Oggi, martedì 6 marzo, per riuscire ad andare a Sana’a, nello Yemen del Nord, Aldo ed io dobbiamo cercare di risolvere l’ennesimo problema. La legge sudanese impone di cambiare l’equivalente del valore del biglietto d’aereo in banca, al cambio ufficiale decisamente sfavorevole, se paragonato al mercato nero praticato dovunque in città. In tal caso il biglietto diventerebbe quasi il doppio. Cambiamo così in banca solo venti dollari a testa, facciamo un piccolo ritocco a penna sulle ricevute e i venti dollari diventano 200.
Portiamo poi le due carte falsificate alla sede di Air Yemen, nota per essere la più fiscale delle compagnie presenti a Khartum, ma l’impiegata non ci accontenta: vuole vedere anche la copia carbone delle ricevute rilasciate dalla banca, mettendoci in crisi. Torniamo in strada affranti, la carta carbone è difficile da manipolare. Proviamo in un’agenzia privata, ma la stessa andrebbe ad acquistare il biglietto alla sede centrale e quindi è tutto inutile. Passiamo un pomeriggio di “suspense” fino a sera, concentrati sul come risolvere la questione. Cerchiamo nei negozi una penna che sia uguale alla scritta originale fatta in banca, la troviamo identica ma la prima correzione fatta al volo in un bar viene malissimo. Le seconda molto meglio, un lavoro “da artista”.
Il mattino seguente l’impiegata di Air Yemen arriccia il naso ma questa volta sorvola. Dobbiamo prendere l’aereo tra una settimana, giovedì 15 all’una di notte, previa consegna del visto da parte dell’ambasciata yemenita quando riapre, tra tre giorni. Approfittiamo per organizzare un’escursione a Kassala, città nei pressi del confine con l’Eritrea. Un gippone Toyota, che funziona da taxi collettivo, in una ventina di minuti ci porta fuori città, alla stazione dei bus per Kassala nella zona di Souq Hashabi. Prenotiamo gli ultimi due posti liberi per domani. Qui conosciamo Osvaldo, un giovane meccanico italiano nato e residente in Tanzania, venuto in Sudan con una compagnia italiana per fare strade ed altre importanti lavori di costruzione.
Ci stupisce quando afferma che, pur essendo italiano, in tutta la sua vita ha trascorso soltanto undici mesi in Italia. Si lamenta per il caldo: “In Tanzania, pur essendo più vicini all’Equatore, fa meno caldo che in Sudan”. Infatti, in ogni strada è stato posto un bidone d’acqua con un bicchiere in alluminio a disposizione dei passanti. Anche i sudanesi lamentano il caldo eccessivo e dicono: “Non bisogna avere paura a bere dai bidoni, tanto si espelle tutto”. In Sudan si suda!
Per tornare in centro facciamo l’autostop che a Khartum è molto facile essendo la gente molto cortese, specie con gli stranieri. Ci carica un signore che dice di abitare in una grande casa e sarebbe contento di poterci ospitare. Si offre di accompagnarci a destinazione come un taxi e decidiamo così di andarci a rilassare allo zoo di Khartum, sorpresi nel vedere dei maialini rosa europei tenuti in gabbia, essendo qui una rarità. Ma ci sono pure cani, galline e gatti, tutti in gabbia. Probabilmente vengono allevati e mangiati.
Al ritorno, vediamo che la caffetteria del nostro spartano hotel, El Khalil, è diventata, giorno dopo giorno, sempre più frequentata da eritrei, quasi un punto di ritrovo obbligato qui nei pressi della stazione. Khartum è comunque ormai tutta invasa da espatriati eritrei, per fortuna sono in gran parte di carattere socievole e non creano troppi casini. L’amico Kidan, conosciuto qualche giorno prima, ci presenta ad un folto gruppo di rifugiati di età diverse, tutti contenti di poter parlare italiano con degli italiani.
Tutti quanti dimostrano sincera simpatia e nostalgia per il tempo in cui c’erano gli italiani: “Gli italiani? S’incazzavano, poi un caffè e di nuovo tutti amici un minuto dopo”. Raccontando a loro che domani partiamo per Kassala, città di confine diventata una importante base della guerriglia eritrea in Sudan, cercano di anticiparci quello che andremo a trovare in una sorta di breve lezione. Ci sono tre movimenti diversi: l’E.L.F (Fronte per la Liberazione dell’Eritrea), il F.L.P.E (Fronte di Liberazione del Popolo Eritreo) ed il P.L.F (Fronte Popolare Marxista-Leninista), tre gruppi che però sono divisi tra loro, non riescono a trovare un accordo e rendono l’Eritrea più debole. Kidan precisa: “Se ora, come sembra, si uniscono allora tutti gli eritrei che sono ora rifugiati in Sudan andrebbero a combattere per una grande offensiva”.
Sento spesso l’espressione: “Italiano cuore grande”. È incredibile la manifestazione di calore e di affetto che provano per gli italiani, un vero amore, mai vissuto prima, davvero commovente. Nonostante tutto devo dire che, da quel che vedo e sento, con gli italiani stavano davvero bene. Considerando anche che nella sola Asmara gli italiani residenti nel 1940 erano 53mila su una popolazione totale di 98mila abitanti. Ancora oggi, da buona parte degli eritrei ad essere italiani si è ben voluti. Non così per gli inglesi che volevano smembrare il paese in favore di Etiopia e Sudan. Ai saluti per l’ora tarda, chiedo una sigaretta ad uno di loro che però dice di non fumare. Va poi a comprare un pacchetto di sigarette me lo fa consegnare in camera come regalo.
Giovedì 8 marzo, sveglia alle 5 e alle 6 e 40 siamo puntuali alla stazione di Souq Hashabi per salire sul bus diretto a Kassala, distante 580km, ma i nostri posti, prenotati il giorno prima, sono stati occupati da altri e non ce ne sono altri. Prenotazione inutile, qui funziona così. Cominciamo male, la faccenda si complica e i trasporti non sono mai facili in gran parte dell’Africa. Un eritreo ci aiuta e prendiamo un altro bus che va ad Al-Kamlin, ad un ora da Khartum sulla via per Kassala. Per spostarsi da Khartum è necessario un permesso ma gli impiegati dell’ufficio immigrazione sono talmente lenti che per ottenerlo spesso occorre attendere anche tre giorni, così ci prendiamo il rischio di partire senza alcun permesso e vedere cosa succede.
Giunti ad Al-Kamlin i bus che vanno a Kassala sono tutti pieni. Facciamo l’autostop e ci carica un americano del Texas ma dopo appena venti chilometri la sua auto si rompe nel deserto e siamo di nuovo a piedi. Traffico quasi inesistente. Passa un gippone Toyota e, nonostante sia già pieno di gente, il driver ci carica fino a Hasasheisa. Qui troviamo un passaggio in bus per Wad Madani, cittadina sul Nilo azzurro importante per la coltivazione del cotone pur tuttavia poco invitante. Attendiamo per un paio d’ore il bus delle 13:30 che in 3 ore e mezzo ci porta a Gedaref.
Arriviamo alle 17 e a quest’ora non ci sono più mezzi per Kassala: sosta obbligata in hotel. Nel dormitorio incontriamo Francisco, un ragazzo spagnolo che viene da Port Sudan in un viaggio che definisce massacrante e deludente. Racconta di essere arrivato a Port Sudan, sul Mar Rosso, da Atbara, scegliendo la via centrale, la più corta ma forse anche la più difficile: “Due notti e un giorno, sopra ad un camion. Esperienza molto dura. Sosta di notte di 4-5 ore per riposare e bere i tè che i sudanesi preparano nel deserto. Sono molto bravi, quando siamo arrivati non hanno neppure voluto i 5 Pound del trasporto”. Nel senso inverso ha fatto da Port Sudan a Kassala in auto con degli italiani, poi da Kassala a qui, altre 6 ore molto pesanti sopra ad un lorry (camion): “Quando possibile è molto meglio la corriera, il costo è uguale e anche nei mezzi più scassati c’è sempre acqua fredda che viene distribuita ai passeggeri”.
Venerdì 9 marzo, notte fredda. Alle 6 siamo già nella zona degli autobus per Kassala, distante ancora 140km, ma oggi è festa per i musulmani e tutti i trasporti in bus sono sospesi. I lorry sono pochi e tutti strapieni. Troviamo un passaggio sul retro di un camion ricolmo di sacchi e di gente, tutti accalcati come sandwich. Alle 6,30 partiamo, Aldo ed io siamo seduti su di una gomma d‘auto in fondo al camion, l’aria è fredda e la strada non è asfaltata. Ad ogni buca saltiamo sulla gomma e, se si sposta anche un solo piede, perché intorpidito, quando tenti di riappoggiarlo non c’è più posto perché qualcun altro ti ha fregato il posto del piede. Passiamo alcune ore di estrema durezza. Il camion va forte tra buche e avvallamenti e dopo la prima ed unica sosta ho iniziato a sentire un forte dolore allo stomaco, come aghi che mi forano dentro. I ferri a cui aggrapparsi per non volare via ad ogni buca sono troppo grossi e spigolosi. Inizia il tratto di strada asfaltata, l’autista ora guida piano perché, ci dicono, non è abituato a guidare nel liscio e gli sembra olio.
Ma è dura ugualmente e, inoltre, ora l’aria non è più gelida ma bollente, sui 45 gradi e, con il sole a picco sulle nostre teste, l’autista si ferma e carica altra gente. Anche sul camion troviamo alcuni sudanesi che parlano un buon italiano. Mai avrei immaginato tanta italianità in un angolo di mondo così remoto e lontano da casa. Ore 11:30 siamo finalmente a Kassala, ma i dolori allo stomaco si fanno sempre più acuti obbligandomi a camminare piegato. Troviamo un letto all’El Sharc Hotel, non ha camere ma solo dormitori. Il direttore si chiama Hakmed Taha ed è eritreo, pure lui parla italiano e mi consiglia di andare al pronto soccorso dell’ospedale. Sembra paradossale, ma dopo la visita del dottore incaricato e la sporcizia della sala medica, vomitevole, mi sento subito meglio e mi è passato tutto. Mi licenziano con la richiesta di fare domani l’analisi del sangue.
Kassala è forse la città più bella del Sudan, tranquilla e con una popolazione pittoresca che mi ricorda l’Afganistan. Le piazze e le strade sono affollate da grintosi uomini della tribù Hadendoa, armati di coltello e bastone, con quattro fregi verticali sulle guance, gilè e pantaloni proprio in stile afgano e, soprattutto, la folta e tipica chioma raccolta in treccine imbrattate di burro che scendono fin sulle spalle. Anche le donne sono parecchio appariscenti, indossano abiti colorati ricchi di ornamenti e due anelli d’oro alle narici. Gli Hadendoa sono una ripartizione tribale della popolazione nomade dei Beja che occupa la fascia costiera del Mar Rosso dall’Egitto all’Eritrea. Tribù che da sempre ha combattuto gli inglesi. La loro elaborata acconciatura, durante la guerra mahdista alla fine dell’800, si guadagnò l’appellativo di “Fuzzy-Wuzzy”, nome tratto da un poema dello scrittore Rudyard Kipling nel quale descrive il rispetto dei soldati britannici per il valore dei guerrieri Beja.
Preso da un certo entusiasmo, inizio a scattare qualche foto e subito ci notano. Un poliziotto ci ferma perché, secondo lui, stiamo curiosando un po' troppo. Vuole vedere il permesso che ci autorizza ad andare in giro liberamente per il paese ma noi non lo abbiamo e lui, per fortuna, ha poca voglia di lavorare. Parliamo, parliamo, e infine il poliziotto volutamente si distrae e noi ci allontaniamo per strada. I sudanesi sono davvero brava gente. Anche i due americani che incontriamo in hotel viaggiano come noi senza alcun permesso. Ci informano che sono stati ospiti nei due campi di lavoro italiani a Deruzeb e Imasa, dove stanno costruendo la strada per Port Sudan.
Qui a Kassala, Aldo ed io rappresentiamo una novità tale da spingere diverse persone a fermarci per parlare con noi. Si avverte bene che siamo in una città in stato di allerta a causa della guerra a pochi chilometri e del conseguente movimento di combattenti eritrei di ritorno dal fronte. Ci imbattiamo in un gruppo di questi del Fronte Popolare marxista. Uno di loro racconta di essere scappato da Asmara un mese fa: “Gli etiopi rendono la vita impossibile ai giovani ed è pericoloso. Ho visto Asmara invasa da russi e cubani”. È arrivato alla frontiera sudanese di Kassala dopo 12 giorni di dromedario tra i monti. Tiene a precisare: “Molti eritrei hanno un differente modo di vedere la guerra, dipende anche dalla classe sociale a cui appartengono o appartenevano. Sono tanti anche quelli che non vanno a combattere perché non vogliono morire”.
Un altro interviene per dire che adesso si sta combattendo molto, ogni giorno, alla frontiera da Port Sudan: “Vi sono circa centomila combattenti attivi e armati”. La base oltre frontiera del Fronte Popolare è troppo lontano da Kassala, vorrebbero portarci ma la pattuglia va una sola volta alla settimana e noi restiamo solo un giorno e non c’è tempo. Il Fronte per la Liberazione, invece, ha un campo al confine, distante 20km, e ci vanno quasi ogni giorno. Adesso è tranquillo. Domani andiamo nel loro ufficio per vedere se ci portano. Mentre parliamo siamo sulla strada principale di Kassala, sul lato opposto c’è un lungo fosso dove gli uomini vanno a defecare in pieno giorno con la gente che passa loro accanto senza badarci.
Sabato 10 marzo, ho ancora le ossa rotte da ieri. Hakmed ci avvisa che il giorno prima la polizia è venuta in hotel a prendere i nostri nominativi e dobbiamo recarci alla stazione centrale per registrarci. Temevamo il peggio e invece non ci hanno chiesto nulla e ci siamo sbrigati in un attimo. Per prima cosa andiamo di fianco all’Hotel Africa, dentro al mercato, da dove partono i bus rossi della Mercedes diretti a Khartum. Prenotiamo per il giorno dopo, parte alle 7.
L'odore dei chicchi di caffè appena macinati speziati con “zinjabil” (zenzero) e “girfa” (cannella) si diffonde nell'aria secca del deserto, difficile resistervi. Il caffè a Kassala lo chiamano “Jebbana”. I nostri banchi e carretti da caffè preferiti lungo la strada, circondati da sgabelli, sono inseriti tra negozi scarsamente illuminati. Viene servito in vasi di metallo realizzati con lattine riciclate. In questa parte del mondo, la praticità prevale sull'estetica. Ci rechiamo a Katmiyya, il sobborgo storico di Kassala, per visitare la tomba di Sayyid Hassan, incorniciata dalle cime tondeggianti dei monti Jebel Totil. Appena entrati in questa sala dal soffitto conico, ci investe l’intensa fragranza di incenso. Sappiamo molto poco del signore che sta nella tomba, solo che è ritenuto un santo dell’ordine religioso Sufi, molto seguito in Sudan.
Tornati in centro, ci fermiamo a fare un po' di spesa: il latte in bottiglia e lo yogurt sono squisiti. Anche l’acqua di questa zona è la migliore del Sudan, viene dai monti dell’Eritrea. Mentre camminiamo assistiamo ad un fatto che ci lascia basiti: un bambino scivola sulla strada mentre un Toyota arriva di gran carriera. Sembra già spacciato quando il bimbo dà un colpo di reni con grande abilità ed evita di essere travolto per un millimetro.
Andiamo alla base dei rivoluzionari eritrei nel quartiere di Sennar. Qui troviamo Habdallà che parla italiano, il quale ci accompagna, dopo una lunga camminata, al quartier generale di Rabat. I comandanti sono in riunione, l’atmosfera è quella adrenalinica, tipica di uomini in guerra che ho già vissuto in Vietnam e in Palestina. Finita la riunione, i capi esaminano la possibilità di accompagnarci al fronte, con Habdallà che fa da interprete: “Occorre tempo per avere i permessi dal comando, facile da ottenere, e dopo provvediamo noi a farvi avere il permesso sudanese per portarvi in giro in ogni posto, anche oltre il confine in prima linea”.
Raccontano che una settimana prima vicino a Nagfa ci sono stati grandi combattimenti corpo a corpo con molti morti: “Gli eritrei combattono coi dromedari tra i monti e usano i mitra kalashnikov presi al nemico. Tanti soldati etiopi si sono rifiutati di combattere e scappano con gli eritrei. Ai contadini non politicizzati il governo di Addis Abeba ha promesso le terre verdi dell’Eritrea e in molti sono corsi a fare la guerra per ottenerla, privi di ogni ideologia”. La conversazione sfuma su dettagli storici, per loro banali ma, per noi molto importanti: “La guerra per l’indipendenza dell’Eritrea dall’Etiopia è iniziata nel 1961, sono 18 anni di guerra ormai.
Asmara è quasi completamente distrutta, alcuni italiani vivono ancora là ma senza fare niente”. Habdullà è molto attivo nello spiegare: “Già negli ultimi anni dell’800 un corpo italiano attaccò Kassala, sconfisse i Dervisci e la città rimase annessa al territorio italo-eritreo, per tre anni, quando fu restituita agli Anglo-Egiziani. Il sultano di Kassala voleva stare con gli italiani e pare che, per questo, gli inglesi l’abbiano ucciso. Nel 1940-41, invece, nel corso della campagna di Mussolini, intesa a togliere agli inglesi il possesso del Sudan, in una furiosa battaglia con l’utilizzo di aerei, carri armati e la cavalleria, gli italiani sconfissero gli inglesi e rimasero a Kassala per un anno”. Tornando ai tempi di Mussolini, ad Habdullà viene in mente un dettaglio da folclore che ci tiene a raccontare: “Quando gli eritrei si diplomavano con la quarta elementare, il massimo livello scolastico consentito, l’alunno riceveva in premio una maglietta con su scritto Operaio Nazionale Fascista”. Tante poi ne dicono ma non riesco ad annotarmi tutto.
Torniamo in centro con Habdullà che, camminando, dimentica la politica e la guerra per un attimo e parla d’altro: “Sino ad otto mesi fa, sia la zona di Almu Kineiri che alla Nokta Station, erano il ritrovo delle prostitute ma, quando il presidente Jaafar Nimeiry ha saputo che tantissimi arabi lasciavano le mogli per andare al bordello, ha fatto chiudere tutto”. Continuando a parlare del femminile, il nostro amico si esalta nel descrivere la bellezza delle donne della tribù Zebèt: “Indossano bellissimi sahari rossi e neri, tengono il volto coperto, sono piene di ornamenti d’argento, sul capo, alle caviglie e con i pettorali”. E aggiunge: “Cattive come le iene!”. Gli uomini invece si distinguono dal tessuto messo a croce sul corpo.
Salutato e ringraziato Habdullà, notiamo che nelle ore di punta a Kassala tutta la gente sta fuori all’ombra a bersi un tè in compagnia, mentre a Khartum le strade sono sempre deserte. Il clima a Kassala è comunque più fresco e c’è più verde. Scatto un paio di foto e subito ci ferma, per la quarta volta, la polizia che è dovunque, onnipresente. Pare che in Sudan occorra un permesso anche per fotografare. Per fortuna non sono mai dei poliziotti “rognosi” e lasciano perdere con un sorriso. Sono solo curiosi. La vivono come una occasione per fare due chiacchiere con degli stranieri.
Tornati in hotel troviamo Maria, una svizzera di Lugano che viaggia sola, alloggia all’hotel Africa ed è venuta a chiedere ad Hakmed se ha una camera con uno o due letti soltanto. Spiega che, quando si viaggia con una donna, in Sudan si è obbligati ad alloggiare in una camera. In genere però molte camere hanno più letti ed anche se si viaggia in due si deve pagare per il numero di letti. Lamenta: “Nel mio caso, sono in una camera con quattro letti e anche se viaggio da sola devo pagare per quattro persone”. Hakmed conferma le considerazioni di Maria, anche se questo hotel non ha camere ma solo dormitori.
Domenica 11 marzo, sveglia all’alba, salutiamo Mohakis Alì Mohakis, proprietario di El Sharc Hotel, e Hakmed, il suo direttore, che mi fanno segnare per bene i loro nomi e l’indirizzo esatto, con una raccomandazione corale: “Aspettiamo che ci mandi le foto che hai scattato davanti all’hotel”. Siamo a Kassala da neppure due giorni ma la sua gente e in particolare i rifugiati eritrei sono stati tutti tanto disponibili da farci sentire sempre bene accetti. Gli italiani per loro, specie per i più anziani, sono bravi e simpatici e sanno farsi voler bene. Abbiamo visto anche la loro frustrazione da rifugiati, uomini molto seri che parlano in continuazione di politica e si sentono come sospesi, in attesa di qualcosa di grande che cambi la loro vita.
Alle 7, puntuali, saliamo sul Mercedes bus per Khartum: per la luminosità del sole, per ammirare il paesaggio e per fotografare, abbiamo scelto i sedili della fila di destra. La polizia sale sul bus per chiedere i documenti, sfogliano il passaporto ma neppure lo guardano, si capisce bene che non gli frega molto. Lungo la via vediamo molti villaggi fatti di capanne ed un grande mercato di cammelli in mezzo al deserto, vicino ad una pozza d’acqua. Deserto con un gran numero di carcasse di animali morti, avvoltoi, falchi, gru e aquile. Durante il percorso incontriamo un camion fermo per aver centrato ed ucciso un bue. Dopo due ore di strada asfaltata ed un’ora e mezza di pista siamo arrivati comodamente a Gedaref.
Col camion all’andata ne abbiamo impiegate 5 o 6. Ovviamente le cose per noi insolite che notiamo sono tante ma mi annoto solo quelle che più mi colpiscono. Vediamo un uomo che cavalca un dromedario che con una corda tiene legato un altro dromedario che lo segue. Sopra al secondo dromedario è stata costruita una impalcatura di legno e veli per tenere coperta e protetta la moglie da occhi indiscreti. In un altro gruppo vediamo, invece, l’uomo a piedi che con una corda traina l’animale con sopra la moglie, sempre coperta da stoffe e veli.
Il bus si ferma solo 15 minuti in tutto il viaggio di oltre 12 ore. Tiriamo avanti senza urinare e con un piattino di fagioli in tutto il giorno. Sono ormai una ventina di giorni che ho raffreddore e tosse, come molti altri passeggeri sull’autobus. Durante la sosta la gente corre a urinare e defecare per strada, si piegano, fanno i loro bisogni e si alzano senza pulirsi. Ore 17:30, eccoci di nuovo a Khartum.