Patty ed io alloggiamo all’East Hotel, nel centro di Yangon. L’accordo con l’agenzia City Holiday ci evita di andare in stazione in taxi, fare i biglietti e prendere il treno per Bago, la nostra prima tappa sulla via del Sud. Puntuale alle 9 arriva a prelevarci Kotei, l’autista incaricato di portarci agevolmente in giro per tre giorni.
La prima destinazione è Bago, in passato chiamata Pegu, distante 80 km. Nonostante si guidi a destra ma col volante posizionato a destra all’inglese da ormai mezzo secolo, notiamo che anche le distanze sono ancora indicate in miglia, retaggio del colonialismo britannico. Le innovazioni sono difficili da acquisire in breve tempo; ad esempio, in Birmania, ribattezzata Myanmar dalla giunta militare nel 1989, ancora oggi si continuano ad usare entrambi nomi. Il driver Kotei ci dice, inoltre, che deve fare molta attenzione poiché, per la legge birmana, ogni autista coinvolto in un incidente stradale con un pedone è considerato sempre colpevole. I veicoli poi sono generalmente privi di assicurazione e non è comunque garantita l’ambulanza o il pronto soccorso in caso di emergenza. Non c’è da stupirsi, siamo in uno dei Paesi più poveri al mondo ma proprio per questo attrae il visitatore in cerca di una autenticità da riscoprire.
In un paio d’ore siamo all’Amara Hotel di Bago, nell’estesa valle dei Buddha giganti ma con Kotei onnipresente non abbiamo problemi di spostamenti. Bago, ex Pegu, è una città di quasi 500 mila abitanti ricca di storia. Nel periodo che va dal 1278 al 1539 si susseguirono diverse dinastie Mon e la città di Pegu era la più importante del Myanmar meridionale. Quando nel 1551 il generale Bayinnaung (1516-1581) divenne sovrano del regno di Taungù, sottomise gran parte del Sud-Est asiatico e Pegu divenne capitale di quello che fu definito il secondo impero birmano. A quei tempi era un importante porto marittimo visitato da molti mercanti europei, soprattutto portoghesi, britannici e olandesi. In quegli anni fu abitata anche dall’orafo veneziano Gasparo Balbi che lasciò una dettagliata e interessante descrizione della vita di corte nel suo libro Viaggi dell’Indie Orientali (dal 1579 al 1588).
Nel superlativo tour nella valle dei Buddha giganti, Kotei ci conduce subito alla Pagoda Kyaikpun, realizzata nel 1476, dove s’innalzano quattro suggestive statue del Buddha alte trenta metri, ognuna seduta e appoggiata di schiena allo stesso pilastro quadrato, rivolte verso i punti cardinali. Si tratta del Gautama Buddha e dei suoi tre predecessori, curiosamente raffigurati col volto di donna. La leggenda vuole che rappresentassero quattro sorelle di etnia Mon. Qualora una di loro si fosse sposata, una delle statue sarebbe crollata e così è stato in seguito al terremoto del 1930.
La tappa successiva ci vede camminare attorno all’assolata base della gigantesca e scenica figura sdraiata del Myathalyaung Buddha, lunga 82 metri, uno dei più grandi al mondo. La particolarità della testa sorretta dal braccio piegato gli dona un aspetto simpatico e sereno. Essendo però di recente costruzione si percepisce che non ha ancora un richiamo spirituale importante. Il luogo, circondato da palme di cocco, è completamente deserto. Al contrario, il Buddha Shwethalyaung, anch’esso disteso su un fianco, attrae la totalità dei fedeli. Protetto all’interno di una grande struttura in metallo, è uno dei luoghi più sacri di Bago, famoso per il suo Buddha sorridente di 55 metri. Costruito nel 994 per volere del re Mon Migadepa, questo Buddha è tra i più antichi del Myanmar, considerato di grande valore storico. Per oltre un secolo rimase inghiottito dalla vegetazione e riportato alla luce nel 1880, durante la costruzione della ferrovia ad opera dei britannici. Il mosaico sui cuscini in cui poggia la testa è del 1930 mentre, sul retro, una serie di murales in bassorilievo dai colori sgargianti illustra la leggenda del re che da animista si convertì al buddismo.
Nella sosta successiva siamo alla Mahazedi Pagoda, bellissima anche questa, con la base bianca e lo stupa rigorosamente dorato! Tutti templi dove ci si sente piccoli, osservati dall’alto. Ma qui anche noi possiamo osservare dall’alto i templi appena visitati che emergono dalla fitta vegetazione che ci circonda, salendo la ripida scalinata che conduce alla base dello stupa. Ci dicono che le scalinate rappresentano una rarità nel Sud del Paese. Fu costruita nel 1560 per conservare un dente del Buddha ma, a seguito di conquiste e saccheggi di Pegu, la reliquia fu trasferita in altre mani e oggi si trova nella pagoda Kaunghmudaw di Sagaing, vicino a Mandalay.
La quinta sosta della giornata ci porta all’altrettanto scintillante Kanbawzathadi Golden Palace, costruito dai Mon per ospitare re Bayinnaung (1516-1581), eletto nel 1551. Anche se il palazzo è stato completamente ricostruito negli anni ’90, questa reggia dalle guglie appuntite rimane una delle strutture architettoniche più sbalorditive di tutto il Myanmar. Sia l’esterno che l’interno sono ricoperti da un’accecante lacca color oro. Trovarci davanti alla sala del trono, detta Bee Throne Hall e alla Sala delle Udienze, dove uno dei più grandi re della Birmania riceveva ministri e ufficiali, genera una certa emozione dovuta alla fama che attraversa i secoli di Bayinnaung, sovrano, generale e condottiero birmano. Terzo re della dinastia Taungù (1486-1572), è passato alla storia per le campagne militari che fecero della Birmania il più grande impero mai esistito nel Sud-Est asiatico. In virtù dei suoi successi è stato definito il Napoleone della Birmania. Realistica e inquietante è la narrazione storica su re Bayinnaung descritta nel diario di viaggio in oriente di Gasparo Baldi, al suo ritorno a Venezia nel 1588, in cui racconta di un re odiato dal suo popolo, il quale sentitosi abbandonato dai suoi capitani, li fece incatenare assieme a mogli, figli e parenti, compresi le donne gravide e i fanciulli facendo così bruciare vivi quattromila sudditi. Erano tempi tribali, tuttavia ancora alla fine del’800 i re birmani facevano seppellire vive centinaia di persone attorno ai palazzi reali per proteggersi dagli influssi degli spiriti cattivi.
Siamo alla sesta ed ultima tappa della giornata, ormai all’imbrunire Kotei ci porta alla singolare Snake Pagoda, per vedere un sonnecchiante e venerato pitone di 103 anni, da 33 nel monastero, e lungo 5.60 metri, uno dei più grandi al mondo della sua specie. Dal racconto dei monaci, pare sia la reincarnazione di un Nat (culto materialista) apparso ad un monaco, o del monaco stesso. Dicono anche che ha mangiato quattro uomini in una sola volta. Queste storie narrate a viva voce in una stanza incorniciata da sbiadite foto di vecchi bonzi col serpente a tracolla rendono l’atmosfera decisamente surreale. Le banconote poi sparse sul corpo del pitone ed ovunque evidenziano che l’offerta è una sorta di devozione alla filosofia Nat. Sono molti infatti, i buddisti che coltivano anche la liturgia dei Nat. Questa coesistenza di due culti tanto differenti tra loro è resa possibile dal fatto che mentre al buddismo è affidato l’aspetto più spirituale della religiosità, ai Nat spetta il compito di gestire quello materiale.
Patrizia ed io concludiamo l’escursione riflettendo e conversando sulla valanga di emozioni della giornata nella terrazza di un incantevole ristorante nel centro di Bago, davanti alla pagoda di Shwemawdaw che con i suoi 113 metri domina tutta la città. Cena memorabile e servizio eccellente al costo di 3 euro.
Il giorno seguente alle 8 il driver Kotei è già nel cortile dell’hotel, sereno e sorridente come sempre. Gli chiedo se dorme in macchina e lui risponde di no, ma non so se credergli. Il mercato di Bago è uno sballo, da perdersi per ore, tanto che Patty viene colta dal raptus fotografico per catturare a raffica le immagini di questo vivace e straripante spaccato di vita cittadina. Dovunque si vedono fila di monaci e monache in rosa di tutte le età in giro scalzi per la raccolta delle offerte, coi negozianti in loro attesa con delicati gesti di devozione, ragazze che tagliano noci di betel o piegano le foglie utilizzate per fare cheroot, gli enormi sigari birmani, tutte col volto ricoperto dalla solita polvere gialla di Tenaka. La prima parola chiave per comunicare in tutte le situazioni è mingalabà, un saluto gradito ad ogni ora del giorno, ricambiato da sorrisi che riscaldano dentro.
A metà mattinata entriamo al Kha Khat Wain Kyaung Monastery, per assistere al pranzo dei monaci, il rituale quotidiano che richiama molti turisti asiatici di fede buddista. I monaci sono molto pazienti e tolleranti, pertanto nell’attesa permettono agli ospiti di girare indisturbati in ogni angolo del tempio, assistere alla vita quotidiana dei monaci, dalla cucina ai luoghi di preghiera, in massima tranquillità. Alle 11 una lunga fila di 400 monaci, con i più anziani in testa, lentamente si appresta ad entrare alla mensa tra due ali di visitatori che allungano riso, frutti e dolci nella ciotola di ciascun bonzo. La loro sussistenza è del tutto affidata ai laici. I monaci, noti collegialmente come Sangha, sono da sempre membri molto venerati della società. Questo è un grande monastero che ospitava 1200 monaci ma dopo la Rivoluzione Zafferano del 2007, con le manifestazioni anti-governative non violente condotte dai monaci buddisti contro la giunta dittatoriale, in molti di loro furono costretti a tornare nei villaggi di provenienza. E ancor prima nella rivolta del 1988, con la minaccia da parte dei bonzi a non accettare in perpetuo le offerte delle famiglie dei militari, scelta che equivale ad una scomunica e che terrorizza sia i soldati semplici che gli ufficiali. Senza elemosina non si accede alla propria felicità futura, nell’aldilà. Il contrasto tra i due poteri, militare e religioso, ha sempre coinvolto tutta la popolazione, in modo particolare gli studenti.
Bene, Bago è in buona parte visitata, anche se i templi sarebbero ancora tanti, come dovunque in Birmania, e non basterebbe una vita per vedere tutto. Stiamo andando a Kinpun, distante 105 km, lungo la via possiamo chiedere di fermarci per fotografare o fare spese, Kotei è sempre partecipe, completamente a disposizione. Ci colpisce la vista di giare d’acqua ed i bicchieri lasciati a disposizione dei passanti davanti a case, negozi o ristoranti, sia in città che nelle campagne. Scendiamo al Pann Myo Tu Inn prenotato in precedenza, probabilmente il peggiore della zona ma è in centro e comodo per tutto e per una notte va più che bene.
Da Kinpun al sasso dorato sono 16 km di ripida salita e qui Kotei non può portarci, dobbiamo obbligatoriamente prendere il camion collettivo dalla apposita Truck Station distante appena duecento metri dall’hotel. Dopo un’ora di sobbalzi per le curve a gomito, sistemati nel cassone posteriore con panche stipate di pellegrini, alle 15 siamo all’ingresso del lungo viottolo panoramico che conduce alla Pagoda Kyaiktiyo, meglio nota come Golden Rock, a 1100 metri sul livello del mare. Il ticket d’ingresso costa 10000 kyat, l’equivalente di 6 euro e mezzo, tanti per gli standard birmani, di certo è il prezzo per gli stranieri. Patty, in modo categorico, rifiuta di pagare ed io prometto di fare in fretta a tornare. Pochi minuti e mi trovo Patty alle spalle: le guardie, di buon cuore, l’hanno fatta passare senza pagare. Eccolo finalmente davanti a me, il masso giallo visto in mille occasioni e difficile da dimenticare. Quel gigantesco macigno dorato in precario equilibrio sullo strapiombo, sormontato da uno stupa, è di per sé una visione stupefacente, da estasi perpetua.
Una delle cartoline più mistiche e rappresentative del Myanmar. Si arriva fino alla base del masso passando da un ponticello guardato da militari, che però proibiscono l’entrata alle donne: “Gentlemen only, ladies forbidden”. Patty annuisce con sufficienza, perché così va il mondo. È tutto talmente suggestivo e insolito che è inutile polemizzare. Solo i maschi possono avvicinarsi a toccare e rivestire il masso di foglie d’oro. La pagoda risale al XI sec. d.C. e secondo la leggenda la roccia si mantiene in bilico grazie ad un capello di Buddha collocato con perizia nello stupa, diventando per questo un’importante meta di pellegrinaggio. Leggenda che si mescola alla meditazione, ai fumi d’incenso ed alla toccante cantilena dei fedeli.
Uno degli aspetti che distinguono il popolo del Myanmar è, oltre alla loro proverbiale cortesia, una profonda fede buddhista nella sua tradizione Theravada (vecchio, autorevole). È la forma dominante nel Sud-Est asiatico, la più antica scuola di quelle tuttora esistenti, originata dall’insegnamento di Siddharta Gautama, in particolare dalla dottrina Vibhajyavada (dottrina dell’analisi). Le più antiche testimonianze di questa scuola ne collocano il primo centro nella città indiana di Pajaliputta, l’odierna Patna. In serata, a passeggio per le strade buie di Kinpun, ne apprezziamo l’aria di serena rilassatezza che ci trasmette la gente.
Kotei alle 8 del mattino seguente ha già il cofano aperto per caricare i bagagli e partire alla volta di Hpa-an, distante 140 km circa. Poco prima del bivio con Kyaikto gira a sinistra verso il monte delle tre pagode per condurci, in una graditissima sosta fuori programma, allo smisurato Buddha Gautama alto 78 metri, forse non il più bello ma per certo il più grande Buddha seduto esistente al mondo, ancora in via di ultimazione. Una vasta piattaforma alla base, affacciata sulla valle circostante, consente di allontanarsi dalla mega statua per avere una visione d’insieme di quest’opera decisamente colossale, equivalente ad un palazzo di trenta piani.
La visione più bizzarra la troviamo però all’interno, sotto il Buddha, nella stanza con la statua dei due finanziatori, marito e moglie, seduti su di un letto matrimoniale e seppelliti da un mare di banconote, in una apparizione che ci riporta a Paperon de’ Paperoni. Altrettanto singolare il chiosco in vetro col pavimento ricolmo di banconote ai piedi di un Buddha ricoperto di gemme e chiuso alla sera come una cassaforte. All’uscita, gruppetti di donne di tutte le età chiedono di fotografarci assieme, per loro siamo noi gli esotici.
Si riparte, breve sosta al bivio di Thaton, città che sorge sulle rovine dell’ex capitale Mon del regno omonimo fondato nel VI a.C. Da qui il buddhismo Theravada si diffuse in tutta la Birmania, proveniente dall’India meridionale e da Cylon, l’odierna Sri Lanka. Siamo davanti alla Shwesaryan Pagoda del V sec. a.C., un altro luminoso complesso dorato che Kotei ci invita a visitare. Appartenente al V secolo avanti Cristo, non possiamo esimerci, anche se il tempo limitato non aiuta.
Di nuovo in auto, ma appena superato il fiume Donthami, che divide lo stato dei Mon da quello dei Karen, Kotei gira di nuovo a sinistra per un’altra sosta non prevista, perciò ancor più gradita, al complesso religioso delle Bayin Nyi Cave, un elaborato tempio creato dentro ad una grotta che raggiungo salendo una scalinata lungo la parete calcarea della collina. Non è molto profonda ma ricca di statue di Buddha; nell’ingresso un anziano monaco impartisce la benedizione ai visitatori. Una bella immagine, decisamente scenica. Dall’alto si gode un ampio panorama sul lago. Patty non è salita, stordita dal numero di pagode e templi in successione. Ha preferito fotografare i tuffi di giovani bagnanti nella piscina termale e soffermarsi sui dettagli poetici di questo borghetto colorato, ricco comunque di statue e stupa, abitato da macachi e monaci bambini, molto presi dai loro cellulari. Kotei aspetta paziente, con lo spirito giusto. Gli offriamo un compenso extra che rifiuta. Carattere invidiabile, sempre sereno e mai invadente o inopportuno, gli sta a cuore l’averci soddisfatti e questo lo gratifica. E noi gli siamo grati, consapevoli che senza di lui non avremmo visto molti di quei luoghi magici. Eccoci alla Soe Brothers 2 Guesthouse di Hpa-an, nostra destinazione.
Dopo tre intensi giorni trascorsi assieme, salutiamo l’affidabile Kotei che torna a Yangon, distante 300 km, e noi iniziamo ad ambientarci in questa placida capitale dello stato dei rivoltosi Karen.