Dai viaggiatori indipendenti incontrati in giro per l’Indocina spesso ho sentito parlare in termini lusinghieri dell’arcipelago di Koh Chang, tanto da stimolare la mia curiosità. Si tratta di una settantina di isole perlopiù disabitate, dichiarate parco nazionale, delle quali le più visitate, oltre alla principale Koh Chang, sono: Koh Mak, Koh Kood e Koh Wai. Koh Chang, il cui nome significa “isola degli elefanti”, è la seconda isola per estensione della Thailandia ed è collocata sulla costa orientale del Golfo del Siam, in prossimità del confine cambogiano, 280 km a Sud-Est di Bangkok. È la mia settantacinquesima volta che entro in questo straordinario Paese, in cui tutto mi è familiare.
Arrivando dalla Cambogia mi fermo a Trat, la prima cittadina in territorio tailandese, per salire sul minibus diretto a Koh Chang. Questi servizi sono ben organizzati e nel costo del biglietto sono inclusi l’attraversata in traghetto, della durata di 30 minuti, e l’accompagnamento fino all’hotel di destinazione. Essendo un’isola montuosa, ricoperta da una fitta vegetazione tropicale, esiste solo una strada litoranea che scorre lungo la costa. Susan e Peter, una coppia di inglesi alla loro seconda visita, mi parlano con trasporto della pericolosa peculiarità di quella strada, specie quando il manto è bagnato e scivoloso, per i ripidi saliscendi che causano centinaia di feriti e di morti l’anno, perlopiù turisti inesperti che si muovono in prevalenza su scooter presi a noleggio. In effetti, appena usciti dal porticciolo, ci troviamo davanti ad una salita da superare che pare un muro, impresa impegnativa anche per chi viaggia in auto. Una pendenza mai vista prima, inquietante, con gli inglesi che guardano soddisfatti il mio stupore, come per dire: “Hai capito adesso cosa intendevamo?”.
La prima spiaggia che superiamo è White Sand Beach poi, a seguire, Klong Prao Beach, Kai Bae Beach e, dopo un altro ripido “muro”, si scende a Lonely Beach, da me scelta per il nome suggestivo anche se balza subito agli occhi che di solitario qui c’è solo il nome. Località balneari colonizzate dalla nuova ondata di turisti russi, perlopiù famiglie, come un po’ dovunque in Thailandia e nel Sud-Est asiatico. Lonely Beach è però, a differenza degli altri agglomerati turistici, la più alternativa e raduna i viaggiatori indipendenti di genere freak, con discoteche e musica a tutto volume fino a notte fonda e oltre. Certamente il posto più vivace dove stare dopo il tramonto. Alloggio in una cameretta del Margaritaville, un bar per freak colti da beat generation, situato in cima alla strada, nel punto più alto del villaggio. Struttura al naturale, con tetto di legno e foglie, amache e sui muri le scritte a caratteri cubitali che spiegano bene la filosofia del luogo: “The Wall of Bad Boys”, “Just Another Day in Paradise”, “It’s 5 o’clock Somewhere”.
Da Chris, il giovane gestore svedese, apprendo che le spiagge migliori sono a Sud, mentre quelle a Nord confermano che sono ormai dominio di tour operator finlandesi e russi. Insiste sulla prudenza in strada, solo il giorno prima dice di aver visto ben 7 incidenti di scooter. Sarà vero? Pare un’esagerazione, da bollettino di guerra. Ascolto e annuisco un po’ perplesso, ma quando giù in paese vedo un giovane turista appena caduto, con ginocchio e volto sanguinanti, inizio lentamente a preoccuparmi. La spiaggia dista circa un chilometro dal villaggio in cui predomina, anche qui, la presenza di turisti russi che non parlano inglese, in gran parte di natura introversa e poco inclini a socializzare. La parte finale è la più tranquilla e scenografica, con le palafitte diroccate sul dirupo che chiude la baia. Qui incontro Elena di Stoccolma, appena arrivata da Koh Samet che mi consiglia vivamente di non andarci: “Luogo orribile! Bella la natura ma trascurata e sporca e soprattutto i thai del posto sono diventati scortesi e troppo interessati al business, gestiscono i trasporti ed ogni cosa è molto più cara che altrove ... non hai scelte per cui pare di essere in prigione”.
Ennesima conferma che i thai dei luoghi turistici sono cambiati in peggio negli ultimi anni, come purtroppo ho verificato di persona. A differenza di quando vi approdai io per la prima volta, mezzo secolo fa, ora le nuove generazioni sono cresciute con orde di turisti attorno e non danno più le attenzioni di un tempo.
È il momento di noleggiare uno scooter per dirigermi verso Sud, il costo è di 6 euro al giorno circa e 1,20 al litro la benzina. In effetti, il costante saliscendi e la guida a sinistra, all’inglese, non aiutano. Bisogna prestare più attenzione del solito. La prima tappa di rilievo, da non perdere, è il villaggio di pescatori di Bang Bao, un paese di palafitte affacciato su una tranquilla laguna protetta e sviluppatosi lungo il suo interminabile pontile che conduce al molo dominato dal faro, in cui è possibile salire e godere una veduta a 360 gradi dal centro della baia. Negozi, alberghi, diving centre, ristoranti, specializzati in frutti di mare, e tour operator, per le escursioni alle isole dei dintorni, si susseguono lungo questa insolita pedana coperta e sospesa sul mare. Proseguendo verso Sud, in vetta alla prima collina merita una sosta il Rasta View, un bar belvedere con i colori della Jamaica che offre un panorama d’eccezione sull’intero golfo dall’alto. Amache e comodi cuscini dovunque per fumare ganja e godersi un variegato tramonto esotico da poster, nonostante il martellante sottofondo di Bob Marley troppo scontato e ossessivo.
Giù dalla collina trovo Klong Kloi, l’ultima spiaggia su questo lato dell’isola ed è anche la striscia di sabbia più tranquilla e godibile. Anche qui, come dovunque nelle spiagge in Thailandia, vedo una marea di belle e filiformi ragazze occidentali tranquillamente sole. Mi chiedo dove sia il genere maschile… scambio qualche parola con due ragazzi irlandesi appena arrivati, molto attratti da un paio di piacevoli corpi femminili sdraiati al sole ma ovviamente non osano disturbare, devono ancora prendere confidenza con la realtà che li circonda. L’adattamento implica sempre un tempo per appropriarsi di abitudini e di stili comunicativi diversi dai nostri.
Nel primo centinaio di metri, all’ombra di palme si allineano alcuni rustici bar e ristorantini, ma bastano pochi passi e la spiaggia diventa silenziosa e solitaria, il posto migliore per un bagno, probabilmente come era l’attuale Lonely Beach un tempo. Lego con Margherita di Mestre, che si autodefinisce “traveller addictive”, e l’inglese Jessica Crisp, entrambe ex volontarie di qualche associazione non governativa in Nepal. Margherita dice di amare i Caraibi, tuttavia ne fa una sintesi spietata che condivido: “Ma cavolo, lì però non puoi lasciare niente in spiaggia o in giro che subito ti rubano ... qui non esiste il problema, nessuna percezione di rischio o paranoie, è tutto un altro andare”.
Per chi viaggia con un budget limitato, il BangBao Resort merita di essere preso in considerazione, mentre il Tropical Beach è un po’ più costoso ma ha l’aria condizionata nei bungalow. Ancora un paio di chilometri e la strada termina davanti alla barra di una estesa area che racchiude l’appartata e deserta Wai Chaek Beach: non è possibile continuare, bisogna tornare indietro. Raggiungo così il villaggio di Kai Bae, sede degli elefanti utilizzati a scopo turistico, ragione di scontro tra due filosofie di pensiero opposte: per taluni rappresenta una vergognosa schiavitù per altri invece la salvezza proprio dalla schiavitù del lavoro nei boschi, dove vengono maltrattati e dopati. Ogni singolo elefante viene affidato ad un tutore, detto mahout, con cui costruisce un rapporto simbiotico per tutta la vita. Vedendo come questi pachidermi sono accuditi e la sintonia che sanno creare con i bambini bagnandosi e giocando assieme, in questo specifico contesto la scelta degli elefanti come attrazione turistica la considero il male minore. Lo sfruttamento degli animali è una pratica che non mi corrisponde ma cerco di distinguere quando, immerso in una certa cultura, quel tipo di animale ha una sua sacralità che implica usanze e rituali non sempre facili da comprendere. Aldilà di tutto, misurare la forza, la lentezza, l’armonia dei movimenti e l’intensità del rapporto dell’elefante con l’uomo, ascoltare i toni vocali ed osservare i gesti che questo usa per comunicare è comunque sempre una grande emozione.
Torno a Lonely Beach dopo cena, quando il villaggio mostra il suo vero volto, quello della movida, coi disco-bar che competono tra loro per chi ha l’impianto con il volume più alto, da far vibrare i vetri delle finestre degli hotel dei dintorni fino alle 5 del mattino. Vedo joint d’erba sfrecciare da tutte le parti, in un’atmosfera piacevolmente freak style che pare ferma agli anni ‘70. Qui incontro alcuni rari viaggiatori italiani, tra cui Clizia e Chicco, una coppia di Pesaro che parlano a raffica con un marcato accento romagnolo, decisamente estroversi e molto simpatici. Chicco si toglie la camicia per mostrarmi con fierezza la sua schiena ricoperta da minuziosi tatuaggi, un mantra sulla pelle tracciato di anno in anno da un venerato monaco buddista che, per una serie di curiose e mistiche coincidenze, ha scovato in un paesino a Sud-Est di Bangkok. Marco Tortoreto di Milano, invece, da 8 anni è residente a Lonely Beach, gestisce una rustica Guest House in pieno centro ed è per me fonte di preziose informazioni. Inizia con l’ironizzare sul genere di clientela: “Arrivano qui con lo zaino nuovo, dicono di essere dei backpackers e di volere un prezzo cheap cheap ... poi tirano fuori dei cellulari da mille euro e delle carte di credito che solo per ottenerle devi avere un deposito di almeno 50mila dollari. E stiamo qui a discutere per un bath (0,3 centesimi di euro). Allora li mando a dormire in spiaggia dove ci sono tanti uccellini che fanno cheap cheap”. Marco ha 60 anni ben portati, fisico asciutto ricco di tatuaggi mistici e sguardo da ragazzino innamorato della vita, da dieci anni ha rinunciato alla sessualità per coltivare la sua spiritualità attraverso la meditazione, tre cani sempre al seguito ed una figlia adottiva, di nome Takkaten (Cavalletta), che fa i massaggi ai turisti sulla spiaggia nel modo thai tradizionale. Purtroppo, spiega, capita spesso che le giovani madri prostitute abbandonino i figli senza mai averli registrati, vengono inizialmente accuditi da amiche ma ben presto anche queste partono e i bambini rimangono soli, senza alcun tutore. Molti infatti spariscono nel nulla. Così Marco ha deciso di prendersi cura di Takkaten, registrandola in municipio come fosse una sua vera figlia al solo scopo di darle un futuro meno incerto. Marco si è inserito molto bene, i thai lo chiamano Maa Dii, che significa “il buon vento”, quello che porta la primavera tuttavia, in un recente contenzioso con i gestori del negozio di fronte, Marco ha alzato troppo la voce e questo fatto gli sta procurando enormi problemi, con denunce ed una causa legale in corso. Così, come in molte parti del Sud-Est asiatico, anche in Thailandia alzare la voce in pubblico in segno di collera o minaccia è un’offesa che si fatica a perdonare. Lui in questo Paese si sente a suo agio ma afferma che negli ultimi dieci anni la situazione è peggiorata tantissimo, con aumento di droghe e prostituzione, entrambe proibite ma ben tollerate, quanto fonte di notevoli introiti. Qui si dice che: “Una donna non la paghi ma gli fai un regalo”. E aggiunge: “Nel sociale i thai sono molto uniti tra loro, controllano le emozioni e non sono mai volgari”.
Il pregiudizio vuole che la Thailandia sia il paradiso del sesso, secondo la cultura occidentale. Ma la sessualità in questo Paese è parte integrante della sua cultura, quindi la sua pratica è sinonimo di vitalità e di piacere, tant’è che la prostituzione era considerata una professione come le altre e tuttora non esiste la benché minima condanna di tipo morale o religioso nei confronti di chi si prostituisce. Decifrare il mondo thai non è per niente semplice e Marco così afferma: “Pare abbiamo 13 modi di sorridere, uno per ogni circostanza, anche quando, in caso di incidente, si creano tensioni notevoli”. Infatti in Thailandia il sorriso viene utilizzato come strumento privilegiato di comunicazione non verbale, in ogni situazione che implichi emozioni, compreso la paura, l’imbarazzo, il dolore e perfino il rimorso. È importante sapere che quando i thai sorridono di fronte a qualcuno che cade, inciampa o sbaglia, non ridono di lui ma desiderano condividere con lui o lei l’errore con un sorriso, per sfumare la tensione e l’imbarazzo, minimizzando l’accaduto. Così per i toni della voce, non devono mai essere sopra le righe, sono inopportuni e mal tollerati: sfogare rabbia e aggressività è sinonimo di maleducazione e di grave mancanza di rispetto.