Al ritorno da Kassala troviamo il nostro hotel, El-Khalil, pieno. Il proprietario ci rimedia una camera singola ma con un letto ad una piazza e mezzo per due persone. El-Khalil è un covo di amici eritrei che, venuti a conoscenza che siamo stati alla loro base della guerriglia di Kassala, ci chiedono con grande interesse le nostre impressioni. In effetti, la tragedia della guerra in Eritrea ci sta coinvolgendo, a Khartum come a Kassala, tanto che passiamo molto tempo a parlarne. Mohamed Omar Alì ci “mitizza”.
Quando ci incontra sembra che veda la Madonna, mi fa annotare i rispettivi indirizzi con la giocosa ed esaltata promessa: “Ti scriverò fino alla morte”. Spiega che nel suo nome c’è Alì ed “Alì” è come gli eritrei usano chiamare il bianco italiano, in gergo tigrino, mentre “Bet-Alì” sono gli italiani, in plurale. Non capisco se in modo rispettoso o dispregiativo. Tuttavia, il nostro amico non si risparmia negli apprezzamenti che abbiamo già sentito tante volte: “Gli italiani sono brava gente, positivi, hanno costruito tante cose utili nel nostro paese, mentre gli inglesi sono cattivi, sporchi, distruggono e rubano, ed anche questa guerra è causa loro per aver tracciato i confini a loro esclusivo interesse, senza tener conto della gente che vi abita”.
E aggiunge: “Stessa cosa hanno fatto col Darfur che è stato un sultanato indipendente per svariati secoli e gli inglesi lo hanno incorporato al Sudan”. Parlando di nuovi colonizzatori, Mohamed vuole fare una distinzione: “Quando gli americani sostenevano il Negus Hailè Selassiè, l’ultimo imperatore d’Etiopia scomparso nel 1975, lo facevano passivamente, mentre adesso che ci sono i russi, quelli ci massacrano attivamente”. Sempre alla caffetteria dell’hotel conosciamo dei signori di Juba, di carnagione nerissima, che tengono subito a fare una precisazione: “Noi siamo cattolici della chiesa di Roma. Non siamo né arabi e né musulmani”. Parlano un ottimo inglese, lingua utile per comunicare con le tribù del Sud Sudan, divise anche dai propri diversi dialetti. Si dichiarano contro il governo di Khartum: “L’’unione col nord avvenuta sei anna fa, dopo la guerra civile, non ci piace”.
Lunedì 12 marzo. Notte molto fredda e tosse persistente. Con le tre fototessere richieste per il visto, andiamo subito all’ambasciata dello Yemen del Nord. In genere occorrono due giorni per averlo ma il console in persona si avvicina e a titolo di favore ci sussurra, in modo da non essere udito da altri: “Tomorrow”. Ha voglia di parlare e di esaltare, con informazioni base e di vario genere, il suo paese: “La casa tipica sulla rupe, pubblicata nei manifesti turistici, la trovate nella Wadi Dahr Valley, a 10km da Sana’a. Molto belli anche i centri di Sadah e Manaka, sulla via per Hodeida. Sana’a si trova a 2200 metri d’altitudine e di notte fa freddo. Con meno di dieci dollari (30-40 Rials) potete dormire in una delle locande che si trovano attorno alla porta di Bab al Yemen, il cosiddetto Yemen Gate, in pieno centro. Per gli spostamenti in città si usano i mototaxi. Lo Yemen è esentasse, duty free, pertanto troverete dei supermercati molto forniti, la carne e le uova sono però molto costosi”.
Visto che tra qualche giorno saremo nel suo paese, da buon musulmano il cordiale console cerca ora di farci comprendere alcune cose: “Noi musulmani preghiamo cinque volte al giorno ed ogni preghiera - Salat - ha un nome: all’alba, dalle 5 alle 6, si chiama al-Sobò, alle 13 Aduhur, alle 16 al-Hasor, alle 18-19 al-Mokrop e alle 20 al-Hescia”. Prendo nota dei nomi solo perché è raro trovare una persona che te li cita. Racconta poi mille altre cose del Corano per noi difficili da seguire e da capire.
Passeggiando per il centro vediamo che in un cinema stanno proiettando il film indiano “Bobby”, un mega romanzo musicale girato a Bollywood, di enorme successo, che ho già visto a Bombay nel 1974. Ci comprai anche la cassetta con le canzoni del film: bastava nominare “Bobby” ad un indiano qualsiasi che subito questi si metteva a cantare. A Bombay credo sia rimasto in proiezione nella stessa sala per oltre un anno. Convinco Aldo ad entrare e la cosa che questa volta più mi colpisce non è la spettacolare e abbagliante trama che già conosco ma i sudanesi che nelle prime file si spinellano disinvolti. In effetti, questo è un film già ipnotico di suo.
Martedì 13 marzo. Questa è una mattinata di impegni, per prima cosa andiamo a ritirare i visti all’ambasciata dello Yemen del Nord, eppoi all’ufficio della dogana dietro alla posta per spedire un pacco di 4kg in Italia, contenente giocattoli di legno e in latta, fatti da bambini e comprati qua e là. Ho incluso pure un barattolo di plastica vuoto del talco Johnson & Johnson, dal quale è stato ricavato un autobus con tanto di ruotine. A seguire siamo ai telefoni, ma chiamare l’estero dal Sudan è un’impresa: un tizio è in attesa da tre giorni e quindi rinunciamo.
Ad ora di pranzo siamo di nuovo a goderci le bancarelle del mercato di Omdurman. Vendono molti oggetti in avorio, in particolare collane e braccialetti con palle belle grosse e a prezzi stracciati. Qui ci aggancia Amari, non eritreo ma etiope di Addis Abeba, pure lui parla italiano ed è un rifugiato come gli eritrei. Racconta che suo padre è in prigione e sua sorella è “sulla strada” e aggiunge con impeto: “Gli etiopi che sono in Sudan sono scappati da torture e massacri voluti dal dittatore rosso Menghistu contro civili sia eritrei che etiopi. Ogni giorno i soldati entrano nelle case, seviziano e rubano, sgozzano la gente e tagliano gli arti ai bambini. Non vogliono che gli stranieri entrino nel paese perché nelle strade ci sono camion pieni di morti”. Ma quanta orribile crudeltà, sarà tutto vero? La domanda sorge spontanea, in quanto vivere in uno stato di esaltazione perenne può portare ad alterare la narrazione di quanto sta succedendo.
Al ritorno facciamo un salto al Circolo Italiano, alcuni signori a bordo piscina stanno parlando della diga di Aswan che ora funziona con un solo generatore su tre. Questo, secondo quanto dicono, determina che i detriti non siano più spinti sul delta come protezione naturale, gli squali riescono così ad entrare nel Nilo e non c’è più tanto pesce per i pescatori. Mettono in discussione i sovietici che hanno partecipato alla costruzione della diga: “I russi non sanno lavorare”. Un cameriere in disparte ci confida che il Circolo finanzia il Fronte Eritreo. Niente di strano, dietro le quinte qui tutti sono coinvolti in questa guerra, nessuno escluso.
Mercoledì 14 marzo. Eclissi di luna quasi totale, durata tantissimo, più di tre ore. Ci rechiamo a fare colazione nella solita locanda nei pressi della stazione. La maggior parte dei sudanesi mangia con le mani da un piatto in comune ed usano pezzi del loro pane piatto, kisra, per raccogliere i sughi. Da evitare la shata, una salsa per noi troppo piccante. Buono invece il piatto di fagioli di fava ed i dolcetti alle nocciole come dessert. Molti i piatti a base di pesce del Nilo. I marciapiedi sono pieni di sabbia e parecchie strade del centro sono ancora in terra battuta. Sotto i portici dell’Acropole Hotel rivediamo Enzo e Laura di Milano che noi scherzando chiamiamo il Duca e la Duchessa perché di ritorno da un viaggio massacrante nel deserto si lamentano di tutto mantenendo però sempre un atteggiamento altezzoso.
Parlando di conoscenze in comune, resto sorpreso nel sentire che Laura conosce bene Sandra von Glasersfeld, figlia del filosofo tedesco Ernst von Glasersfeld e moglie dell’amico Franco Ceccarelli, appartenente al gruppo musicale modenese Equipe 84. Con Laura ed Enzo entriamo a curiosare all’Acropole, il primo hotel storico aperto a Khartum nel 1952 da un greco di Cefalonia rifugiatosi qui durante la Seconda guerra mondiale. Dopo l’indipendenza del Sudan nel 1956, dal colonialismo Anglo-Egiziano, l’hotel divenne il punto popolare di ritrovo per giornalisti, diplomatici, archeologi ed altri ricercatori. È tutto scritto nelle locandine d’epoca messe in bella mostra nella hall. Visto che partiamo la stessa sera per Sana’a salutiamo gli amici viaggiatori con il consueto scambio di indirizzi e la promessa di rivederci a Modena o a Milano.
Passiamo a salutare anche il bravissimo segretario d’ambasciata Vito Indelicato, d’origini eritree pure lui, che ci invita a fermarci in ambasciata per un tè. Dice che facciamo bene ad andare al fresco dello Yemen e ne spiega il motivo: “Tra un mese a Khartum il calore toccherà i 50-60 gradi e siamo già tutti preoccupati al pensiero di quando tolgono la corrente elettrica e i condizionatori non funzionano. Allora si vedono intere famiglie che emigrano in casa di amici e parenti dove c’è ancora corrente”.
Gira e rigira alla fine si finisce sempre a parlare della guerra, del problema dei rifugiati e Indelicato, nel ruolo di funzionario d’ambasciata, si rivela informatissimo: “Nonostante il determinante aiuto sovietico all’Etiopia, gli eritrei credono naturalmente in una vittoria finale. Senza russi e cubani, in pochi mesi gli eritrei prenderebbero tutto. Gli etiopi cominciano a fare la guerra alla 6 del mattino e smettono alle 18, dall’alba al tramonto di ogni giorno. Dopo le 18 non si fidano, mentre le incursioni degli eritrei avvengono di notte. Pochi giorni fa a Nagfa, postazione strategica in mano agli eritrei, l’esercito etiope ha fatto un massiccio assalto corpo a corpo diretto da tecnici sovietici.
È durato parecchi giorni ma non sono riusciti a niente, lasciando sul campo circa 1500 morti e 2000 prigionieri. Adesso i prigionieri etiopi sono diventati ben 15 mila, tenuti in grandi fosse tra i monti dell’Eritrea”. Si lamenta che i tre principali gruppi per la liberazione non trovino un accordo per combattere insieme: “Anche tra eritrei fanno un gran casino con le varie sigle e non si capisce mai come sono divisi”. Indelicato si dispiace pure per la moltitudine di rifugiati da sistemare: “Vicino Gedaref e Port Sudan ci sono due grandi campi profughi, senza luce e privi di ogni elementare comfort. Prima la Somalia dava il passaporto somalo agli eritrei ma adesso è diventato più difficile. Ora le Nazioni Unite daranno un loro passaporto ai rifugiati per permettergli di muoversi, emigrare in altri paesi”.
In sintesi, secondo Indelicato, tutto ruota attorno all’Unione Sovietica e al suo progetto di egemonizzazione di gran parte dell’Africa: “I russi stanno giocando un ruolo importante in almeno altre tre guerre: Angola, Mozambico e in Ogaden tra Etiopia e Somalia. Qui Mosca ha dovuto scegliere tra due paesi socialisti ed ha deciso di sostenere l’Etiopia, costringendo la Somalia a schierarsi con gli americani. Bisogna prendere atto che in ognuno di questi conflitti i filosovietici hanno la meglio”.
Alla caffetteria dell’El-Khalil hotel stringiamo la mano ancora una volta ad Osman ed ai nostri amici eritrei di questi 18 giorni trascorsi in Sudan. Questa volta c’è pure Jamal Abuelama, amico di Osman, un eritreo musulmano che ha aperto una fabbrica di abbigliamento nel Kuwait. Ci invita ad esportare le sue cose in Italia, il prezzo è buono ma le camicie che ci mostra sono orribili, di polyester e viscosa. L’aereo per Sana’a parte all’una di notte. Alle 22 facciamo l’autostop e in un attimo siamo all’aeroporto. I sudanesi sono gli arabi più gentili e pacifici dell’Africa, anche il loro suono gutturale è più dolce e in strada non suonano mai il clacson, a differenza di molti altri paesi arabi. Perfino la polizia è tranquilla e quasi inesistente, quando ci fermano sembrano imbarazzati nel disturbarci.
Al controllo dei documenti, fingiamo di aver perso l’importante carta della dichiarazione valuta e ci liquidano con un sorriso. L’aereo è in ritardo di un’ora, al gate d’attesa incontriamo Francisco, lo spagnolo conosciuto a Gedaref e amico di Maria conosciuta a Kassala. Viene con noi a Sana’a.