A mezzanotte salutiamo le due giovani spagnole nel bar di Opera Square, con le quali abbiamo condiviso per ore informazioni, tè e narghilè, e ritorniamo in albergo. All’1.30 di notte la polizia bussa alla porta della nostra camera mostrandoci un mandato di perquisizione. Questa mattina avevo percepito che sarebbe successo qualcosa del genere, quando l’impiegato del consolato ha chiesto dove abitiamo bisbigliando che potremmo essere dei brigatisti. Sono in tre comandati da un maggiore, molto garbato. Ha tre fogli in mano, due scritti in arabo ed uno in inglese con i nostri nomi segnati in rosso. Chiedono i passaporti ma il mio è rimasto al consolato per il rinnovo. Provo a spiegarlo tuttavia, a causa della differenza linguistica, non ci capiamo proprio. Nonostante Aldo sia in regola, ingiungono ad entrambi di seguirli in centrale. Al mio invito a farci domande sul posto mi viene risposto in modo perentorio che dobbiamo seguirli. Non mi metto neppure i calzini perché convinto che torneremo presto nella nostra camera. Invece, all’arrivo, ci annunciano che dobbiamo aspettare che apra il consolato per fare richiesta del mio passaporto. Ci fanno sistemare su un tavolone al centro di una grande stanza buia e lercia, già occupata da altri uomini ammanettati e sdraiati al suolo. Incredibile ma vero, ci sono anche due bambine di circa dieci anni con le manette, sorridenti e tenerissime. È una notte surreale, inattesa e grottesca: distesi su di un grande legno e, alla base del quale, tutt’attorno sul pavimento, gli altri carcerati sdraiati e legati. Tutti chiusi in un ambiente maleodorante per il puzzo di piedi. Già noi sul tavolo e gli altri sul pavimento dovrebbe farci sentire dei privilegiati.
Ogni tanto qualcuno emette un peto rumoroso e tutti a ridere, ognuno per motivi diversi. Sembra che la presenza di due europei li faccia ridere con maggiore impeto. Nel corso delle ore entrano altri 17 arrestati. Alle 7,30 vengono a svegliarci, c’è un gran freddo. Il maggiore, di nome Boris, arriva bello fresco alle 11,30, mentre noi, dopo una notte allucinante siamo sfiniti dalla stanchezza. Tra l’altro oggi è venerdì, il giorno in cui le sedi diplomatiche sono chiuse. In un inglese approssimativo Boris comincia a chiedere più volte la stessa cosa: “What with the stamp? What with the stamp?”. Sembra riferirsi a dei francobolli spariti da qualche parte, ma da noi cosa vuole? Lentamente, tra parole e disegni, tutto acquista un senso: il giorno in cui siamo andati al consolato è sparito un timbro importante e, assieme ad altre persone, ci hanno indicati come potenziali autori del furto, anche se il consolato è comunque sempre affollato di gente. Boris è simpatico, ci fa le domande di prassi sul perché dei viaggi e prova pure a fare un’indagine sulle nostre idee politiche, anche se in realtà gli importa poco di noi e non vede l’ora di lasciarci andare. La colpa di tutto questo è dei funzionari del consolato e non mancheremo di protestare appena possibile. Alle 15 usciamo dalla stazione e facciamo un tratto di strada assieme alle due bambine liberate, deliziose e grate per avergli donato qualche pound.
Al ritorno in hotel, il titolare si manifesta molto comprensivo per il disturbo causato: “È la prima volta che la polizia viene nel mio hotel, forse è per questioni politiche... bravi, fate bene a denunciare la cosa al vostro console”. “Pigiamone”, il titolare sempre in pigiama, ci prepara pure un buon piatto di maccheroni al sugo. Arafat e gli altri ospiti dell’hotel sono stravolti per ciò che ci è accaduto e si dichiarano solidali nei nostri confronti. Per tirarci su di morale andiamo a cenare all’Hilton, dove iniziamo a conversare con due affabili studentesse, una tunisina e l’altra siriana, che ci danno appuntamento per il giorno dopo alle 16 nella hall dell’hotel Sheraton, anche queste però parlano troppo e di cose noiose. Antonio, il siciliano che da otto mesi suona la chitarra nella trattoria italiana dell’Hilton, si siede un attimo al nostro tavolo per sapere di che Paese sono le due ragazze appena uscite e sentenzia: “Per gli egiziani le straniere sono tutte prostitute, le egiziane invece sono sante”. Apprendiamo che questo Nile Hilton del 1958 detiene un record per essere il primo hotel internazionale del Medio Oriente, costruito sul sito di una ex caserma dell’esercito britannico. All’uscita ringraziamo il guardiano che ci apre la porta e questi con disinvoltura risponde “no grazie ma baksis”. Qui hanno tutti la mania del baksis, chiedono la mancia o un regalo per ogni cosa. Proprio come riferito dalle due amiche spagnole: “Gli egiziani non fanno nulla per cortesia”.
La clientela dell’Hilton e degli hotel lussuosi è, in gran parte, troppo fredda e sofisticata, facce insulse che sembrano sempre annoiate. Anche al ristorante italiano del President hotel, consigliatoci da Antonio, è la stessa cosa e inoltre troppo caro. Abbiamo bisogno di persone più semplici e vere, speriamo di riuscire a lasciare il Cairo quanto prima. Oggi, venerdì 26 gennaio, è caduto il governo in Italia.
Il mattino dopo andiamo al consolato per protestare con il Console che però torna lunedì. Tuttavia, ci infuriamo con la signora Grimaldi, fautrice di quanto accaduto. Quando gli dico che forse scriverò un articolo dell’accaduto sull’Espresso diretto da Ezio Mauro dal titolo “Sconsolato senza timbro” si impaurisce. Solo la vaga ipotesi di uno scandalo per colpa sua la mette quieta e diventa di colpo ragionevole. La modenese Loredana, impiegata dell’ufficio accanto, ci dà ragione: “È la Grimaldi che è andata fuori per un caffè lasciando l’ufficio incustodito. In quattro anni che sono qui non è mai successo che sparisca un timbro, forse qualche arabo?”. E aggiunge: “E’ un timbro molto importante e ora tutti i documenti li dobbiamo portare all’ambasciata a farli timbrare e poi ritornare perché ogni consolato ne ha uno solo. È il timbro che concede il visto a qualsiasi documento”. In effetti, ogni volta che veniamo c’è sempre un gran movimento di gente da un ufficio all’altro, con porte aperte, stanze vuote e nessun controllo. Aggiunge poi un dettaglio tecnico: “Quel timbro è sparito nell’arco di mezzora e in quel lasso di tempo siete entrati solo voi, un fattorino ed un’altra persona che stanno cercando di rintracciare. Si teme ora che entrino in Italia degli egiziani abusivi”.
Mentre andiamo alla posta per spedire alcuni pacchi in Italia, prendiamo atto di quanto questa città sia trascurata e invasa dalla sabbia del deserto. Nei negozi lungo la via le commesse tolgono il deposito di sabbia che si forma a strati sui pavimenti, sulle vetrine ed ovunque, mentre dai minareti di diverse moschee parte in coro la frase Allahu Akbar, ovvero “Dio è il più grande”. L’invocazione religiosa che si diffonde in tutta la città e, in tono baritonale, viene diffusa dai muezzin in persona.
Arrivati al General Post Office c’è da “divertirsi” a passare da un ufficio all’altro, compilare moduli, salire al secondo piano per altri uffici, poi fare la fila per comprare i francobolli, prendere i cartoni, incartare a dovere la merce e trattare con chi avvolge nella tela i pacchi per evitare che rubino durante il trasporto. Spediamo 2 pacchi io e 2 Aldo, contenenti borse in pelle e narghilè. Ci fanno compilare 7 fogli per ogni pacco che vanno poi vistati in diversi uffici. Un’operazione frenetica che ci impegna per ben tre ore.
Giunti in hotel, nel soggiorno veniamo catturati dal film in tv dal titolo Napoli violenta, un poliziesco dove tra rapine e sparatorie ne combinano di tutti i colori, con gli arabi presenti che ci chiedono in continuazione se è tutto vero, convinti che tutta l’Italia sia un Paese molto pericoloso.
È lunedì 29 gennaio, il nostro diciottesimo giorno al Cairo, e la prima cosa che facciamo è andare di corsa a protestare col console, Leonardo Visconti di Modrone, il quale ci disorienta scusandosi subito di cuore per l’accaduto: “Sono molto dispiaciuto, il compito di un consolato è quello di tutelare i nostri cittadini e non di mandarli in galera”. E aggiunge: “Prenderò provvedimenti con il maggiore Boris per abuso di potere e forse anche con la signora Grimaldi che ha fomentato questo casino”. La signora Loredana dell’ufficio di fronte rincara la dose senza più freni: “Tutti odiano quella despota nevrotica della Grimaldi, anche il console, faccia un bel articolo sull’Espresso così ce la tiriamo via dai piedi”. La stessa ci confida che mentre eravamo con Visconti, nella stanza attigua c’erano due uomini dei servizi segreti ad origliare dietro la porta, pronti ad intervenire nel caso avessimo inveito in modo violento. Console che Loredana dice essere parente del grande regista Luchino Visconti.
Il mattino seguente, quando torniamo al consolato per avvisare che è nostra intenzione assentarci dal Cairo per andare a visitare Port Said e Suez, sia Mario che la signora Loredana ci informano che sono già stati interrogati tutti gli impiegati ed uscieri arabi ed è stato preso, inoltre, un provvedimento disciplinare contro l’odiata Grimaldi per aver lasciato il prezioso sigillo sul tavolo incustodito. Castigo che rende tutti visibilmente appagati: “Giustizia è fatta!”.
Alle 11 siamo alla stazione dei taxi collettivi diretti a Port Said, una distesa di Peugeot familiari che caricano fino a nove o anche dieci persone. Finché il mezzo non è pieno non si parte e tutti si aspetta pazienti che si riempiano i sedili. Partiamo alle 12,30 e arriviamo alle 15, due ore e mezzo e 170 km di paesaggio arido, piatto e monotono. L’unica nota di colore sono le due simpatiche signore sedute nei sedili posteriori che ipotizzano un matrimonio con qualcuno in Italia ed il driver divertito che fa da traduttore.
Il piccolo e colorito abitato di Port Said, che sorge su una lingua di terra tra il lago Manzala, il Mediterraneo e l’imboccatura del canale di Suez, ci appare decisamente abbandonato all’incuria, dalle caratteristiche mediorientali, comunque tranquillo e diverso dal Cairo. Le antiche case caratterizzate da grandi e assolate terrazze rendono l’architettura della cittadina molto gradevole. La zona del porto-franco attrae turisti e commercianti locali ma, ad eccezione delle radio di marca, i prezzi di macchine fotografiche ed orologi, a nostro parere, non sono per niente vantaggiosi. Ci perdiamo ad osservare l’interminabile fila di navi che attendono di poter entrare nel canale e l’incessante via e vai di traghetti gratuiti, per persone e auto, che collegano Port Said al sobborgo di Port Fouad, sul lato asiatico del canale. Viene alla mente la crisi del 1956, il conflitto che fu determinato dall’occupazione militare del canale da parte di inglesi, francesi e israeliani, a cui si oppose l’Egitto, sostenuto in seguito da Russia e Stati Uniti. Il simbolo della città è il suo faro di 56 metri eretto nel 1869, essendo la prima costruzione al mondo creata usando l’armatura in barre di ferro assieme al calcestruzzo, il cosiddetto “cemento armato”.
L’hotel Abu Simbel ha tutte le camere occupate, peccato perché ha pure il ristorante e la pasticceria Gianola del signor Sinigallia, un pugliese nato a Port Said che conserva però il passaporto e la cittadinanza italiana: “Ai miei tempi qui vivevano ben 35 mila italiani”. E aggiunge: “Perfino il passaggio artificiale del canale di Suez è stato progettato da un ingegnere italiano, un certo Luigi Negrelli di Trento”. Nel negozio pasticceria entra un altro signore nato pure lui a Port Said: “Sono italiano con passaporto italiano, parlo bene arabo, inglese, francese e tedesco ma l’italiano non tanto”.
Giriamo per un paio d’ore alla ricerca di un alloggio ma gli hotel sono tutti strapieni di arabi che vengono per fare acquisti al duty free del porto. Per questo, molti egiziani dormono in auto. Alla fine rimediamo una camera sozza e senza bagno al Gran Hotel. Nei bagni si usa lavarsi le parti intime con l’acqua che esce da un tubetto, ma per evitare di restare poi bagnati è importante avere sempre con sé un rotolo di carta igienica per asciugarsi. Usciamo per una perlustrazione serale e, in effetti, fa piacere vedere il nostro tricolore sventolare sopra ad un bellissimo ed antico edificio in stile veneziano sede del consolato italiano. Vediamo che a Port Said come al Cairo i locali con la scritta “Casino” stanno ad indicare quei ristoranti dove verso le 23 si accende un teatrino con lo spettacolo basato principalmente su musica di flauti e tamburi e danza del ventre, una sorta di Cabaret arabo.
Al mattino presto, dopo una misera colazione in hotel, saliamo su un taxi collettivo diretti a Suez, 150 km a Sud e due ore e mezzo di viaggio. All’uscita da Port Said c’è la dogana per controllare gli acquisti privi di dazio fatti al porto-franco, probabilmente ci sono dei limiti da rispettare. Lungo la strada, perpendicolare accanto al canale, abbiamo la suggestiva visione delle navi di diverso tonnellaggio che si susseguono sulla nostra sinistra ed è per noi automatico estrarre la macchina fotografica e scattare alcune foto, senza però tener presente che questa è tutta zona militare. Di colpo l’atmosfera sul taxi si gela a causa della psicosi molto diffusa sulla presenza di spie straniere. I passeggeri, prima gioviali, iniziano ora ad osservarci in modo sospetto ed è chiaro che possono pensare “chi sono veramente questi due bianchi che viaggiano con dei nativi e fanno delle foto proibite in una zona militare?”. Dai loro sguardi si intuisce benissimo che faticano a comprendere che quelle foto rappresentano solo i ricordi e le testimonianze di un viaggio.
Suez è un importante porto affacciato sul golfo omonimo che introduce al Mar Rosso. La città non è così interessante essendo stata completamente distrutta dagli israeliani nel 1967, durante “la Guerra dei sei giorni”. Ricostruita solo quattro anni fa, nel 1975, dopo la riapertura del canale. Suez è stata più bombardata di Port Said, i segni della guerra sono ancora evidenti ovunque. Per noi comunque, che siamo arrivati affamati, Suez è i quattro sandwich con sardine, formaggio e pomodori, poi le due spremute d’arancio, i due frullati di banana milk, il piatto di pasta stracotta, le due ciotole di riso al latte e per finire i due buuri (narghilè) davanti a due ciai (tè). Siamo seduti sul lungomare ma la foschia non ci consente di vedere con chiarezza la costa del Sinai di fronte. Per tornare in giornata al Cairo, distante 135 km, c’è anche il treno ma impiega più di quattro ore, mentre noi saliamo su un altro taxi collettivo e in un’ora e 45 siamo di nuovo “a casa da pigiamone”.