Il nostro viaggio da Aswan, in barcone sul lago Nasser, termina al molo di Wadi Halfa, paese di frontiera ricostruito dal 1964 a circa un chilometro dalla costa, dopo la creazione del lago che sommerse l’antico abitato. Poche case in argilla, basse e abitate da qualche migliaio di nubiani, raccolte attorno alla banca e alla stazione ferroviaria.
La nostra scorta d’acqua è terminata e rischiamo la disidratazione. Aldo ed io ci dissetiamo con piccoli sorsi d’acqua del Nilo raccolti nelle borracce, ma possono alcune pillole purificare tanta schifezza? Negli spacci si trovano solo fagioli bolliti in barattolo e biscotti. Ne facciamo scorta per il viaggio in treno fino a Khartoum e mangiamo seduti nella caffetteria dell’unico hotel che ha per menù un unico piatto: fagioli, patate bollite e tè. Queste prime e piccole spese ci confermano le informazioni raccolte in precedenza: il Sudan è più povero ma anche più caro dell’Egitto.
All’arrivo a Wadi Halfa, essendo in seconda classe abbiamo la fortuna di scendere dal battello per primi, alle 9.30, dopo comunque tre ore di attesa, mentre gli altri ragazzi occidentali che viaggiano in deck class vengono trattenuti. Prima che scendano, andiamo in stazione per verificare la possibilità di sistemarci alla meno peggio per un viaggio che dovrà durare altre 33 ore e due notti.
Il treno non è dell’800 ma è roba da ferri vecchi, con bagni sozzi e privo di acqua. Pur tuttavia è pittoresco, gradevole e tenuto comunque meglio dei treni egiziani. I vagoni della sleeping car hanno quattro letti per scompartimento ma sono troppo cari. Nella prima e seconda classe gli interni sono uguali ed entrambe fornite di ventilatore e vetri ai finestrini. La differenza sta nel fatto che in prima classe lo scompartimento diventa privato e ci si può sdraiare, mentre in seconda si possono sistemare fino ad 8 persone. Nella terza classe manca il ventilatore e nella quarta ci sono le panche in legno e mancano anche i vetri e quindi entra il vento, il freddo della notte, il caldo di giorno ed inoltre è invasa da una calca di gente tutta imbiancata a causa delle tonnellate di polvere e sabbia che entrano dai finestrini.
Ci annunciano che gli stranieri vengono sistemati tutti assieme, separati dai passeggeri sudanesi. Per la prima e la seconda classe si fa la prenotazione allo sportello in stazione, mentre per le altre classi si corre ad occupare i posti e si paga sul treno. Optiamo per la seconda classe, nella speranza che nessun altro venga nel nostro scompartimento. La notte precedente non abbiamo dormito: il tè eccita e rovina il sonno, abbiamo bisogno di sdraiarci.
Alle 15.30, ovvero dopo ben nove ore dall’arrivo in porto, fanno scendere i passeggeri della deck class dal barcone e, tra questi, la dozzina di freak stranieri che arrivano in stazione confusi ed intenti ad ambientarsi nel labirinto di classi e sottoclassi. Quelli con la ragazza scelgono la prima classe e agli altri ridendo diciamo malignamente di andare tutti in terza classe. Riusciamo ad indirizzare in un altro scompartimento, tutti assieme, anche i cinque che avevano scelto la seconda classe come noi. Un lavoraccio, ma ne valeva la pena. Vanno quasi tutti in Kenya.
Tutte le situazioni hanno dei tempi lunghissimi, la nevrosi in Sudan non è di casa e la gente è più aperta e serena che in Egitto. Il treno si avvia quando il controllore avverte che tutti sono al loro posto. Alle 18.30 si parte. Alle 18.40 il treno è fermo per un guasto. Un’oretta di pausa e si riprende il viaggio su questo binario unico e a scartamento ridotto che percorre tutto il paese. Sorprendente la buona cena al vagone ristorante ma il piacere viene attenuato dalla sabbia fine che entra dappertutto, anche in cucina e sui piatti per cui è meglio masticare lentamente. Notte proficua per il sonno profondo dovuto alla stanchezza, sdraiati e dondolati dal treno, nonostante il freddo e la polvere che entra copiosa e ricopre tutto e tutti di colore bianco.
Oggi, lunedì 26 febbraio, siamo in pieno deserto nubiano col sole offuscato da una bufera di sabbia che entra negli occhi, nelle orecchie, nelle narici, in gola e giù nei polmoni. Disagio a parte, vissuto con stupore, cominciamo ad essere sporchi per davvero. Il treno descritto dalle due spagnole al Cairo, dove la gente viaggia anche sul tetto del treno non può essere questo perché ha il tetto bombato. Forse è l’altro treno che fa servizio un paio di volte la settimana. Al vagone ristorante facciamo colazione con pesce, omelette e tè. Costosa ma buona.
Essendo noi europei, il cameriere Hamir ci intrattiene con la sua intensa storia d’amore vissuta con una ragazza di Zagabria perché siamo dello stesso continente. Ci consiglia anche di non badare troppo agli orari indicati: “Il treno può arrivare a Khartoum prima o dopo l’ora indicata a seconda del carattere del conducente”. Infatti, nessuno sa mai dire quando si parte o quando si arriva. Le soste nei villaggi possono durare dieci minuti come tre ore: “Il treno può arrivare a destinazione anche con un giorno di ritardo, nessuno ci bada, è il ritmo normale di noi sudanesi”. Rispondo che se succedesse in Italia ne parlerebbero i quotidiani e la televisione. E lui sbotta: “Gli europei sono tutti matti!”.
Dal treno notiamo che ai pochi alberi che vediamo è stato costruito attorno un curioso muretto di terra alto circa un metro e ci viene spiegato che è il sistema ideato per tenere protetti all’ombra gli ortaggi seminati attorno alla pianta. A prendersene cura in questo tratto di deserto e lungo la costa del mar Rosso sono in gran parte uomini della tribù dei Beja, antichi arcieri dell’esercito egizio, suddivisi in clan, che parlano una lingua afroasiatica. Dopo un lungo tratto in pieno deserto, il treno riprende a costeggiare il Nilo e alle 16 sostiamo nella cittadina di Atbara, posizionata sulla sponda nord dell’affluente omonimo, definita da Hamir “la nostra Red Town”, base dell’opposizione comunista al regime sudanese. Ma la città è soprattutto nota per la battaglia avvenuta ottanta anni prima, nel 1898, quando le forze anglo-egiziane sorpresero e sconfissero, con un sanguinoso attacco all’arma bianca, l’esercito sudanese composto da 15.000 “ribelli”.
Il treno riparte alle 17 e alcuni studenti saliti ad Atbara si siedono abusivamente con noi nello stesso scompartimento, compagnia molto gradita in particolare per la presenza di Farida, molto bella, alta, elegante, spigliata e decisamente simpatica. Se curata, è incredibile quanto possa essere sensuale la donna araba avvolta da lunghe vesti aderenti al corpo. Impossibile non corteggiarla. In breve, il gioco di parole ci porta ad ipotizzare di sposarci ma come condizione Farida chiede che io diventi musulmano.
Sarà il deserto, l’astinenza o i suoi occhi che brillano mentre parla ma dopo appena un attimo di riflessione confido ad Aldo l’intenzione di farmi musulmano: “Davanti a una creatura così un dio vale l’altro”. La febbre di un momento che per fortuna mi passa in fretta. Con Farida c’è suo cugino che ci invita ad andarli a trovare alla Università di Khartoum dove entrambi studiano e alloggiano. I rispettivi padri hanno quattro mogli a sottolineare che sono di famiglia benestante. Un terzo amico prova ad illuminarci: “Per sposarsi in Sudan occorre pagare da 1000 a 3000 Pound ai genitori. Si possono avere fino a quattro mogli a condizione che le tratti con rispetto e in modo uguale. Non si può passare due notti di seguito con la stessa moglie, anche perché nasce la gelosia tra loro quando il marito concede vantaggi o privilegi ad una e trascura le altre”.
La capitale, in base alle informazioni di Farida e company, ha tre centri: il nucleo storico di Khartoum downtown, poi Khartoum Nord e Omdurman: “Omdurman è famoso per il suo magnifico Sug el Moasci, il mercato degli animali, principalmente pecore e dromedari”. Per spostarsi in città è meglio usare i “brensà”, minibus della Toyota che da qualsiasi punto ti portano sempre in downtown. I bus, spiegano, sono troppo lenti. Ci fanno anche una preziosa disquisizione sugli hotel della zona dove andremo ad alloggiare noi: il Blue Nile vicino al Souq al Arabi (Arab Market) e l’Huria in Huria Street (dietro ospedale) sono entrambi molto buoni, anche l’Elvira è ottimo, mentre al Lido hotel c’è troppa gente, tutti ubriachi, buono per bere: “Non andate al Station hotel e neppure al dormitorio del Royal, sulla via principale di fronte alla stazione all’altezza del Meridian, ci sono molti ladri e tanta confusione”.
L’area per i white people si trova al Copacabana, vicino al Sahara hotel, ed anche al Cafe Athena, dietro l’ambasciata britannica. Il Sahara è un altro buon ambiente per socializzare, fanno anche musica jazz... e, a questo punto, Farida ci confida: “Ai sudanesi piace molto bere il whiskey, anche se musulmani”.
Lunga sosta anche alla stazione di Meroe che fu la capitale del lontano regno di Kush, durato svariati secoli prima di Cristo e conserva prestigiosi reperti archeologici di grande importanza. Farida, con un delizioso piglio da insegnante, racconta che nell’antichità Meroe fu raggiunta “da altri italiani”, quando i soldati pretoriani dell’imperatore Nerone - “vostri antenati” - risalirono il Nilo Bianco fino alle paludi di Sudd per tracciare il confine di Roma in Africa.
Appena scende il sole, dentro e fuori gli scompartimenti si formano gruppetti di passeggeri di ogni età che iniziano ad intonare in coro canti popolari e religiosi molto belli e ritmati. Uno canta e gli altri attorno intonano il Corano. I canti sono diversi da quelli ascoltati in Egitto, probabilmente perché i sudanesi sono un misto di Africa nera e mondo arabo.
Il cugino della bella Farida, Mohamed Hasan Hakmed, e l’amico Hatiz Mohmond si impegnano con passione nel darci indicazioni sull’itinerario che intendiamo seguire dopo Khartoum: “A Kassala troverete tanti eritrei a causa della guerra, cercate di alloggiare all’Africa hotel dentro al mercato. Le ragazze le trovate vicino alla Nokta Station”. A Port Sudan, Hakmed ci consiglia il Riad hotel e chiude con: “Deem Ramlà è la zona delle donne”. Anche qui troviamo la solita complicità maschile, mirata ad informare su bordelli e luoghi di piacere. Poco prima dell’arrivo, ai saluti, ci fanno appuntare i loro numeri di telefono sul taccuino pregandoci di chiamare per ogni genere di delucidazioni: “At any time”.
Alle 4 del mattino di martedì 27 febbraio il treno entra nella stazione di Khartoum, un po' stanchi ma ugualmente curiosi di esplorare e conoscere questa città sorta nel deserto del Sahara orientale, alla confluenza di Nilo Bianco e Nilo Azzurro. Con zaini in spalla, camminiamo per tre ore alla ricerca di un hotel ma sono tutti pieni, cari e sporchi. Prendiamo un taxi assieme ad uno svizzero e a Judith, l’americana di Portland conosciuta sul traghetto da Aswan. Il taxista si stanca presto di cercare assieme a noi, ci lascia in mezzo alla strada e chiede 2 Pound che nessuno di noi vuol pagare. Ne nasce una lite. Alla fine, paga lo svizzero.
Con Judith finiamo esausti al Station Hostel, quello sconsigliato da Farida e amici ma è l’unico con letti disponibili. Sistemato i bagagli, la prima cosa da fare adesso è procurarsi valuta locale al mercato nero. Ci consigliano Hassan Musa Tabidi, che ha il negozio di cambio valute nella galleria del Sahara hotel: 67 piastre per ogni dollaro, mentre la banca né da appena 39. Hassan è simpatico, vuole che gli mandiamo dei turisti “fighetti” promettendo una commissione.
Dalla pubblicità dei voli, posta nelle vetrine delle agenzie viaggio, vediamo che le località più gettonate in questa parte di mondo sono Nairobi e Juba, capoluogo della regione meridionale irredentista a maggioranza cristiana e in aperto dissenso col governo centrale. Un luogo stuzzicante, abitato dagli uomini più alti d’Africa e, si dice, da donne molto belle che, al momento con i venti da guerra civile, è vivamente sconsigliato perché poco sicuro.
Finito con gli impegni, facciamo l’autostop per andare a trovare l’amico Hatiz all’università, leggermente fuori città. Hatiz fa il terzo anno di ingegneria e lo troviamo alla Room 11 del Baraks Hostel. Contento di vederci, ci procura subito un paio di ‘buoni pasto’ da amici studenti e andiamo assieme a consumare un ottimo pranzo alla mensa del School of Mathematic. Qui incontriamo Boris, giovane freak olandese un po' evanescente che parla bene italiano. Racconta entusiasta di essere stato in una località dell’interno chiamata Jebel Marra: “Un bel luogo di montagna nel Darfur, con enormi crateri di vulcani spenti alti fino tremila metri, verde, frutta, acqua fresca di sorgente e tribù di gente ospitale, molto povera ma anche molto generosa”. Ci è arrivato da Khartoum in tre giorni di treno fino al capolinea di El-Fashir ed uno di Lorry (camion). È rimasto tre giorni ospite in una capanna di nativi poi, dice di aver provato ad entrare nel Ciad senza il visto ma non l’hanno fatto entrare. Mi documento ed in effetti leggo che nel territorio delle Marrah Mountains vi sono piogge frequenti ed un clima temperato, una vera rarità in pieno deserto.
Torniamo in centro per le 18, il sole è già tramontato e ci facciamo un panino al volo prima di rientrare in ostello. Nella miriade di piccoli luoghi di ristoro radunati attorno alla moschea principale servono solo sandwich, ripieni di carne, oppure pesce del Nilo, formaggi o anche mortadella. In ostello Judith ci parla dell’American Club con piscina a due passi da noi ma occorre essere invitati da qualcuno che sia socio.
L’alternativa, spiega Judith, sarebbe la piscina del Meridian ma occorre consumare e per noi costa troppo. Judith è un tipo molto dinamico e intraprendente, era a Saigon nel 1975 durante l’evacuazione dei militari americani, inviata in Vietnam col compito di intrattenere le truppe. Io c’ero nel ’69 e spesso ricordiamo l’atmosfera di quei momenti. Alle 19, sereni e leggeri per viaggio e giornate intense, crolliamo nel sonno. Termina così il nostro primo giorno nella capitale sudanese.