Marco Tortoreto di Milano, residente a Lonely Beach dove gestisce una Guest House da otto anni, possiede uno scooter e vuole mostrarmi i luoghi più belli ed inesplorati nell’estremo Sud-Est dell’isola, un viaggio di 140 km che decidiamo di affrontare l’indomani dal mattino presto. Per mia comodità ed autonomia, rifiuto però di salire con lui. Di buon’ora noleggio uno scooter e seguo Marco che, anche mentre guidiamo, da bravo cicerone fa il possibile per spiegarmi ogni cosa. Entriamo in un supermercato per una scorta d’acqua e faccio notare a Marco che senza curarsene ha lasciato lo zainetto contenente soldi e documenti sullo scooter in strada. Mi tranquillizza subito: “Lo faccio sempre, qui nessuno tocca niente. Per la cultura thai il furto è un atto gravissimo, nel rispetto delle regole buddiste”.
Percorriamo verso Nord la tortuosa “farang coast”, la cosiddetta costa degli stranieri, essendo questa la parte dell’isola che raduna spiagge e turisti, mentre la parte orientale è piana e priva di lidi significativi. Superiamo una stazione balneare dopo l’altra e in nessuna vedo thai fare il bagno ma solo turisti. I thai tengono in grande considerazione il colore della pelle, ne catalogano le gradazioni fino al bianco, classificazione comune a molte parti del mondo. Vivono il colore della pelle come forma, a volte ossessiva, di discriminazione sociale. Avere la pelle anche leggermente più scura produce un senso di inferiorità, in una cultura dove il bianco è associato alla bellezza e al successo. Anche le donne che lavorano nei campi, nonostante il caldo dei tropici, si coprono da capo a piedi e mettono guanti per ripararsi dai raggi del sole. Per loro la bellezza è bianca, principio codificato nei secoli.
Giunti a Nord, poco prima del porticciolo dei ferry, Marco suona tre colpi di clacson in un punto anonimo e si ferma per mostrarmi che tutti quelli che passano, siano auto che moto o motorini, fanno altrettanto. È il saluto ad un piccolo tempietto buddista nascosto tra il verde, non si vede ma tutti sanno che c’è. Lo raggiungiamo salendo una ripida scaletta che dalla strada si inoltra per una ventina di metri nel fitto della boscaglia del monte. Un modesto altarino in legno abitato da scimmie ed avvolto da ghirlande di fiori dono dei fedeli. Ancora un paio di chilometri e ci fermiamo al pittoresco santuario di Chao Por, il tempio cinese dedicato alle tartarughe, eretto su una lieve collina panoramica a lato della strada. Lo so, ancora un tempio, ma questo merita la sosta. I Buddha sono a centinaia, così dice Marco, un po’ come i vescovi che sono incaricati di portare armonia tra gli uomini. Il primo in assoluto fu l’indiano Siddharta, il primo cinese invece è Budai, quello obeso seduto, sorridente e felice, circondato da altri Buddha scheletrici.
Arrivati in prossimità della grande baia di Salak Phet, nel Sud-Est dell’isola, proseguendo si va alle spiagge ma noi andiamo prima a sinistra verso il villaggio di Salak Khok, dove Marco insiste per portarmi a pranzo in un ristorante che dice essere gestito dal “Massimo Bottura” di Koh Chang. In breve tempo, ci troviamo seduti nel suggestivo contesto lagunare del Salak Kok Seafood, con una vasta scelta di pesci che nuotano tra vasche e bacinelle quale menù vivente, affacciato su questo pittoresco e sonnolento abitato di palafitte costruito su una laguna dominata dalle mangrovie. Vedo i canali percorsi da canoe che avanzano a remi incrociati, chiamate “ruea mat” ma anche Koh Chang gongola, allestite con una sorta di mini salottino: due comode panche ed un tavolo al centro, protetto dai raggi del sole da un ombrellone di tela bianca, noleggiati perlopiù da giovani coppiette per un romantico tour nella laguna che evoca una Venezia d’oriente.
Marco è in preda ad una divertente esaltazione ed inizia ad ordinare di tutto, obbligandomi a fare una scorpacciata di pesce di laguna mai mangiato prima, come i pallidi gamberi di mangrovia e tant’altri piatti e piattini dai nomi strani. C’è sempre qualcosa di magico nelle specie che si evolvono in ambienti estremi, obbligati a superare le avversità di luoghi inospitali che li rendono unici. La mangrovia predilige le acque salmastre, dove il corso di un fiume sfocia nel mare, e nel fitto delle sue lunghe radici sommerse ospita e protegge svariati tipi di pesci, anfibi, rettili, granchi e molluschi, oltre ad una vasta biodiversità di organismi endemici. Finito il lauto pranzo, nel rapido sopraluogo lungo le passerelle del villaggio noto che la gente qui sembra diversa da quella incontrata fino ad ora: più formale, taciturna e seria. Marco me ne dà conferma, facendo presente che in origine Koh Chang era un’isola cambogiana e nei villaggi fuori dai circuiti turistici le radici Khmer dei suoi abitanti sono ancora evidenti. Anche fisicamente i Khmer sono più tozzi e di pelle scura, popolazione che non incontra i favori dei thai. Riprendiamo la strada lungo una stretta striscia di lastre in cemento che ora costeggia il lato Est della baia fino alla remota Long Beach, tipica spiaggia tropicale definita la più bella dell’isola: due chilometri di arenile bianco e incontaminato, abbellito da palme da cocco, dal quale in verità diventa difficile separarsi. Rari i turisti in moto che si spingono fin qui, per fortuna. Marco mi porta sulla collina panoramica occupata dal Long Beach Bungalow, dove ha abitato per tre mesi in qualità di socio momentaneo del resort. Rustiche casette in legno coi bagni senza il tetto ed una scala in cemento che conduce giù al mare quei pochissimi ospiti, viaggiatori indipendenti. Racconta di essersi perso per quattro giorni nella foresta di montagna alle nostre spalle e di essersi poi salvato in extremis e per puro caso, stremato, ormai convinto di non uscirne vivo.
Attraverso sentieri sterrati tra il verde, proibitivi durante la stagione delle piogge, Marco mi conduce all’estrema punta meridionale di Long Beach, ancor più isolata e lontana da tutto, cosparsa di conchiglie e noci di cocco cadute, in una natura incontaminata che richiama l’isola di Robinson Crusoe. Mi sento paradossalmente grato al Covid-19 che ha frenato la corsa di coloro che avevano già programmato ingenti investimenti su questa parte dell’isola.
Un altro giro di motori e siamo all’altrettanto incantata ma più piccola e curata Memorial Beach che Marco, con la sua solita enfasi, definisce “la più bella al mondo”. È l’ultima spiaggia nella punta Sud-Est dell’isola, così chiamata per la sua storia legata ad una battaglia navale contro i francesi avvenuta esattamente di fronte al luogo in cui ci troviamo durante la Seconda guerra mondiale, quando la Thailandia era alleata al Giappone. Era il 17 gennaio del 1941 e fu lo scontro più cruento verificatosi durante la breve guerra franco-thailandese. La flotta francese attaccò in risposta alle incursioni delle truppe thailandesi nella vicina Cambogia, all’epoca protettorato francese. Le navi thai furono affondate e circa 500 marinai persero la vita ma per mezzo secolo nessuna commemorazione o parola fu spesa a riguardo perché, sostiene Marco: “I thai si ritengono invincibili, non sanno perdere”. E poi, aggiunge: “Non sopportano di aver perso dai bianchi occidentali”. Ci vollero i finanziamenti internazionali finalizzati a costruire un edificio a forma di nave, una grande targa in marmo con la descrizione e la mappa della battaglia nei dettagli ed un’ara in memoria dei morti per far tornare questo fatto alla luce. Qui, a distanza di 80 anni, vengono ancora i parenti dei caduti, di secondo e terzo grado, a portare fiori. Altro particolare significativo nonché suggestivo viene dal rumore di piccoli coralli legati a lunghi spaghi appesi ai rami degli alberi a bordo spiaggia che col vento toccandosi emanano un suono, allo scopo di tenere compagnia ai defunti ed evitare che questi tornino sulla terra per vendicarsi del male subito.
Al termine di una giornata intensa e straordinaria, sulla via del ritorno ci coglie il buio della sera e, tra la sosta per immortalare il tramonto ed un'altra al distributore, Marco ed io ci perdiamo di vista e torniamo verso Lonely Beach separati. La guida a sinistra, in questa stretta serpentina di montagna, richiede particolare attenzione ma proprio in quella ripidissima discesa prima di Lonely Beach, per un guasto allo scooter viene a mancare la luce e vivo momenti di vero panico, immerso in un buio pesto con le auto che salgono e scendono senza vedermi. All’arrivo Sara, la noleggiatrice di moto, mi racconta che nello stesso punto, due giorni prima, è stata investita e uccisa una signora cambogiana. Alcuni si sono fermati per metterla nel fossato di lato alla strada ma poi hanno proseguito senza chiamare i soccorsi o fare alcuna denuncia: “Tanto i cambogiani non hanno documenti e i nativi vivono la cosa come una perdita di tempo”. Mentre Sara ed io dialoghiamo, passa l’ambulanza con le sirene accese, un altro scooter è cozzato a tutta velocità proprio contro il muretto del mio hotel, il giovane russo alla guida pare sia ubriaco e, dopo la caduta, in pessime condizioni. Nel periodo con maggior flusso di turisti gli incidenti a Koh Chang si contano a decine e Sara, grazie alla sua esperienza, parla di una media di “10 morti e 15 feriti gravi al mese”. All’inizio pensavo fosse una esagerazione, ora non più. Una sorta di bollettino di guerra locale che va tenuto sempre presente e in grande considerazione.