la resa di Khun Sa, il Lord della guerra nel triangolo d’oro dell’oppio, ma i massacri agli oppositori e le continue violazioni dei diritti umani continueranno fino al 30 marzo 2016, quando si insedia il primo governo democraticamente eletto nella storia del Paese. Al momento attuale si sta attraversando un delicato momento di transizione. Sono state varate riforme atte ad ottenere una democrazia liberale per una riconciliazione nazionale, liberando prigionieri politici e allentando la censura sulla libertà di stampa.
Di recente il Myanmar ha aperto al turismo le sue frontiere di terra e il visto di 28 giorni si può ora ottenere anche online o direttamente all’aeroporto. Tuttavia, questo rimane un Paese in guerra tra il governo centrale a maggioranza Bamar e le minoranze degli Stati più ostili alla visione di una grande Birmania, dove al turista è ovviamente proibito andare. La capitale è stata spostata a Naypyidaw, 320 km più a Nord, lontana dai cicloni che già più volte hanno distrutto la costa, tuttavia Yangon, ex Rangoon, coi suoi sei milioni di abitanti rimane a tutti gli effetti la capitale economica di questo straordinario Paese e la più trafficata, pur conservando un’atmosfera tutto sommato provinciale, niente a che vedere con la frenesia che si respira nella vicina Bangkok.
Eccoci a Yangon, la città delle pagode d’oro, con le sue facciate di edifici coloniali intrise di umidità per il clima monsonico, spesso ricoperte di muffa, e le strade affollate da uomini e donne che indossano il longyi, lunghi pezzi di stoffa unisex, simili ai sarong, avvolti alla cintura per coprire la parte inferiore del corpo. Il fascino della Birmania sta proprio nella sua lunga emarginazione, tutto qui è rimasto in sospeso tanto da sembrare ancora oggi un Paese incantato. Lentamente si rimane sedotti da ciò che ci appare inconsueto, a cominciare da un semplice calendario che indica lo stesso giorno e mese ma nell’anno 2563, dell’era buddista, o dalla settimana che secondo l’astronomia birmana è composta da 8 giorni, l’ottavo giorno è ricavato dividendo il mercoledì in due parti, mattino e sera. Già sul taxi dall’aeroporto colpisce subito la stranezza del volante posizionato all’inglese mentre stiamo guidando a destra con una visuale della strada ovviamente limitata. Damian, fotografo londinese che gira con un pesante corredo 6x6 Hasselblad, totalmente innamorato della Birmania, racconta che molti incidenti sono a causa di questo motivo. Fu Ne Win che nel 1970 decise di non seguire più l’esempio inglese pur tuttavia continuando ad importare auto con la guida dalla parte sbagliata. Si mormora che la decisione del dittatore fu presa quando, per deviare la cattiva sorte, il suo astrologo gli suggerì di fare qualcosa che fosse “di destra” perché il Paese stava andando troppo a sinistra, manipolandone il senso. Altra stranezza si è manifestata quando l’astrologo gli disse che 9 era il suo numero fortunato. Ne Win fece rimuovere tutte le banconote da 100 Kyat, la moneta locale, per sostituirle con quelle da 45 e da 90, entrambe multipli di 9.
Di prima mattina, uscire in strada e vedere uomini indossare una lunga “sottana” lascia piacevolmente stupiti, anche se poi ci si abitua velocemente. Anche le donne meritano attenzione, coi volti tinti dalla polvere gialla di tanaka, i loro giacchettini attillati ed i longyi che fasciano i corpi fino ai piedi, appaiono decisamente attraenti.
Seduti all’ombra nella piattaforma in marmo che circonda la superba Pagoda Shwedagon, Patty ed io ci soffermiamo a godere del privilegio di trovarci immersi nella bellezza della spiritualità birmana, presi da una grande emozione. Quello che colpisce è la pace e la grazia, la concentrazione dei fedeli nel raccogliersi in se stessi e, al tempo stesso, il loro modo armonioso, intenso e raffinato di pregare. Davanti a noi un abbagliante e gigantesco stupa, la cupola a forma di campana alta 99 metri, rivestito di lamine d’oro dello spessore di 3 millimetri per un totale di 60 tonnellate, con la cima ricoperta da migliaia pietre preziose e diamanti e al suo interno gelosamente custodite le reliquie di quattro Buddha. Numerosi, inoltre, sono i templi e i piccoli stupa contenuti all’interno del sacro complesso attorno alla pagoda centrale. Il tardo pomeriggio è il momento più suggestivo, perfetto per scattare foto, quando la luce calda del sole si riflette sulla parete dorata della pagoda, cogliendo il momento più intenso della giornata. Costruito su una collinetta e visibile a chilometri di distanza, è uno dei siti sacri del buddismo nel mondo, meta di pellegrinaggio di fedeli provenienti da tutto l’oriente. La struttura originaria pare risalga al 480 a.C., mentre quella attuale è del 1769, ristrutturata a seguito di un terremoto. Delle quattro scalinate d’accesso, la principale è quella a Sud, in Pagoda Road, presidiata da due chinthe alti 9 metri, un animale mitologico imbattibile, metà leone e metà grifone. Secondo la tradizione, questi temibili guardiani sarebbero incaricati di controllare che i visitatori si tolgano scarpe e calzini prima di entrare. L’area circostante la pagoda ospita il nucleo antico della città e merita davvero di essere visitata; furono poi gli inglesi a spostare il centro sul fiume dove si trova ora. Bancarelle e negozietti dovunque, a migliaia, dentro e fuori l’area della pagoda. Qui, pagando, chi libera uno o più uccellini tenuti in gabbia sarà premiato nel ciclo buddhista delle rinascite.
Sule è l’altra pagoda a campana di dimensioni minori ma altrettanto celebrata e antica (III secolo a.C.), alta 46 metri e curiosamente sistemata nel mezzo della principale rotatoria del centro, punto di riferimento per tutti gli stranieri che visitano la città per la prima volta. Come in quella di Shwedagon si dice ospiti l’ennesimo capello di Buddha e pure qui assistiamo al costante flusso di fedeli e bonzi durante tutta la giornata. Molti vengono per depositare nella piccola chiatta dorata, a forma di uccello mitologico, una preghiera scritta a penna su fogli di carta. La chiatta poi, legata ad una catenella, tramite carrucola viene sollevata al piano superiore dove un monaco raccoglie i fogli prima di rimandare la chiatta di nuovo giù per raccogliere altri fogli. Ci spiegano che è un’antica forma di corrispondenza mistica tra terra e cielo, coi monaci come messaggeri. Tutto è metaforico, anche la base ottagonale della pagoda, propria dell’architettura Mon, riporta al numero 8, il numero rituale della cosmologia birmana. Nella storia recente, la pagoda di Sule è stata anche il punto di incontro tra insorti e militari sia nelle rivolte del 1988 che nella rivoluzione dello zafferano del 2007. Sia all’interno che all’esterno vediamo tanti negozietti di astrologi e lettori della mano pronti a predire il futuro e Patty incuriosita, un po’ seria e un po’ divertita, ascolta con attenzione il suo destino in un inglese decisamente storpiato, di difficile comprensione. L’esperimento di convivenza con l’amica Patty sta funzionando, ci consultiamo e ci muoviamo in buona sintonia e sovente vedo gratitudine nei suoi occhi per averla condotta in un mondo magico, a contatto con realtà a noi tanto diverse.
Ceniamo all’aperto con Damian, il cinquantenne inglese conquistato dal Myanmar tanto che questa è la sesta volta che ci viene. Ci pensa lui a mostrarci qualcosa di meno mistico e più concreto, portandoci ai moli di attracco dei river-taxi sul fiume Yangon, all’altezza della 18th Street. Il via vai di barconi stipati di gente e i caricatori di porto al lavoro, nel trasporto a catena di sacchi e bidoni enormi contenenti chissà cosa, ci galvanizza. È l’atmosfera già vista nei film anni ‘50, quelli in bianco e nero intrisi di umanità operosa, e Patty in estasi comincia a scattare foto a raffica. Damian considera questo luogo una sua scoperta, contento di appagare la nostra curiosità sottolinea con ironia che per certo qui i turisti non vengono.
Una meta per me irrinunciabile è la visita allo Strand Hotel (1901), avendo già visitato e descritto in un paio di articoli gli altri due mitici hotel di proprietà dei fratelli armeni Sarkie, ovvero il Raffles di Singapore (1887) e l’Eastern & Oriental di Penang (1889) in Malaysia. Così ora li ho visti tutti e tre! Tre dei simboli della mondanità coloniale, creati dagli albergatori più famosi d’Oriente. In quel periodo lo Strand era uno degli hotel più lussuosi dell’impero britannico, con una clientela rigorosamente bianca ed un’infinità di ospiti illustri, tra cui gli scrittori Rudyard Kipling, George Orwell, Somerset Maugham e, da quel che ho visto, nel 1991 anche il nostro conterraneo Tiziano Terzani. Il quarto dei fratelli, Arshak, merita di essere ricordato perché era molto amato. Un personaggio estremamente generoso e cultore dell’amicizia e della bella vita più che dei bilanci aziendali. Queste scelte di vita, nel 1931, portarono la famiglia al fallimento, poco prima che Arshak si spegnesse. Il suo fu comunque un funerale memorabile, cui presero parte le autorità locali ed un fiume di persone. Oggi, per molti viaggiatori questi tre hotel sono diventati una specie di santuario, con file di turisti che chiedono di entrare solo per fotografare.
Siamo all’East Hotel, in Sule Pagoda Road, nel quartiere centrale più densamente popolato e comodo a tutto, tuttavia di stranieri se ne vedono pochi. Per cambiare valuta andiamo nel vicino Scott Market e per cenare nel ristorante accanto all’hotel, dove incontriamo Corrado e Rita, proprietari di una gelateria sul lago di Garda. Ci invitano per un drink sulla elegante terrazza panoramica del Yangon Rooftop, al ventesimo piano, il grattacielo dietro l’angolo. Due mondi a confronto, qui regna il fascino dell’occidente. C’è da augurarsi che l’apertura al capitalismo non porti un altro genere di miseria, anche se la fila di speculatori stranieri che bussano alle porte non fa ben sperare.
Il tempo a nostra disposizione a Yangon sta per scadere, è ora di muoverci. Nei pressi della stazione dei treni, dormitorio dei senza tetto, fra i tanti che offrono servizi di giorni con auto private scegliamo di ascoltare Mr. Ko Tay Za, di chiara origine indiana che, in modo curiosamente suadente, ci propone un’agevolazione turistica ritagliata su misura per noi, in base alle nostre esigenze. Lo seguiamo alla sua agenzia anche se con diffidenza, giusto per vedere. Si dimostrerà la scelta migliore, comoda e piacevole, evitandoci fatiche e stress e sfruttando al meglio il tempo con una spesa decisamente conveniente, attraverso una intensa ed inevitabile contrattazione. Si tratta di spostarci in auto con un autista per 320 km in tre giorni, visitare tutti i siti lungo la via fino a Hpa-an per 25 euro a testa al giorno. La nostra idea era quella di andare a Bago in treno e proseguire verso Sud in autobus ma questo accordo cambia i nostri piani in meglio. L’agenzia si chiama City Holiday ed è molto affidabile.