Siamo nella capitale del Sudan edificata nel punto in cui si uniscono il Nilo Bianco e il Nilo Azzurro, divenuta nel tempo un punto nevralgico commerciale proprio in virtù dei due percorsi fluviali.
Nell’ostello in cui alloggiamo fa molto caldo anche di notte, ci svegliamo infatti più volte con la gola arsa dalla sete, beviamo molta acqua e latte presi dal frigo della cucina in comune. Oggi è il 28 febbraio, quarto giorno in Sudan e secondo a Khartoum e, come da legge, Io e Aldo ci rechiamo nell’ufficio immigrazione per registrare il nostro arrivo nella capitale. Qui incontriamo un gruppo di sei italiani che hanno noleggiato due Land Rover, con meccanici, medico e guida sudanese al seguito per un costosissimo servizio fotografico nelle montagne della Nubia che immediatamente desta in noi molta curiosità. Dicono che il viaggio durerà venti giorni e costerà loro 120mila lire al giorno solo per le due vetture. Per avere un termine di paragone, un giorno di auto costa come il volo da Khartoum a Roma.
Gli impegni burocratici continuano nella zona delle ambasciate chiamata “New Extension Area” che si trova vicino all’aeroporto, una manciata di chilometri alle spalle del nostro ostello. Il taxi collettivo chiede 1,50 Pound, sale sul mezzo un agente di polizia e grazie alla sua presenza all’arrivo paghiamo solo 0,50 piastre, il prezzo normale. Ci rechiamo all’Ambasciata di Somalia, in Street 23, per cercare di risolvere la questione della scadenza del visto: se la richiesta avesse avuto esito negativo saremmo stati costretti a rivedere per intero il nostro itinerario del viaggio in Africa. A causa dei problemi di rinnovo del mio passaporto, avuti in precedenza al Cairo e la conseguente prolungata permanenza in Egitto, i nostri visti turistici della Somalia stanno per scadere e non ci resta che provare a chiederne il rinnovo qui a Khartum. Ai funzionari spieghiamo in modo dettagliato i motivi dei ritardi accumulati lungo il cammino, ma loro non prestano ascolto e anzi aggiungono irritati e in un italiano perfetto che “la Somalia è un paese in guerra e non un luogo di vacanza”, stupendosi della leggerezza con cui i colleghi in Cairo ci avevano concesso il visto.
Ciò nonostante, decidono di non riportare il problema al console in Cairo e ci concedono un’estensione con scadenza il 26 aprile timbrata sopra al visto già esistente. La fortuna è stata dalla nostra parte in Cairo, in Sudan non lo avrebbero mai permesso. A poca distanza, in Street 39, la via di fronte all’ingresso dell’aeroporto, entriamo per un sopralluogo all’Ambasciata d’Italia dove il signor Indelicato, di origine eritrea, accetta di spedire un telex alla sede della Citybank di New York per sollecitare il saldo dei traveler’s cheque smarriti da Aldo alle piramidi del Cairo. Con Indelicato, che nonostante il nome è decisamente cordiale e paziente, scopriamo di avere un amico in comune, il bravo Esposito, segretario d’Ambasciata in Indonesia che ci aiutò tantissimo nel 1969 a Giacarta. Mentre chiede al custode di prepararci un caffè, Indelicato racconta che nella guerra in corso gli eritrei si stanno rivelando più intelligenti degli etiopi, ma anche più cattivi: “Le nuove generazioni eritree sono più politicizzate, prima erano contro gli italiani colonialisti ma adesso riconoscono che si erano integrati bene con la popolazione ed hanno costruito tante infrastrutture importanti in Eritrea, mentre gli inglesi arrivati dopo hanno solo depredato il paese, portando via tutto, anche la ferrovia costruita dagli italiani”.
Ascoltando le sue storie, resto sorpreso nel scoprire che il primo consolato italiano in Sudan fu aperto nel lontano 1866 e nello stesso anno aprì anche quello di Toscana che, a suo dire, all’epoca era ancora considerato come uno Stato sovrano. Conversando sulla storia locale apprendiamo che il nome della capitale, al-Khartùm, in arabo significa “punta di proboscide” in riferimento al disegno geografico che forma la confluenza dei due Nilo: il Nilo Bianco che nasce dal lago Vittoria in Uganda e deve il colore biancastro delle sue acque al fondale ricco di sodio e il più limaccioso Nilo Azzurro che ha invece origine nell’Altopiano Etiopico e, giunto a Khartum, i due fiumi si uniscono formando assieme un unico Nilo che sfocia nel Mediterraneo. Un breve giro in battello consente di vedere da vicino il fenomeno delle acque con tonalità diverse che si mescolano. Lo si può vedere anche dal Shambat Bridge, il ponte che collega Omdurman a Khartoum Nord.
Tornati in strada, sulla destra di Africa Street, subito oltre l’ingresso all’aeroporto, entriamo a visitare con interesse anche il piacevole ed esclusivo Circolo Italiano, con piscina, la rete da palla volo nel parco, la scuola italiana ed una vita sociale ricca di eventi. Notevole il suo ristorante con menù eccellente. L’iscrizione al club costa 5 Pound al mese, mentre i non soci devono pagare un Pound extra a testa ad ogni pasto. Grazie ad un napoletano di nome Gennaro che ci presenta come operai della Petrolchimica paghiamo solo 0.50 che aggiunti però al costo del pasto per noi il conto risulta comunque salato, esperienza da non ripetere. Gennaro, impiegato alla Petrolchimica, racconta che ogni volta che torna in Italia porta con sé una trentina di pelli di pitone che qui paga 15 Pound l’una e a casa ricava quindici volte tanto. Gennaro è solare e divertente, ma non riusciamo a capire se quello che dice è vero.
Nel salone relax del club, ricco di poltrone e divani, conosciamo Enzo e Laura di Milano, due viaggiatori come noi che si dichiarano delusi e sconvolti dal viaggio in camion appena concluso, da Khartum a Kassala e Port Sudan e ritorno: “Si arriva a desiderare la Pepsi”. A differenza degli amici bolognesi incontrati in Egitto, che per lo stesso itinerario si erano dichiarati entusiasti, i due simpatici milanesi non smettono di criticare e lamentarsi di tutto: “Il Mar Rosso fa schifo, pieno di pescicani”. E raccontano con enfasi un fatto accaduto raccapricciante: “Poco al largo di Port Sudan una barca piena di gente si è rovesciata e nel cadere uno di questi si è fatto un taglio, il sangue ha attirato decine di squali e nessun passeggero è sopravvissuto”. Concordano però con i bolognesi nel definire i sudanesi le persone più gentili e generose del mondo. Laura, tuttavia, aggiunge una battuta: “Si, vero, basta non chiedergli una sigaretta che per loro costa moltissimo”. Tutti fumano le Benson di contrabbando, mentre le sigarette nazionali economiche “Biringi” si fatica a trovarle.
Nello stesso salone relax del club notiamo un frigo aperto, senza il solito lucchetto, pieno di gelati e, in fretta e furia, ne mangiamo un paio di nascosto, senza pagare. Per chi viaggia come noi al risparmio, è curioso e frustrante al tempo stesso vivere in un paese così povero ma con prezzi così alti. Stranamente, la benzina invece costa poco, 0.18 piastre al litro, ma non ce n’è a sufficienza. La ragione è politica ed è dovuta ad una scelta dell’Iran che ha scelto di non rifornire più il Sudan. Molto spesso i distributori sono a secco e la gente si arrangia andando in autobus o a piedi. Ai turisti, chiedendo il permesso all’ufficio immigrazione, danno una tessera che autorizza a fare benzina. In Sudan occorre il permesso per ogni cosa, anche per spostarsi o fotografare e a volte si attende l’esito per giorni.
Breve relax al Café Athena, dietro l’ambasciata britannica nella zona dei white people, per un ottima spremuta di mango, mentre quelle all’arancia sono migliori al Cairo. Esplorando la parte più storica e bella di Khartoum, Nile Street è la via più importante del centro, un viale alberato che fiancheggia la sponda sud del Nilo Azzurro costellato da attraenti edifici coloniali, alcuni purtroppo in stato di abbandono. Tra questi, nei pressi del Tuti Bridge, entriamo ad ammirare l’incantevole costruzione color bianco-latte del Grand Hotel, circondato da un prato molto curato contornato da palme. È il primo hotel costruito in Sudan nei primi del ‘900, e conserva il carattere e l’atmosfera dell’epoca coloniale. Sempre sul lungofiume, qualche centinaio di metri verso est, impossibile non notare l’elegante complesso architettonico del Palazzo del Governo (ex Gordon Palace del 1919), anche se guardie e polizia ci invitano ad attraversare la strada e procedere sul marciapiedi opposto per evitare di passare davanti al “Gate” d’ingresso. Alle spalle dell’edificio coloniale a due piani, dalla forma a ferro di cavallo, si apre un vasto parco con la moschea ed il museo del palazzo.
Entriamo al General Post Office, proprio di fronte alla moschea, dove nella casella con su scritto “Posta Restante”, utilizzata dai viaggiatori in transito, trovo a mio nome un telegramma di Valentina ed Angelo spedito da Reggio Calabria: “Scrivi urgente dove vederci”. Rispondo: “Seychelles”. Usciamo dalla posta ed entriamo al Ministry of Culture di fronte, per raccogliere mappe e informazioni di carattere generale su questa piacevole città cosmopolita, abitata da un numero esiguo di persone, all’ incirca 400mila. Qui apprendiamo i punti fondamentali della storia del paese a partire dalla nascita di Khartoum, fondata nel 1821 da Ibrahim Pascià, figlio del reggente d’Egitto. Da piccolo avamposto militare, sotto il controllo congiunto turco-egiziano, divenne presto un importante centro commerciale e infine capitale, diventata nota anche per avere il più grande mercato di schiavi d’Africa.
Nel 1884 la città fu assediata e conquistata dalle truppe del Mahdi, che massacrarono la guarnigione anglo-egiziana e uccisero il suo leggendario comandante, l’eroe nazionale Charles George Gordon, noto anche come “Gordon Pascià”. Quattordici anni dopo, nel 1898, gli inglesi sconfissero le forze mahdiste nella storica battaglia di Omdurman. È invece ancora ben presente nella memoria di tutti la guerra civile tra governo centrale e i separatisti del sud, durata diciassette anni e terminata nel 1972. Gli impiegati ci parlano anche dell’assalto dei commandos palestinesi di Settembre Nero all’ambasciata saudita di Khartoum avvenuto soltanto sei anni prima, nel 1973, durante il quale furono uccisi l’ambasciatore statunitense e due diplomatici occidentali. Parlando d’altro, ci confermano che l’acqua dei rubinetti di Khartoum è disinfettata, potabile e bevibile.
A cena, ordiniamo un semplice piatto di riso bianco condito da verdure cotte, pasto francescano seduti nel ristorantino del famigerato Royal hotel, in zona stazione, assieme a Isac e Markos, due giovani rifugiati eritrei che ci raccontano della loro guerra in atto con l’Etiopia. Ma ormai si è fatto tardi, è ora di andare a dormire e per saperne di più ci danno appuntamento alle 15 dell’indomani all’Eritrean Immigration Office nei pressi dell’aeroporto. Oggi, giovedì primo marzo, giorno del mio trentaduesimo compleanno, appena svegli, i gestori ci invitano a lasciare l’ostello sostenendo che c’erano altre persone in arrivo prenotate da più tempo. Così, senza preavviso, la motivazione dello sfratto ci appare poco credibile, mentre qualcuno borbotta che è arrivato un nuovo direttore molto rigido e conservatore che non ama i viaggiatori occidentali, giudicati troppo informali e disinvolti per i suoi parametri. In altre parole, ci “buttano fuori”.
Stessa sorte per Judith, l’americana di Portland, la quale lamenta di avere subito un furto in ostello: “Ero con tre ragazze, tanto carine con me, e una di queste mi ha fottuto l’orologio”. Si sente delusa e rammaricata: “Non so più credere nella gente”. Per una giovane che nel ‘75 era in Vietnam ad intrattenere le truppe USA ci sembra una considerazione un tantino eccessiva. Insieme a lei ci trasferiamo nel vicino El Khalil hotel, col cortile d’ingresso barricato e protetto da assomigliare paurosamente ad una trincea. Siamo in una camera tripla col terzo letto occupato dalla bionda e tondeggiante Judith, spregiudicata trafficona che confida di avere scroccato un volo gratis per Juba ad un pilota della Sudan Airways molto ricco: “Ha un orologio con le ore in diamantini. È un uomo pieno d’oro!”. E aggiunge, liberamente senza problemi: “Guadagna 7mila Pound al mese, io me lo sposerei, anche se è sudanese, ma sarebbe meglio che mi desse i soldi senza sposarci”. Voleva partire sabato ma aspetterà sino a quando non le sarà dato il biglietto. Di giorno, invece, Judith ha trovato il modo di scroccare i pasti a casa di un’altra famiglia di sudanesi.
Fa caldo. 42 gradi. Per fortuna Khartoum è una città con molti alberi e angoli verdi ombreggiati. Eppure è solo il primo di marzo e già si suda alla grande. Khartoum propriamente detta è la città vecchia, mentre la periferia è rappresentata dal quartiere a sud che si estende oltre la ferrovia. Il quartiere a nord è di scarso interesse turistico, mentre ad ovest c’è Omdurman, con strade labirintiche in stile mediorientale e il superbo Al-Mogran, il mercato degli animali che si trova subito a nord del ponte tra Khartoum e Omdurman. Muoversi tra i quartieri in minibus è facile ed economico, appena 5 o 6 piastre a corsa. Per tornare in centro, l’autostop è facilissimo, i sudanesi sono sempre estremamente cortesi. Vagando nelle periferie si osserva che la città è abitata da migliaia di rifugiati fuggiti dai conflitti dei paesi confinanti, come appunto Eritrea ed Etiopia, ma anche Chad, Uganda, Sud Sudan e Darfur.
Alle 15 siamo a sud Khartum con Isac e Markos alla sede del Fronte di Liberazione Eritreo (ELF) che lotta per l’indipendenza dall’Etiopia. Non distante c’è pure il campo del nuovo Fronte di Liberazione del Popolo Eritreo di ispirazione socialista, due gruppi militari simili ma ideologicamente diversi. Aldo ed io eravamo convinti di andare a parlare di ideologie e di guerre per la libertà, ma appena i due amici ci dicono di essere “copti” di fede cattolica, l’interesse della conversazione si sposta sul tema della religione. Il segno inciso nella pelle in piena fronte è dovuto a quando chinati, come i musulmani, sfregano la fronte al suolo in preghiera. Questo ordine religioso è nato in Egitto durante la dominazione romana, poi si è diffuso anche in Etiopia, fede condivisa da una parte considerevole della popolazione, seppur una minoranza.
La quasi totalità aderisce alla Chiesa ortodossa copta, mentre Isac e Markos fanno parte di quella minoranza separatasi dagli ortodossi a favore della Chiesa di Roma, insomma una minoranza nella minoranza. Minoranze però di una ferrea dottrina che i musulmani non sono riusciti a convertire: “Convivere in un mondo dominato dalla religione islamica non è sempre facile. Sono parecchi i casi di donne copte rapite e convertite per essere date in moglie a uomini musulmani”. Con i due amici c’è Yonas che non è copto e, senza timori reverenziali, illustra un aspetto più popolare in tono amichevole ma anche ironico: “Hanno tutti dei negozi, i copti si aiutano tra di loro come fanno gli ebrei, sono tutti ricchi e taccagni”. Yonas dimostra di conoscere bene le varie etnie che abitano questa parte di Africa nord-orientale ed è con grande interesse che mi affretto a segnare le sue indicazioni sul taccuino di viaggio. A parte i copti, che sono uniti da un credo religioso ma non da un'unica etnia, la fascia costiera che va dall’Egitto all’Eritrea è abitata dagli Hadendoa, nomadi imparentati coi Beja. Con loro ci sono anche tribù di origine saudita.
Le donne sono riconoscibili dai vestiti rossi con mascherina sul volto, la frangia a ricci e tante collane, braccialetti, anelli e pettorali in argento. I Nubiani invece vivono nelle montagne al confine tra Egitto e Sudan ed erano anche nella zona sommersa dal lago Nasser. I Fulani sono nomadi che coprono una fascia orizzontale che va dalla Mauritania alla Nigeria fino al Sudan. Yonas si esalta: “Sono molto belli, vanitosi, amano truccarsi”. Al confine tra Centrafrica e Sudan si trovano i Nuba, imparentati con i Fulani. Yonas precisa: “Se il Sudan è il paese con la più grande varietà di etnie dell’Africa, i Nuba non sono un popolo solo, come comunemente si crede, ma un insieme di circa cinquanta tribù con le loro specifiche identità e idiomi”. Tra Sudan e Kenya invece abitano i Kaw.
Molto atletici e con lineamenti gradevoli sono anche i Shiluk del Sud Sudan, con la pelle nera rialzata da palline e bugni disegnati sulla fronte: “Vivono lungo il Nilo Bianco ed hanno un re. Sono il terzo gruppo etnico del Sudan dopo i Dinka e i niloti Nuer. Quelli alti e magri sono i Dinka, anch’essi neri e con la pelle rialzata a strisce sulla fronte. Ce ne sono molti anche a Khartum e vengono dalla zona di Wau al sud”. Storditi dalla serie infinita di etnie, tribù e sottotribù impossibile da annotare in poche ore, alle 20 salutiamo i ragazzi eritrei e ci trasferiamo all’Hilton Hotel, di fronte l’isola di Tuti, per festeggiare il mio compleanno con cena offerta da Aldo a base di pesce fresco del Nilo servito con riso, anelli di cipolla cotta e patate fritte (16,40 Pound).