Giunti nella tranquilla cittadina di Dawei, capoluogo del Tanintharyi, la regione del profondo Sud del Myanmar nota per le spiagge, il superbo arcipelago di Myeik e la varietà di frutti tropicali, Patrizia ed io alloggiamo alla Best Guesthouse. La città, importante centro buddista di 140 mila abitanti in maggioranza Bamar, fu costruita nel 1751 lungo l’estuario del fiume Dawei quale piccolo porto dell’impero Thai del re Ayuthaya. Col passare degli anni venne contesa a più riprese fra Birmania e Thailandia (allora Siam), fino all’annessione inglese dopo la prima guerra Anglo-Birmana del 1828. Fino a poco tempo fa il governo proibiva agli stranieri di spostarsi a Sud di Mawlamyine, e in effetti Dawei ha ancora l’atmosfera dei luoghi di conquista, che entusiasma i pionieri della prima ora. Ma non durerà a lungo, sono in atto infatti ingenti investimenti per lo sviluppo turistico delle spiagge, sostenuti dai partner Thai-Japan e Italian-Thai Development.
Con piacere vediamo che la nostra guesthouse è frequentata da viaggiatori solitari, sempre in cerca di posti nuovi da scoprire, coi quali è stimolante ed utile scambiare informazioni. Il francese Cloude ci regala una mappa e ci spiega in modo dettagliato quali sono le spiagge migliori che meritano di essere viste, in quanto sono un po’ distanti una dall’altra ed è importante fare le scelte giuste. La coppia di maturi globe-trotter italiani presenti ne conferma la selezione, sottolineando che Dawei ha il ruolo di base. Qui si viene principalmente per noleggiare una moto ed esplorare le spiagge deserte dei dintorni, distanti da 30 minuti ad un paio d’ore. Le più famose sono a Nord, ma le più spettacolari si trovano a Sud lungo la penisola di Dawei, non sempre facili da raggiungere e per questo ancora vergini.
La prima giornata la trascorriamo camminando per le strade della città, per capire come orientarci e per consultare un’agenzia sulla organizzazione del proseguo del viaggio. Passiamo più volte davanti alla moschea indiana, al tempio Sikh ed al Buddha eretto, alto 8 metri. Ci cattura la raffinata architettura in stile coloniale di molti edifici, tipicamente tropicale, la distesa di noci di betel ad asciugare al sole davanti alle case ma, sopra ogni cosa, l’estrema cordialità dei suoi abitanti davvero sorprendente. Appena poniamo un quesito subito si adoperano contenti di poterti aiutare. Patty chiede informazioni sulla polvere gialla di tanaka ad un gruppo di donne che subito la invitano nella loro casa per cospargerle le guance. Scopriamo così che ottengono la polvere da un rametto dell’albero omonimo strofinandolo sopra una pietra fino ad ottenere un pulviscolo che, mischiato con un po’ d’acqua, diventa una amalgama da applicare sul viso e sulla fronte. Oltre a proteggere dal sole e schiarire la pelle, secondo i birmani la polvere di tanaka possiede una serie infinità di proprietà benefiche. Non c’è donna, ma anche molto spesso uomo o bambino, che non ne faccia uso.
Oggi è il giorno di Natale e vogliamo festeggiarlo al mare. Con la mappa del francese, Patty ed io noleggiamo uno scooter a testa e in mezz’ora, immersi nel traffico caratterizzato in gran parte da moto e motorini, giungiamo alla popolare Maunmagan Beach, giusto per dare un’occhiata e avere dei termini di paragone. Distesa di sabbia chilometrica, con rustici ristoranti in legno, specializzati in grigliate di pesce, venditori di ogni genere, bambini col salvagente ricavato da camere d’aria di auto e musulmane che si bagnano vestite. Non è il luogo che stiamo cercando. Durante il periodo coloniale era la spiaggia preferita dagli inglesi per rilassarsi e bere il tè. Da allora i locali l’hanno adottata come principale rifugio per i fine settimana ed oggi è festa grande anche per loro.
Ci spostiamo verso Sud, lungo la penisola che si affaccia sul mare delle Andamane, per una breve sosta alla scenica Myaw Yit Pagoda, costruita sulla cima di una piccola isola rocciosa collegata alla terraferma da un lungo terrapieno. Il luogo è notevole, ma fatico a mantenere l’interesse di Patty, ormai stordita dalla moltitudine di stupa, ossia i templi a forma di gigantesche campane dorate costruite per custodire le reliquie del Buddha. D'altronde, il Myanmar è noto per essere il “Paese dalle Mille Pagode”, inteso come migliaia, i birmani poi ne sono assidui frequentatori ed è inevitabile trovarsi immersi nell’anima della cultura e della filosofia buddhista dominata da una rappresentazione spettacolare dei luoghi di culto. Ci spostiamo per un agognato bagno alla San Maria Bay non distante. Poco prima però, per l’asfalto insidioso, ricoperto di sassolini, in curva lo scooter mi scivola via obbligandomi a lanciarmi al suolo con un balzo da stuntman in un film d’azione. Restiamo sorpresi entrambi dai miei riflessi felini che, per fortuna, sono scattati in automatico. Caduta che evidenzia il pericolo dell’uso dello scooter in queste strade, raccontato da tutti. I cani poi, a migliaia e dovunque, dormono sdraiati sull’asfalto e neppure si spostano. C’è da augurarsi di non aver bisogno di cure o medicazioni in posti come questi.
La baia di San Maria è perfetta, spiaggia enorme e solo una rustica caffetteria in bambù e paglia a conduzione famigliare. È tutta per noi o quasi. Due giovani giapponesi vivono qui in tenda da un paio di mesi usando acqua e toilette senza spese, in cambio consumano i pasti dai gestori della capanna con cucina. I giapponesi, sempre sorridenti e, com’è loro tradizione, ossequiosi e un po’ eccessivi nei movimenti, ci invitano per una insalata di foglie di tè ed un caffè. Ci dicono che ai birmani importa più l’amicizia che i soldi. Brava gente! A metà pomeriggio, ci sorprende l’arrivo di gruppetti di donne che battono un martelletto sulla battigia per sondare il rumore del suolo e catturare dei molluschi che abitano sotto la sabbia così, tra bagni di mare e di sole, trascorriamo un piacevole e inconsueto Natale. Purtroppo però il tramonto ci coglie presto: già dalle 17,30 il sole cala velocemente e non bisogna attardarsi per evitare il traffico col buio.
Il mattino seguente, superato il grande ponte sul fiume, l’unico esistente, giriamo subito a sinistra verso Launglon, il paese al centro della penisola. Da qui una pessima ed interminabile pista, allietata a tratti dal contrasto cromatico tra il rosso della terra e il verde delle palme, scorre tortuosa tra le colline e scende a Pa Nyit, baia che prende il nome dal tranquillo villaggio appena superato. Tratto di spiaggia incontaminata, deserta e immacolata, delimitata a Nord da grandi sassi levigati sui quali è stato eretto uno stupa con accanto un piccolo monastero. Ci raggiungono sei ciclisti tedeschi, tre uomini e tre donne, che stanno girando il Myanmar con attrezzate mountainbike portate da casa. L’ombra delle conifere rappresenta un valido rifugio dal sole, anche se manca la scenografia tropicale, a me cara, delle palme da cocco. Un breve bagno e torniamo a Launglon per prendere un’altra strada verso la costa, questa volta asfaltata e piacevole, diretta al San Hlan, un caratteristico e dinamico villaggio di pescatori. Parcheggiamo in fondo alla baia, dove finiscono le case, e saliamo al tempio buddista posto su un lieve promontorio da dove si ha una completa veduta panoramica della baia e del villaggio, delle distese di pesce messo a essiccare sulla spiaggia e del frenetico via vai di pescherecci, con fila di donne che trasportano a terra enormi bacinelle cariche di pesce sulla testa. Accanto al tempio, la grande veranda coperta della caffetteria con cucina, che funge da comodo osservatorio. La coppia di giovani tedeschi del tavolo accanto è appena tornata da una entusiasmante escursione in barca alla vicina Marcos Island, un parco naturale protetto coi reef ancora intatti, controllato dai militari e aperto al turismo solo di recente. San Hlan offre l’opportunità di vedere l’arcipelago per poca spesa mentre le escursioni da Myeik sono incredibilmente care, specie se paragonate allo standard di vita birmano. Ci si aggiunge poi che molte barriere coralline delle altre isole sono andate distrutte dai locali per la pesca con la dinamite. Prima di salutarci ci troviamo tutti d’accordo sul fatto che i birmani sono gente straordinaria, one of the best people in the world.
Il gestore, invece, ci intrattiene con una interessante sintesi storica sulla rapida metamorfosi avvenuta a Dawei. Spiega che solo pochi anni fa c’era il coprifuoco, per le strade solo tuk-tuk e la maggior parte della gente usava spostarsi su pony o in trattore. Poche auto e nessuna moto o motorino. La vita in città era davvero tranquilla, come in un qualsiasi centro sperduto e agreste. Oggi tutto sta cambiando in fretta, forse troppo in fretta.
Il giorno dopo torniamo a Sud, verso la parte più remota della penisola, un po’ difficile da raggiungere ma in un paio d’ore siamo ad ammirare la superba bellezza della Tizit Beach, una delle distese di sabbia dorata più ampie e belle di Dawei, completamente deserta e selvaggia, da illuderci di essere in una spiaggia privata. Il frusciare del vento tra le fronde e il fragore delle onde sono i rumori dominanti. Fin quando non ci individuano i bambini del villaggio che adorano interagire con gli stranieri. Tutt’attorno, le immancabili pagode scintillanti incastonate tra le colline.
Dato il tempo a disposizione il nostro è un muoversi da esploratori curiosi, alla ricerca di un posto che meriti una sosta più lunga, ma per fare questo occorre vederli tutti e più tempo. Le spiagge di Dawei sono scomode da raggiungere, dopo un po’ ci si stanca di andare avanti e indietro per chilometri tra il traffico e la “paranoia” del buio che arriva troppo presto.
Decidiamo di continuare verso Sud ma scartiamo Myeik, per le 18 ore di autobus su strada dissestata e soprattutto perché tutti dicono che la città non è granché e le escursioni nell’arcipelago sono troppo care. Voliamo a Kawthaung, città di confine nell’estremo Sud del Paese. Giorno dopo giorno l’amicizia tra me e Patty si consolida, sempre più in sintonia nelle scelte e nei giudizi e la differenza generazionale e di genere anziché un ostacolo diviene uno stimolo grazie ad uno scambio di idee utili ad entrambi.
All’aeroporto di Dawei, il ritardo del volo di un’ora ci dà l’opportunità di osservare nei dettagli questa aerostazione che troviamo incredibilmente sudicia, dai pavimenti e i bidoni dei rifiuti ai vetri appannati da polvere e ragnatele, appare chiaro che non puliscono da secoli. Temo però che se un giorno non sarà più così anche i birmani saranno diversi e allora ben venga il betel e lo sporco, coi quali convivono bene. La loro anima nobile la ritroviamo sull’aereo dove, nonostante l’essenzialità della cultura buddista pervasiva, sopra ad ogni finestrino hanno collocato simboli natalizi e, pur essendo un Paese povero e il volo breve, ci servono ugualmente il pasto, cosa impossibile da vedere nelle compagnie occidentali.
In un’ora siamo a Kawthaung, una città che, per il notevole scambio di merci e l’inevitabile contrabbando con la Thailandia, immaginavo abitata da gente spregiudicata, dove prestare più attenzione del solito. Niente di più errato, troviamo un vivace via vai di battelli ed un intenso mercato che abbraccia l’intero centro, ma molto piacevole e tranquillo. Una città luminosa, dal fascino antico, distribuita tra colline e mare, con gente cordiale e tanti bambini, dove si mangia bene e si sta bene. Qui, come nel resto del Paese, la vita si svolge principalmente al mattino e alla sera si va a letto presto. Il Penguin poi, in rapporto al prezzo, è il migliore hotel tra quelli da noi utilizzati in Myanmar, una serie di circostanze che ci inducono a prolungare la nostra permanenza di una settimana, fino ai primi giorni dell’anno.
L’abitato, affacciato sull’isola di Browning, per gli inglesi era Victoria Point, per i Thai è invece Koh Song (Seconda Isola) dal cui nome, deformato e pronunciato diversamente, deriva Kawthaung (pronuncia Kotan). Qui si parla birmano e tailandese ed entrambe le valute sono normalmente accettate dovunque. Facciamo colazione con Ben, un giovane belga giunto qui a causa del visto tailandese scaduto, domani farà ritorno in Thailandia ottenendo un nuovo visto d’ingresso, anche se nel caso specifico questo giochetto lamenta di averlo fatto già troppe volte e non è sicuro che tutto vada liscio. Al tavolo accanto due italiane, Lara di Genova e Rosa di Napoli, giunte in Myanmar per un tour all’arcipelago si stanno consultano un po’ deluse: “Molto bello, non ancora contaminato dal turismo, ma ci è costato una fortuna”. Per ogni escursione da Myeik hanno pagato 80 dollari a testa e da qui ben 110, a conferma delle informazioni da noi raccolte a Dawei.
L’estremo lembo di terra col monumento che indica il punto più meridionale del Myanmar lo troviamo a pochi passi dal mercato centrale, delimitato da una balconata sul mare che raduna molte coppiette all’ora del tramonto. Sul lato opposto della strada un grande cartello con il ritratto del premio Nobel Aung San Suu Kyi e accanto la scala bianco latte che sale al parchetto del promontorio per una veduta mozzafiato dell’intera baia. Al centro, nel punto più alto, si erge la statua dorata di re Bayinnaung (1516-1581), il sovrano che sottomise il Siam e gran parte del Sud-Est asiatico, raffigurato nell’atto di brandire minaccioso la spada in direzione della costa tailandese, sulla sponda opposta del Kraburi river.
Altro luogo suggestivo e panoramico lo troviamo nella spianata della Pyi Daw Aye Pagoda, sulla collina alle spalle del nostro hotel, col suo alto stupa che alla sera si accende di luci e domina la città dall’alto. Davanti al porticciolo troviamo un piccolo ma fornito supermercato ed anche alcuni buoni ristoranti, con l’immancabile cestino sputacchiera ad ogni tavolo che fa “molto fine”.
I birmani iniziano la giornata con un piatto di mohinga, zuppa di pesce con noodle, che consumano sia a colazione che a pranzo e cena. Gente semplice e dignitosa, nessuno chiede soldi o disturba a riguardo. All’imbrunire i ragazzi si mettono in cerchio per giocare a “sepak takraw”, una sorta di pallavolo coi piedi utilizzando la palla composta da intrecci di rattan. Biliardi a stecca, praticamente dovunque, sono un altro tipo di svago prettamente maschile, mentre le minute ragazze birmane amano passeggiare indossando abiti stirati e freschi di bucato, in netto contrasto con la precaria condizione igienica che le circonda. La città ci piace però nonostante siamo ai tropici manca la spiaggia. Da due moto-taxi ci facciamo portare a Palou Ton Ton Beach, un’isola collegata da un ponte distante una decina di chilometri, giusto per fare un bagno e dare un’occhiata. Scendiamo al She Kyun Tha Resort, una semplice caffetteria a conduzione famigliare, arredata da lunghe tavole coperte da una tettoia a bordo spiaggia, utilizzate perlopiù dai locali nei raduni di fine settimana. Un gruppo di giovani musulmane col viso coperto chiede di poter scattare alcune foto assieme a Patty in bikini, contrasto estetico e culturale che affascina chiunque. Qualche selfie e si immergono a giocare in acqua con tutti i vestiti. È una spiaggia apprezzabile, la più vicina alla città ma nel complesso poco attraente.
Il giorno dopo ci organizziamo con una moto a testa, noleggiata alla reception dell’hotel, per raggiungere Pakalar Beach vista sulla mappa e distante 16 chilometri. All’arrivo ci basta un attimo per capire che questo è ciò che stavamo cercando, perfetta per noi! Un paio di tettoie con tavoli e sdraie in bambù tra le palme, dietro di noi una casetta con bambini che procurano noci di cocco, frullati di frutta, piatti tipici e davanti una magnifica distesa di sabbia luminosa e deserta, acqua calda e cristallina. A Nord della baia, oltre un breve guado si apre un’altra piccola baia protetta da rocce levigate dal mare, un idillico paradiso tropicale in piena regola che ci induce a nuotare nudi. Noto la grazia e la riservatezza di Patty nel togliersi il bikini solo quando è immersa nell’acqua riscoprendo un tratto femminile piacevole quanto la sua gioiosità nell’assaporare il momento in piena intima libertà. Proprio qui però il giorno dopo viene strusciata da una medusa alla mano sinistra e al ventre, incidente che ci fa assistere al pregevole e premuroso soccorso prestato dalle donne del posto utilizzando foglie staccate da una specifica pianta e rese in poltiglia.
Sulla via del ritorno, con calma facciamo le soste che ci stimolano lungo il percorso, come assaggiare una fetta di torta ad un matrimonio tailandese, curiosare dentro al prestigioso Victoria Cliff Hotel aperto di recente o entrare nell’assolato tempio di Myoe Oo Sutaung Pyae affacciato sul mare. La parte della città che si estende lungo il fiume è formata da una serie di passerelle sull’acqua e da palafitte, abitata da gente incredibilmente accogliente e cordiale, sempre sorridente e squisita nei modi. Un po’ tutti ci invitano ad entrare nelle loro case per offrirci un cocco, un pasticcino, una birra, un tè o solo acqua in bottiglia.
Assistiamo all’ultimo tramonto del 2019, con il sole che, come una palla di fuoco si inabissa tra mille sfumature di rosa, viola e giallo. Sia i crepuscoli che le albe ai tropici offrono un superbo, gratuito spettacolo della natura, a ingresso libero e da non perdere!
Il 3 gennaio, dopo tre intense settimane, salutiamo la Tanaka & Betel Land con l’augurio di tornarci presto. Superata la dogana e l’immigrazione senza problemi, saliamo sulla lancia che ci porta in Thailandia, oltre il vasto delta del fiume, nell’ordinata città di Ranong e, da qui, a Krabi: un altro pianeta!
Patty conclude il suo viaggio che, a suo dire, ha vissuto come iniziazione, scoperta e crescita. La saluto all’aeroporto di Bangkok e qui finisce il mio viaggio con lei. Un viaggio sereno, incalzante e ricco di scambi.