Cecchini. Alla partenza siamo in cinque, guidati da Hassan, tutti sui vent’anni. Uno ha un vecchio fucile a colpo singolo con un grande mirino a cannocchiale da safari, gli altri tre sono armati con il solito mitra russo Kalashnikov. Scendiamo un sentiero alle spalle di Sciuna e incontriamo alcuni soldati del re, in rozze uniformi stinte, che ci ordinano di tornare indietro. I quattro li trattano con noncurante disprezzo e senza preoccuparci delle minacce superiamo il blocco e continuiamo indisturbati; è così che ogni tanto si sparano tra arabi. Camminiamo a lungo senza soste, attraversiamo zone ricche di vegetazione e ad un ruscello ci abbandoniamo a bere, a lavarci dal sudore e ci sistemiamo per uno spuntino a base di formaggio ed erbe commestibili che i ragazzi staccano dal suolo. Attraversato il ruscello, la marcia rallenta, si entra in una zona meno tranquilla, i quattro si fanno più guardinghi ed io con loro. Avanziamo distanziati e chini, preceduti da Hassan, che osserva e ci fa segno di seguirlo. Procediamo così fino a quando troviamo un campo arido e quindi senza protezione. Decidono di aggirarlo scattando da una macchia verde all’altra fino a trovarci sulla riva del Giordano, sopra ad una collinetta in un punto panoramico e strategicamente favorevole. Il promontorio è folto di alberi e sulla sinistra, più in basso oltre le acque, è ben visibile un forte “nemico”. Coi binocoli lo scrutano attentamente e mi spiegano che è difficile colpire qualcuno perché, proprio per evitare gente come loro, non escono quasi mai allo scoperto ma controllano l’esterno solo con potenti periscopi. Bisogna quindi attendere con pazienza che qualcuno commetta l’imprudenza di esporsi e cercare di colpirlo, ma può capitare di stare qui una o più giornate senza che ciò avvenga. A parte qualche foto scattata ai ragazzi, è evidente che col mio ‘potente obiettivo’ non sono in grado di riprendere altro, particolare che rende ancora più assurda la mia presenza. Tuttavia, questo concentrato di adrenalina m’intriga. Non ci sono convinzioni politiche, la mia presenza qui è dovuta al caso, alla curiosità e all’istintiva simpatia per dei coetanei che rischiano la vita per un proprio ideale.
Dopo appena una ventina di minuti dal nostro arrivo, l’addetto al binocolo sembra aver scorto un possibile bersaglio e lo mostra contento agli amici. Eccitati si appostano tra il verde e mi dicono di infilarmi in un grosso cilindro di cemento adibito a scarico di fognature mai terminate per via della guerra. Questo perché nel caso individuino da dove è partito lo sparo potrebbero bombardare col napalm, così secondo loro dovrei essere più protetto (?). Sto rannicchiato dentro a questo tubo senza capire cosa sta succedendo e cosa potrà succedere. Parte il colpo che sibila sulla valle in direzione dell’avamposto. Subito fanno segno che il tiro è sbagliato. Dopo pochi secondi dal forte partono scariche caotiche di mitraglia, sparano ad intervalli ed in direzioni diverse. Questo mi conforta: fortunatamente non ci hanno localizzato. Seriamente dispiaciuti per non avere colpito nessuno, i ragazzi si appostano nello stesso punto e riprendono a maneggiare avidamente il binocolo. Devo attendere poco per sentirmi ripetere di tornare al riparo; questa “faccenda del tubo” non mi piace per niente e mi sta preoccupando.
Non ho capito bene se una camionetta entrava o usciva dal forte, se hanno sparato a chi manovra il portone o ad un passeggero del mezzo, sta di fatto che uno di questi pare sia stato centrato alla testa, mentre io, ansante nel tubo di cemento, già mi vedo circondato dalle fiamme. Le raffiche israeliane sembrano impazzite, alcune pallottole sono vicine, ma è evidente che anche questa volta non hanno capito da dove è partito il colpo. Dopo poco gli spari diminuiscono d’intensità, poi tirano qualche colpo singolo lontano da noi e infine smettono. I quattro ragazzi ridono contenti, esaltati dalla riuscita dall’operazione. Mi corrono incontro, mi abbracciano sostenendo che ho portato loro fortuna. Questa frase mi sconvolge, in un lampo mi rendo conto di una complicità che non credevo. La realtà della morte e del sangue non l’avevo messa in giusto conto. Guerra o pace che sia, non so condividere la gioia per l’uccisione di un uomo. Sono venuto per vedere e tra l’altro non ho visto niente. E’ comunque chiaro che questa è la dimensione della guerra.
Facciamo ritorno a Sciuna col sole che è appena calato: Milvia mi corre incontro sorridente, visibilmente soddisfatta per il coraggio dimostrato. I miei “protettori” raccontano con brio l’esito della giornata e ricevono felicitazioni. Michel, un giornalista francese, è giunto nel pomeriggio e vuole venire con noi domani, senza indugi, abituato ad imprese del genere.. Dopo cena, andiamo all’aperto. Sono visibili le luci dei villaggi palestinesi ancora abitati e, vicino, le luci più deboli di alcuni avamposti israeliani. Seduto con noi un poeta malinconico ci recita il suo repertorio in arabo ed Awad si sforza di tradurci strofa su strofa: malinconiche poesie dedicate alla loro terra presa con l’inganno e alla lotta sino alla morte per la libertà. Cominciano i cannoneggiamenti verso sud ed entriamo a sdraiarci nel rifugio per vedere di dormire. Nella notte un fruscio di voci mi sveglia, vedo Awad che bisbiglia animatamente coi compagni tutti svegli. Chiedo cosa succede e mi risponde che sono cose loro, di continuare a dormire, così mi riaggancio al caldo corpo di Milvia e dormo fino all’alba, quando lo stesso Awad ci chiama.
29 Marzo – Operazione ‘Talet Musa’ (Collina di Mosè). Esco e sono già tutti in assetto da combattimento, avvolti da cartuccere, bombe, coltelli, mitra e, in un angolo appoggiato al suolo, l’ormai famoso rocket di Ismail: è la bardata delle grandi occasioni. Siamo in sette: Ismail, Awad, Mustafà, Freedom, il ‘barbiere’, Michel ed io. Aggiriamo alle spalle il blocco dei soldati giordani per evitare chiacchiere ed iniziamo una lunga camminata. Vediamo alcune case semi distrutte abitate da contadini ostinati che preferiscono vivere qui nel pericolo piuttosto che nei miseri campi profughi. Giungiamo in un campo scoperto, forse minato. Il barbiere e Freedom esaminano il terreno lentamente e con occhio esperto, io metto i piedi dove li ha messi Ismail prima di me e gli altri seguono. Nell’attraversare degli spazi aperti si ha la sensazione di essere visti senza vedere: una sorta di paranoia. Corpi piegati, sicure tolte ed attimi intensi, tutti giriamo guardinghi per evitare il peggio in caso d’imboscata. Sono passate tre ore da quando abbiamo lasciato la base ed il sole è già alto quando strisciando giungiamo ai confini del perimetro di una fortezza israelita. Ne tocchiamo la rete metallica, distante circa 200 metri dalle mura; anche Awad vuole toccare la rete metallica come una meta ambita e appena poggia la mano una raffica di mitragliatrice pesante ci sfiora la testa, vicinissima, poi più niente. Avanziamo sdraiati giù nel piccolo fosso che fiancheggia la recinzione, protetti dal verde, fino a raggiungere un’area riparata ancor più folta di vegetazione. Michel per la sua mole è il più lento, si trascina i teleobiettivi e due grosse reflex, con la parte superiore tinta di nero per evitare il riflesso della cromatura. Ma, a differenza di tutti, è l’unico che indossa indumenti chiari: una camicia azzurrina. E’ un veterano dei reportage di guerra e si muove sicuro, senza timori. Siamo comunque tutti eccezionalmente calmi e razionali, attenti ad valutare tutto e a non sbagliare nulla: una condizione psicologica imposta dal pericolo. Ismail, che trascina il suo razzo, ha un maglione blu a collo alto, Awad indossa il suo solito giubbetto verdone col pelo raso nel bavero, io ho la giacca di tela grigioverde di Guidino e anche gli altri tre hanno abiti scuri. Usciamo dal fosso e ci dirigiamo, sempre strisciando, verso un gruppo di alberi dietro ai quali si trova un canale della larghezza di un metro e mezzo circa. Ci ficchiamo dentro. L’acqua arriva alle cosce e possiamo così camminare ritti protetti dall’argine e dalla vegetazione. Giunti ad una casa sulla destra del canale, vi entriamo per riposare. La costruzione è stata nell’occhio del ciclone di qualche battaglia e gli squarci nel muro lo testimoniano; l’interno è pieno di macerie, il tetto è invece abbastanza intatto. Mentre si mangia, Ismail ed il barbiere discutono, Mustafà e Freedom fanno la guardia alle finestre da dove sono visibili le mura di un’altra roccaforte israeliana sulla destra e Michel attacca il tele per scattare freneticamente in quella direzione.
Ismail, il barbiere e Freedom decidono di dare un’occhiata nei dintorni consigliandoci di rimettere le gambe a mollo ed attendere lì il loro ritorno. Siamo nella zona operativa e questo è il famoso canale programmato per la fuga o di protezione nel caso venga utilizzato il napalm. Restiamo in acqua un sacco di tempo, Michel impreca arrabbiato perché non può fare foto e non si capisce come mai i tre non tornano. Dopo quasi due ore, stanchi di attendere, usciamo dall’acqua con le ‘gambe gommose’ e decidiamo di rientrare senza di loro. La via del ritorno non è la stessa, sembra più sicura di quella percorsa in mattinata, quando probabilmente è stato fatto un ampio giro di perlustrazione. Arrivati ad un bananeto ci sediamo all’ombra di tozzi palmizi dai frutti acerbi e Mustafà va subito in cerca di erbe commestibili. Mentre mastichiamo rilassati, un tuono potentissimo investe le nostre orecchie: è una cannonata. Seguono i rumori di un’accanita battaglia a circa un chilometro o forse meno poiché a giudicare dal rumore sembra vicinissima. Altre spaventose cannonate provenienti da più parti spostano l’aria sopra di noi, ne deduciamo che Ismail è riuscito a far funzionare il suo arnese e a giudicare dal frastuono c’è da essere contenti di non trovarcisi in mezzo. Dopo circa dieci interminabili minuti tutto torna a tacere e ci rialziamo per arrivare svelti alla base, ansiosi di sapere cos’è successo. Giunti ai margini di un grande prato, Ismail ci viene incontro in bicicletta vestito da contadino (ai contadini non sparano) per avvisarci di non proseguire perché ci hanno visto arrivare ed un carro armato ci sta aspettando all’altra parte del Giordano. In effetti, il prato è il posto ideale per un agguato, inclinato verso il fiume, quindi ben visibile dall’altra riva, senza un albero, solo erba bassa ed una casa abbandonata, ma intatta, nel mezzo. Ci prepariamo ad attendere. Ismail racconta che col suo razzo ha centrato un mezzo cingolato uccidendo due soldati dell’equipaggio e gli altri due, dopo uno scontro a fuoco, li ha vinti a mitragliate; sono poi giunti sul posto altri due carri armati, seminati grazie all’insolita protezione dei cannoni del re. Non sono venuti a prenderci perché saremmo stati in troppi e sarebbe diventato impossibile scappare così in fretta come hanno fatto loro. Giustissimo, l’unico un po’ deluso è il francese che avrebbe voluto fotografare l’azione e non c’è riuscito. Intanto il carro armato, stanco di aspettarci si allontana lasciandoci via libera, ma Ismail dubita della presenza di un secondo tank magari appostato tra gli alberi. Noi decidiamo di proseguire convinti che non vi è pericolo, solo Ismail non viene.
Seguiamo il sentiero stranamente asfaltato che attraversa il campo, siamo in quattro e camminiamo in fila lungo il fiume che scorre in basso a sinistra, ad un centinaio di metri. All’altezza della casa abbandonata un enorme sibilo ci sorvola seguito da un boato spaventoso: la cannonata ha centrato la casa sul nostro lato destro squarciandola. Il tonfo ci trova appiccicati al suolo, aderenti come lucertole. Mi sento lucidissimo e per niente spaventato, in una frazione di secondo realizzo che il panico è deleterio, che riflettere è una perdita di tempo che può rivelarsi fatale, sento l’adrenalina al massimo. Siamo protetti solo dal ciuffo d’erba che segue il bordo dell’asfalto, alto appena a sufficienza da coprirci il corpo, ma dal carro vedono dove ci siamo acquattati e correggono prontamente il tiro. Michel è l’ultimo della fila, io sono davanti a lui, quindi Awad e in testa Mustafà. Una seconda cannonata colpisce in pieno lo stradello dietro al giornalista, che urla ai primi di muoversi; ci affrettiamo e grattando i gomiti per terra strisciamo in avanti. Fortunatamente l’asfalto permette di avanzare senza muovere l’erba. Una terza cannonata colpisce esattamente dov’era il francese pochi istanti prima. E’ stata così vicina che lui viene sopraffatto dal panico e si alza per scappare. Awad lo afferra per le gambe facendolo ricadere e gli urla che così anticipano la traiettoria ed è la fine. Ora però Michel è davanti ad Awad ed io sono diventato l’ultimo. Ancora il boato di un’altra spaventosa esplosione, uno schianto che sembra penetrarti dentro. Il proiettile squarcia un pezzo di strada provocando una grossa buca a pochi centimetri dai miei piedi, che si sollevano per aria senza controllo: questa volta ha colpito dov’ero io un attimo prima e dove sarebbe stato Michel se non si fosse mosso. Apro l’Istamatic, faccio una foto ai miei piedi accanto alla voragine per documentare l’eccezionalità dell’evento, poi mi rimetto a sfregare i gomiti per raggiungere il gruppo. Quattro spari susseguono con rapidità, giusto il tempo di espellere il bossolo e ricaricare. Poi una pausa ci fa credere che abbiano desistito, ma arriva un altro obice che fa di nuovo tremare il suolo, i piedi tornano a saltare e l’intero corpo viene ricoperto di terra; mi volto e vedo che un altro tratto dello stradello è stato spazzato via, ‘tranciato’ di netto. Siamo arrivati alla fine del sentiero ed ora ci tocca uscire allo scoperto e correre fino agli alberi ad una ventina di metri. E’ un altro brutto momento: Mustafà, che è primo, non si decide ad alzarsi e nessun altro osa prendere l’iniziativa. Aspettiamo ansanti con le orecchie tese nella speranza di non udire più tuoni o, al limite, di sentirli: udire l’esplosione significa essere ancora vivi, poiché morte e boato arrivano assieme. Io sono nella posizione meno felice; ho adocchiato un fosso ben protetto a pochi metri, ma se mi scopro anche per un attimo rischio di farci localizzare tutti. Ascolto il cuore battere sull’asfalto e nelle tempie. Dopo circa un’ora di immobilità senza che accada nulla siamo più fiduciosi che il carro rinunci; il rumore dei cingoli che si allontanano non lo abbiamo udito, ma è chiaro che non sanno dove siamo, quindi basta stare tranquilli e distesi fino a quando non giunge il buio per salvarci. Tiro i pantaloni di Awad, del quale vedo solo il deretano, per chiedergli quanto costa ogni cannonata e lui ribatte con spirito che quelli non badano a spese. E’ ormai tardo pomeriggio quando un contadino, che ha seguito la scena, viene a dirci sorridente di alzarci perché il carro armato è andato via; probabilmente hanno pensato di averci colpito o smarrito. Ci alziamo increduli con un grosso sospiro in coro ed andiamo dietro ad alcuni cespugli, seduti su tronchi d’albero abbattuti, per raccontarci a caldo come ognuno ha vissuto la cosa. Il contadino dice a Michel di essere riconoscente alla Francia per essersi rifiutata di vendere gli aerei Mirage ad Israele. Ha una bella faccia vispa che emana simpatia e vorrebbe parlare con noi a lungo, ma dobbiamo rientrare alla base al più presto.
Giunti a Sciuna non troviamo Milvia ad attenderci, ci dicono che probabilmente è andata al laghetto dietro la collina, allora io e Awad andiamo là dove alcuni ragazzi stanno facendo il bagno e mi tuffo con loro. Milvia non c’è, ma la cosa non mi preoccupa più di tanto, mentre Awad, invece, diventa serio e mi invita a tornare al più presto per cercarla. Qualcuno dice di averla vista allontanarsi con una guardia, così Awad ed Ismail, protettori dichiarati di Milvia, sembrano impazzire dall’agitazione; pensano che senza di loro qualcuno abbia potuto approfittarne e cominciano ad urlare il suo nome come forsennati di casa in casa, tirando giù le porte a calci coi mitra spianati. Se veramente qualcuno l’avesse toccata lo metterebbero al muro senza problemi. In pochi attimi si crea un fermento generale, tutti si mettono a perlustrare le case bombardate del villaggio fino a quando lei appare in fondo alla strada principale, tranquilla e beata, con in mano un mazzo di fiori di prato, accompagnata da un pacifico ragazzone col fucile a tracolla. Awad le corre incontro furioso urlandole che non deve mai più allontanarsi senza dire dove va, che non siamo a Rimini ed altro ancora. Awad pare sfogare così la tensione accumulata nella giornata, Milvia scoppia a piangere e spiega che era venuta al laghetto a cercarci, ma quando vi è giunta noi eravamo già tornati indietro. Awad allora si scusa per l’irruenza, apparsa ingiustificata, confidandoci che di notte dorme poco perché deve tenere calmi i ragazzi che danno segni di cedimento e vorrebbero violentarla; in continuazione li invita al controllo e cerca di farli ragionare. La scorsa notte stava per non farcela e non è successo il peggio solo perché erano gelosi gli uni degli altri e non si erano accordati. Per rompere il cerchio alla testa sono andati tutti sotto le stelle a masturbarsi. Ci spiace avere creato tanto scompiglio ormonale, per fortuna questa sarà l’ultima notte a Sciuna. Alla sera tutti si complimentano con noi con amichevoli pacche sulle spalle per l’operazione e per lo scampato pericolo. Intanto dall’altra parte del fiume sono in fermento, stanno spostando molti carri cingolati, come preludio ad un’offensiva. Anche oggi li hanno fatti arrabbiare e a Sciuna tira una brutta aria. Buona parte del piccolo esercito si trasferisce dal villaggio alle grotte in collina per evitare in caso di attacco di rimanere incastrati, e noi con loro. Stiamo ancora cercando di ricavarci uno spazio all’interno di una piccola cavità rocciosa ricolma di munizioni, quando l’intera montagna viene squassata da una tremenda esplosione ed una lingua di fuoco si affaccia per un attimo all’ingresso della grotta. Un vero terremoto causato da un missile terra-terra lanciato sul centro di Sciuna; se avesse colpito la parte alta della collina avrebbe seppellito parecchi di noi. La paura persiste nella stanchezza, l’ipotesi di uno scontro all’arma bianca terrorizza, ma grazie al cielo le manovre israeliane sembrano cessare sul tardi
Trasferimento (30 Marzo). Ci svegliamo col rumore delle mitraglie di alcuni aerei che a bassa quota falciano il villaggio sulla via del Golan. In risposta da più parti si alzano colpi che s’intrecciano nel vuoto; quando Awad si affaccia all’aperto per sparare gli aerei sono già piccoli all’orizzonte. Non finiamo di sistemarci che altri crepitii di mitraglia giungono dalla valle del Giordano di fronte a noi. Due aerei in picchiata sparano su alcuni commando intercettati sulla via del ritorno da un’azione di guerriglia notturna e questi rispondono al fuoco colpendo uno degli aerei, che si allontana fumante. Le grotte si trovano ad una trentina di metri sopra al villaggio e l’eccellente visuale consente di assistere all’eccezionale scena come fosse un film d’azione.
Salutiamo gli amici; Ismail sinceramente dispiaciuto ci abbraccia e il suo ultimo sguardo, prima di salire sul pick up Toyota, che ci porterà in un rifugio tra i monti, è ovviamente per Milvia. Arriviamo dopo un’ora circa di pista montagnosa. Si tratta di un’immensa grotta nelle retrovie, situata nella parte giordana delle alture del Golan. Qui ritrovo Mohamed, un giovane amico conosciuto a dicembre. Conversiamo di gusto per un paio d’ore. Mi parla dello scandalo causato dal libro di Henry Ford, nel quale si riferiscono i progetti del popolo israeliano per annettersi l’intera penisola arabica; gli israeliani stanno acquistando tutti i libri in commercio per evitarne la diffusione ed al mercato nero ogni copia ha già raggiunto il prezzo di US$ 800. Lo stesso governo Israeliano ha presentato il manifesto di un grande Stato ebraico che arriva fino al golfo arabico. Mi spiega che le due strisce azzurre sulla bandiera israeliana, con al centro la stella di Davide, simboleggiano appunto il basso Nilo e l’Eufrate, considerati i confini naturali d’Israele. In America, continua, alcune agenzie propongono gite organizzate in prima linea per turisti speciali “amanti della caccia”: ”paga un dollaro e uccidi un arabo”. Sono fatti difficili da credere. I racconti di Mohamed mi riportano però all’inquietante cartello visto esposto in un’agenzia di viaggi a Bangkok: “Visita Israele, l’unica nazione al mondo dove c’è ancora la guerra vera”. Per ciò che riguarda l’espansionismo israeliano si tratta probabilmente dei sogni di grandezza di una frangia estremista; sostenere che tutto il popolo la pensa così è certamente un’esagerazione propagandistica. Vere o false, sono queste le cose che qui si dicono ed in cui la gente crede. Mohamed è particolarmente adirato con la politica ambigua dell’Egitto e con l’ONU che, riconoscendo lo Stato d’Israele, ha provocato l’espulsione di tre milioni di palestinesi dalle loro terre. Questo disegno, spiega, “è stato progettato ad arte per creare discordia nel mondo arabo secondo un antico metodo colonialista di dividere per regnare .. tutto ciò ci impedisce di credere all’imparzialità delle Nazioni Unite”.
La grande grotta appare come un centro di formazione. In un angolo si fa lezione sui movimenti rivoluzionari nel mondo, sui reali motivi della lotta palestinese e sulla logica dei dirottamenti aerei. Sono tutti molto politicizzati. L’atmosfera qui, a differenza di Sciuna, è distesa e passiamo la giornata in relax. Milvia va a cogliere margherite nel prato di fronte alla caverna sotto gli occhi di tutti, che osservano i suoi movimenti sbigottiti per tanta beata indifferenza; Awad la incolpa di provocare gli sguardi coi suoi atteggiamenti tipicamente femminili, ma per me lei è naturale e bella così.
Col buio esco con Mohamed ed alcuni altri ragazzi, tra cui un bambino armatissimo, e con la loro collaborazione simuliamo alcune scene di guerra che immortalo col mio cubiflash, mentre il giornalista francese osserva divertito. Sono nel frattempo arrivati alcuni giovani per partecipare alla lezione teorico-militare che qui si svolge ogni sera. Raccontano di avere catturato un bianco nel pomeriggio durante un giro di perlustrazione e, pensando fosse una spia israeliana, stavano per eliminarlo: era invece un giornalista e se l’è cavata con “una rotta” di botte. Dopo cena i ragazzi si mettono in colonna per un’esercitazione notturna, quando il caposquadra ne scorge uno che si accende una sigaretta col rischio di far localizzare la zona dai radar degli aerei nemici. Per punizione lo fanno distendere col viso a terra e gli sparano alcuni colpi di Kalashnikov a pochi centimetri dalla testa, poi gli ordinano di immergersi vestito in una pozza d’acqua gelida lì accanto. Fa freddo, ma ai compagni viene proibito di coprirlo con alcuni panni. E’ palese che la punizione è stata volutamente esemplare per la nostra presenza, poiché mi avevano appena avvisato di non fumare per gli stessi motivi.
Addio alle armi (31 Marzo). Dopo colazione Mohamed mi chiede di regalargli i pantaloni di velluto marrone che indosso ed io rifiuto giustificando che non ne ho altri puliti. Propone uno scambio visto che siamo della stessa taglia, ma io non mollo, solo in seguito mi è dispiaciuto non averlo accontentato. Partiamo verso le nove e giungiamo in mattinata a casa di Awad ad Amman. La madre ci ha preparato una teglia piena di verdure cotte e squisite polpette di carne; mangiamo seduti al suolo nello stesso piatto posto al centro del tappeto, sino a saziarci. Awad esce poi per comprare due quotidiani che riportano l’operazione avvenuta al fronte contro il carro cingolato e che cita la nostra presenza come partecipanti all’azione: “due italiani amici del popolo palestinese”. Awad ora è fiero di noi e si fa vanto con gli amici al bar. Mentre giochiamo a biliardino una simbolica Italia – Giordania, Awad sospende la partita per leggere ad alta voce l’articolo puntando ironicamente il dito contro i presenti: “Voi che siete palestinesi avete paura di venire al fronte per la vostra causa, mentre loro che sono stranieri sono venuti”. E qui iniziano fiumi di discussioni, come da noi in un qualsiasi bar di periferia. Per strada tutti mi salutano come fossi un attore famoso. Tornati a casa ci offrono il soffice letto di Awad, mentre lui si sistema sulla stuoia nella medesima stanza.
Il giorno seguente finiamo in una trattoria posta tra il teatro romano ed il tempio di Ercole, una sorta di “piola” piena di commandos, dove ricevo altre imbarazzanti felicitazioni, memori anche della simpatica situazione creatasi quattro mesi prima con Paolo e Adriano. Prego Awad di tradurmi i versi scritti a vernice sul muro del locale per trascriverli su di un pezzo di carta:
l’uomo viene conosciuto dalla gente per i suoi atti – bisogna avere pazienza nel dolce e nell’amaro della vita e se un giorno un amico ti fa del male non rispondergli – devi avere pazienza e perdonarlo – non per lui – ma per amore dell’amicizia – quanti signori rispettabili, che non valgono neppure un chiodo delle tue scarpe, t’insultano ogni giorno – Sulla superficie del mare tu puoi vedere delle carogne galleggiare, però l’oro è sempre nascosto sotto la terra – guai se tu da lontano giudichi che lo zucchero è dolce perché le cose le conosci solo quando le gusti.
Per leggere la prima parte:
Diario di guerra dal fronte palestinese: Il Viaggio
Per leggere la seconda parte:
Diario di guerra dal fronte palestinese: Al fronte
Per leggere la quarta parte:
Diario di guerra dal fronte palestinese: Verso casa