All’isola di Atauro, 30 km a nord di Dili, ci si arriva in diversi modi, tutti con mezzi di trasporto e prezzi diversi, che variano da 5 a 50 dollari a testa o 400 se si sceglie l’aereo della MAF (Mission Aviation Fellowship), da dividere tra i passeggeri. I più economici e lenti sono Laju Laju Ferry e Nakroma Ferry, quest’ultimo fa regolare servizio anche con l’enclave di Oecussi, mentre i water taxi della Compass Charters sono i più costosi, ma sono anche gli unici che conducono nel versante ovest dell’isola. La guesthouse di Carlos è in una posizione felice, comoda a tutto. Pochi passi e prenoto all’agenzia marittima Dragon il passaggio sul “siluro” rosso e giallo denominato Star Fast Boat. Impiega soltanto un’ora ed offre tre classi, scelgo la economy a poppa per 10 dollari.
L’indomani alle 7 sono al porto, partenza alle 8 e arrivo nel capoluogo Beloi alle 10, con un’ora di ritardo causa mare mosso. A Beloi, villaggio con poche case sparse sulla costa est, c’è l’unico molo d’attracco dell’isola e anche l’unico supermarket (toko) gestito, guarda caso, da cinesi: un cubo in lamiera ondulata. Sono colpito dal simpatico mezzo di trasporto pubblico in uso nell’isola: una moto con carro e sedili a panca chiamato curiosamente tuk tuk alla tailandese. In tutta l’isola ci sono solo 7 km di strada sterrata che collegano Beloi a Vila Maumeta più a sud, il costo è sempre di 2 dollari a persona qualsiasi sia la distanza. Il Manu-koko Rek (“gallo-canta rikò”), fondato dai padri missionari italiani Pierluigi e Francesco detto Sisco, è un complesso decisamente armonioso e gradevole, composto da curati bungalow, ristorante con cibi italiani, aule per le lezioni e un gradevole giardino in fiore. Ottimo anche il prezzo in rapporto al servizio, soli 15 dollari con colazione compresa, il più a buon mercato dell’isola. Unico neo, la spiaggia è un po’ distante, ma soprattutto inesistente e piena di sassi.
Con il mare appena un po’ mosso è difficile arrivare al reef che potrebbe alzare il punteggio della valutazione generale. L’idea delle Maldive si allontana sempre più e questo mi obbliga a cercare altri punti d’interesse. Il Manukoko Rek è anche la sede della cooperativa Boneca de Atauro, la celebre bambola di pezza creata da una intuizione dell’artista svizzera Ester Piera Zuercher Camponovo per dare lavoro, autonomia e dignità alle donne dell’isola, innescando così un processo rivoluzionario. I padri italiani sono solo sostenitori, supporter, mettendo a disposizione le strutture, mentre la giovane portoghese Madalena Sberrato è volontaria e mi guida al cosiddetto Boneca Tour, tra le sale piene di sartine intente a confezionare e cucire bambole, borse e quant’altro.
Questa attività al momento dà lavoro a sessanta “socie” che si auto-stipendiano di 4 dollari al giorno, per sei giorni la settimana. Ciò garantisce maggiore indipendenza e rispetto della donna in seno alla famiglia poiché sull’isola, ma anche nel resto del paese, esiste un maschilismo molto marcato, difficile da estirpare. Essendo questo l’unico salario che entra in casa, l’uomo arriccia un po’ il naso nel dover accudire i figli, in quando ritenuto compito delle donne ma, per convenienza, è costretto ad adeguarsi all’autonomia della moglie. Inoltre, oltre a produrre e a commerciare originali lavori di ricamo e cucito, le socie qui hanno la possibilità di imparare a leggere e a scrivere. Vero miracolo sociale!
Vila Maumeta, oltre ad essere l’abitato più grande, ha una sua storia endemica che lo differenzia dal resto dell’isola. Innanzitutto questo villaggio è la roccaforte dei cattolici che qui giunsero soltanto negli anni Cinquanta. A differenza del resto del paese, quasi totalmente cattolico, più della metà degli ottomila abitanti di Atauro professa la religione protestante calvinista. Ciò è dovuto al fatto che l’isola fu colonizzata dagli olandesi già dal 1640, evangelizzata poi dai missionari dei Paesi Bassi provenienti dalle Mollucche e infine ceduta, in funzione di uno scambio, al Portogallo che ne prese possesso solo nel 1884. Malgrado questo l’animismo è ancora molto presente e praticato, in simbiosi con il credo Cristiano. Inoltre, questo villaggio è famoso anche per le sue prigioni in vigore nell’epoca coloniale. I portoghesi usavano deportare qui dalle loro colonie in Africa ed Asia i criminali e i prigionieri politici; molti discendenti vivono ancora oggi a Vila Maumeta, integrati con la popolazione indigena.
Prima di coricarmi faccio presente a Madalena che non ho mai visto tante persone così minute come a Timor-Laste. Risponde che ci sono zone con persone più alte, di etnie diverse. Sottolinea che a Timor-Leste esistono 33 dialetti, ciò significa altrettante culture, modi di essere, di vivere e di vedere. A conferma della mia osservazione, ricorda di aver letto di viaggiatori francesi in barca a vela che negli anni Sessanta descrissero gli abitanti di Makili, nella punta meridionale dell’isola, come Pigmei.
Il generatore di corrente entra in funzione dopo il tramonto, dalle 18:30 alle 6 del mattino. Un appuntamento importante col bungalow, per caricare le batterie di cellulare e macchina fotografica ormai scariche a fine giornata. Clima perfetto, brezza marina, si dorme da Re! Tutte le mattine e per tre volte al giorno è prassi comune, dovunque si sia, cospargersi le parti scoperte del corpo con crema repellente per le zanzare, particolarmente aggressive all’alba e al tramonto.
Di buon ora torno a Beloi in tuk tuk, intenzionato a memorizzare i punti cruciali del luogo. Visito il Beloi Beach Hotel, il più lussuoso dell’isola, che nonostante il nome è in collina e si raggiunge seguendo una scalinata. L’addetto incaricato, Carlos Da Silva Costa, mi mostra gentilmente le belle camere e l’invitante piscina affacciata sull’abitato, ma il mare è lontano. La coppia di clienti, diplomatici giapponesi a Karachi in Pakistan, mi confida di avere prenotato tramite internet e di essere rimasti “fregati” proprio dal nome dell’hotel, convinti di andare a finire su qualche spiaggia.
Proseguo a nord del molo ed entro ad esplorare il più gettonato Barry’s Place, posizionato sulla spiaggia e popolato da giovani viaggiatori occidentali soddisfatti. Mr. Barry, un australiano di Brisbane, davanti ad un caffè mi racconta le motivazioni che lo hanno portato ad aprire il resort in questo tratto di costa, facendolo diventare il più noto ed apprezzato dell’isola. Ben organizzato, sana atmosfera spartana, attrezzature da sub, pasti inclusi al self service, free coffee 24 ore, prezzo giusto e la barriera corallina più facilmente accessibile proprio qui di fronte, abitata da migliaia di pesci. Volendo, Barry accompagna i clienti con l’auto fin dov’è possibile e, da li, si scende a piedi il sentiero per Adara, sul lato opposto dell’isola. Il tempo di percorso è di 4 ore, il costo del tratto in auto è di 20 dollari a testa. Ad Adara si può scegliere tra la semplice soluzione del Mario’s Place e il più attrezzato Eco-Safari Camp di Robert e Tony Crean, in entrambi i casi la barriera corallina sulla costa nord ha correnti forti e dovrebbe essere esplorata solo durante l’alta marea.
Torno davanti al supermarket, punto nevralgico di Beloi, in cerca di un tuk tuk, ma invano. Qui incontro Volker Katzung, il tedesco titolare dell’Atauro Dive Resort, che in auto mi porta nella sua proprietà, poco a sud del molo. Racconta di essere stato un pilota dell’aeronautica tedesca in Portogallo, di avere poi girato il mondo per trent’anni, fermandosi infine qui con Safi, la sua graziosa e giovane moglie kenyota. Tipo tranquillo, ha quattro bungalow e un dormitorio da sei letti. Costruire altri bungalow sarebbe semplice ma Volker, tiene a sottolineare, non vuole stressarsi e non ne vuole altri. Così come Barry, si sente soddisfatto per essere in una posizione dove la barriera corallina è vicina alla riva, mentre negli altri punti bisogna nuotare perché è più distante. Volker telefona al driver di un tuk tuk che passa a prendermi e mi conduce al mio Manukoko Rek. Sulla via, dalla parte del mare, vedo le tende alloggio del Beach House dell’agenzia Compass, deserte
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Adesso posso mettere a confronto gli alloggi della costa est di Atauro: al Manukoko Rek (US$15) sono l’unico ospite, al Beloi Beach Hotel (US$ 80) solo due giapponesi, all’Atauro Dive Resort (US$ 35 e 50 doppia) solo una coppia di australiani e alla tendopoli di Compass (US$ 40) nessuno, mentre da Barry (US$ 35, pensione completa) è pieno.
Alla colazione del mio terzo giorno, esprimo soddisfazione a Madalena in quanto mi pare fossero anni che non dormivo così bene. Anche durante il giorno mi sento profondamente rilassato, in pace col mondo. Subito afferma di sentirsi così pure lei, “è l’aria di Atauro”, talmente rilassante che dimentica gli impegni, ma anche computer e cellulare dovunque. Madalena, che vive qui da un paio d’anni ha una spiegazione su tutto. Sui nativi sempre cortesi e accondiscendenti precisa: “Non è debolezza, ma in 25 anni di occupazione indonesiana hanno imparato ad essere diplomatici e garbati anche se contrari”. Detto così, potrebbe sembrare che siano eccessivamente remissivi, ma gli indonesiani non ci sono da 17 anni ed il fatto che adulti e bambini salutano con un delizioso maun (fratello) e mana (sorella), mi pare sia proprio nella loro indole di persone educate e serene. Osservandoli mentre pregano percepisco in loro, inoltre, una forma di spiritualità che diffonde armonia e affidabilità. Madalena sa bene che è brava gente ma confessa che l’unico quartiere di Dili un po’ difficile da gestire a causa della micro criminalità è Bebanuk, sulla via dell’aeroporto, abitato da alcune gang d’arti marziali che si affrontano tra loro, ma che oggi sono in via di pacificazione.
Domani parto e desidero trascorrere alcune ore ad osservare, immobile, il mare col 64enne Vasco Lopes, la persona che più mi ha colpito in questa isola. Il mite e solitario Vasco possiede ed abita l’unica casa in muratura col porticato direttamente sulla spiaggia. Non parla mai, ma a domanda risponde. Passa le giornate a fissare il vuoto senza fiatare, quando vede un corpo estraneo portato dal mare, come un tappo di plastica o una noce di cocco, si alza, lo prende per buttarlo un metro più in là, poi con un bastoncino stacca una, due, tre foglioline secche dall’albero sulla sinistra e le getta. Chi passa si ferma, giusto per un saluto. Si trova bene con me, stiamo seduti rilassati in veranda, tra qualche parola e lunghi silenzi. In effetti, il rumore cadenzato delle onde ipnotizza la mente, facendoti entrare in una sorta di estasi.
Sul muro bianco risalta la scritta blu a caratteri cubitali: “Casa do Mar, Kantina Mario Lopes, in Memoriam”. Con calma mi dice che Mario era suo padre, deportato qui da Sao Tomè in Africa nel 1947 e morto nel 1981. Pensavo che la casa fosse vuota e invece, al suo interno mi mostra, divisi per gruppi, distese di grosse conchiglie, ventagli di coralli rossi e statue in legno animiste di varie misure, con un altarino di Gesù ed un manifesto di Bob Marley alle pareti. Alla sera informo Madalena che Vasco ha una brutta infezione al piede destro e che andrebbe seguito. Ne ricevo un cenno di assenso, privo di commenti. A cena ieri ho gustato spaghetti al dente decisamente buoni, mentre la modesta porzione di pizza di questa sera è una vera delusione: cruda, insapore e troppo costosa (15 dollari).
Mi trovo di nuovo a Beloi e sto per salire sul ferry Laju Laju diretto a Dili. Nell’attesa, osservo alcune ragazze timoresi che fanno il bagno vestite, come le musulmane. Certo, 25 anni di dominazione indonesiana per certi aspetti non aiuta a far progredire l’universo femminile. Tuttavia, le nuove generazioni sono artefici di un cambiamento veloce, con i suoi aspetti positivi e negativi. Ad esempio, il matrimonio dei timoresi oggi avviene dopo che la coppia ha vissuto insieme o quando la sposa è incinta. Ha luogo solo quando le famiglie sono pronte a far fronte alle spese che queste cerimonie comportano. Le formalità matrimoniali rimangono però condizioni necessarie per il riconoscimento della sposa e dello sposo come membri delle due famiglie e della comunità. Mentre faccio queste considerazioni, una stupenda bionda in perizoma, praticamente nuda, attraversa il molo con estrema disinvoltura, in profondo contrasto con le timoresi che fanno il bagno vestite. Memore dei racconti di Carlos, colgo l’imbarazzo della gente che abbassa il capo per non guardare. I timoresi per di più, sempre secondo Carlos, perdono facilmente la testa per le bionde che, in giro dopo il tramonto, rischiano di essere molestate.
Sul ferry ritrovo lo spirito del viaggiatore nello scambio di esperienze con un giovane uomo portoghese che percorre le ex colonie per lavoro e racconta le sue impressioni sul recente viaggio in Africa: “Luanda (Angola), lui dice, è una città pericolosa ed oltremodo cara, mentre Maputo (Mozambico) è tranquilla ma non c’è niente da vedere”. In compenso mi parla con entusiasmo della bellezza della gente e della natura di Sao Tomè, aprendomi nuovi orizzonti. Sono partito alle 14:30 col mare piatto, attracco al porto di Dili alle 18. In cinque minuti di cammino, sono di nuovo alla guesthouse Da Terra di Carlos. Racconto brevemente il viaggio “Mal-dive” alle due lavoranti, Lucia e Nunzia, che ridono a crepapelle. È da tempo che, con rammarico, non sento più ridere così in Italia. Chissà come ridono a Sao Tomè?