La mappa esposta al valico di frontiera uzbeko illustra, in modo dettagliato, l’intera regione centro asiatica, altrimenti detta “stan”. Infatti tutti i paesi terminano con stan che in persiano significa “terra di…” E’ il territorio che va dal Mar Caspio alla provincia cinese dello Xinjiang abitata da Uiguri di origine turcomanna. Scorro millimetro dopo millimetro la via che ho scelto di seguire fino al Pakistan e ora eccomi in Uzbekistan, mio secondo stan. Un paese guidato dalla figura carismatica di Islom Karimov che ha imposto un regime fortemente autoritario, trasformando radicalmente le vecchie strutture sovietiche e recuperando gli originari costumi uzbeki, ereditati dagli antichi Khanati di Khiva e di Bukhara. Si sono così riaffermati i concetti di clan e tribù, che oggi sono alla base della vita sociale uzbeka.
E’ il 15 giugno e sono le 15. Il “manipolo” di pseudo taxisti all’esterno della dogana chiede troppo, bisticcia con un camionista che mi offre un passaggio e infine qualcuno accetta di portarmi a destinazione per un terzo del prezzo iniziale (US$ 20). Dopo 120 km di buche, percorsi a velocità insensata, giungo alla stupenda old city di Bukhara, nella quale si percepisce subito un’atmosfera molto diversa da quella appena vissuta in Turkmenistan. Qui ci sono turisti, il mercato nero è tollerato e la gente si relaziona con gli stranieri in modo assai disinvolto. Le ragazze non lesinano chiacchiere e sorrisi, mentre gli uomini salutano sempre con la mano sul cuore: “You welcome”. Anch’essi musulmani atipici, in gran parte liberi da schemi religiosi di carattere integralista a causa della secolare repressione sovietica. Lo stesso presidente Karimov ha basato gran parte della sua propaganda nazionale sulla lotta all’integralismo islamico.
Alloggio al Rustam-Zuxro, una piacevole guest house per viaggiatori che, per dimensioni, odore, scoloritura e usura di lenzuola e asciugamani mi fa fare anch’essa un tuffo nel passato. La zona è quella ben nota di Lyabi-Hauz, il laghetto artificiale cuore della old city serale, in cui si affaccia la Madrassa Nadir Divan-begi, quella con i mosaici di uccelli sul frontale, voluta dal Vizir Nadir che governò Bukhara nel XVII secolo. Non distante si trova la Mogaki Attari (“pozzo degli erboristi”), ritenuta la moschea più antica del continente euroasiatico e probabilmente il luogo più sacro della città. Tutta la old city è un gioiello il cui epicentro è la piazza del possente minareto Kalyan (“Grande”), che era la costruzione più alta dell’Asia Centrale e, per lo stupore che destava, fu addirittura risparmiato dalla furia distruttrice di Gengis Khan. Jorge, colto studioso russo, conosciuto nella hall di un hammam (bagno turco), si offre di farmi da cicerone con alcuni curiosi aneddoti legati alla storia di questi monumenti islamici. Le sue parole: “Il minareto Kalyan è stato dichiarato patrimonio dell’Umanità dall’Unesco. Appena terminato collassò al suolo, probabilmente per non aver tenuto ben conto della consistenza del terreno. Il suo architetto, per timore di essere giustiziato, se la diede a gambe, fuggì”. L’attuale minareto di 47 m, che tutt'ora domina lo skyline di Bukhara, fu terminato nel 1127 per volere di re Arslan Khan.”
Accanto, sulla destra, l’ingresso alla moschea Kalyan, al cui interno spunta un seducente piazzale rettangolare ornato da un'unica pianta, posta al centro. Jorge mi mostra il monumento che si trova dietro alla pianta, eretto in memoria dei 500 bambini maschi fatti uccidere da Gengis Khan nel 1220. Sul lato opposto della piazza, ornata da belle cupole turchesi, si trova la madrassa di Mir-i-Arab, che prende il nome di un mecenate sceicco yemenita del XVI sec. sepolto sotto la cupola settentrionale. Essendo tuttora funzionante ne è vietato l’accesso ai turisti. “Dall’inizio dell’Islam esistono tre tipi di moschee: Djuma per le grandi adunate del venerdì, Namazga usata perlopiù nelle campagne e Quzar nei sobborghi”. Kalyan è una Djuma, tuttavia, continua Jorge: “A seguito del bombardamento di tutte le moschee da parte dei bolscevichi, avvenuto nel 1918, le moschee che vediamo oggi sono quasi tutte rifatte”, conclude Jorge. Va vista anche la moschea Bolo Hauz (1718), una splendida costruzione che sorge di fronte alle possenti mura della fortezza Ark. Era il luogo di culto degli emiri ed è preceduta da un grande porticato con un soffitto di raffinata fattura, sorretto da venti colonne di legno intarsiato. Molto bello anche l’interno illuminato da un unico immenso lampadario.
Da non perdere al mattino il bazar Savdo Kompleksi, dai tappeti enormi e dell’affollato mercato orafo gestito da centinaia di donne che vendono gioielli in oro 14k, soprattutto anelli e orecchini. Fresche logge e gallerie che ricordano il bazar di Istanbul: l’influenza turca si respira nell’aria, d'altronde dal Medioevo è presente l’elemento turco che si rafforzò a spese del regno persiano fino all’arrivo dei mongoli nel XIII sec., ma anche questi si “turchizzeranno” presto nella lingua e nei costumi. Tant’è che l’uzbeko altro non è che una lingua turca orientale. Ricca cena, per 3 euro, nella veranda panoramica del ristorante Chinor (il salario medio è di 100 euro al mese) e sotto, nella bettola per bevitori, l’incontro con Soliy Charipov, uomo generoso amico di Tiziano Terzani che di lui racconta: “Quando Tiziano è venuto a Bukhara nel ‘91, dopo la rivoluzione d’indipendenza dai bolscevichi, gli ho procurato del sapone per lavarsi perché qui allora non c’era niente.”
Samarcanda, porta d’Oriente
Alle 8 sono sul treno per Samarcanda, in business class (11 euro): 6 comode poltrone numerate, 2 tv digitali per compartimento e servizio eccellente; 300 km in 3 ore esatte di paesaggi, greggi, mandrie e bambini che, proprio come in Turchia, tirano sassi contro il treno in corsa. Sono impaziente di arrivare perché da anni covo il desiderio di metter occhio sulla straordinaria ricchezza monumentale lasciata dalle grandi civiltà succedutesi in questa terra e “Nessun nome evoca la Via della Seta più di Samarcanda”. Mi sistemo all’Hotel Emir nella zona turistica, accanto al venerato Mausoleo di Amir Temur (1336-1405), il conquistatore turco-mongolo meglio noto in Occidente come Tamerlano. L’edificio del sepolcro occupa un posto fondamentale nella storia dell’architettura islamica, essendo precursore e modello per le successive, grandi tombe dell’architettura Moghul (tra cui il Taj Mahal ad Agra). Non distante, tra il verde, si erge la statua gigante in bronzo di Tamerlano (“Tamir lo zoppo”), l’uomo che decise di rendere Samarcanda la capitale del suo impero che si sarebbe esteso dalla Turchia all’India.
Per decenni la città fu piena di cantieri, fino a diventare il centro della regione chiamata Transoxiana, “Ciò che è al di là del fiume Oxus” (oggi chiamato Panj). Con un destino comune ai guerrieri conquistatori, Temerlano è passato alla storia per la ferocia, le devastazioni e i massacri che accompagnavano le sue imprese; fatti che hanno offuscato la sua fama da illuminato mecenate ed estimatore degli artisti e degli intellettuali dell’epoca. Altri due passi e mi trovo davanti al maestoso Registan, complesso islamico tra i più famosi al mondo, centro della Samarcanda medievale. E’ composto da tre grandi corpi, madrasse (scuole islamiche), che formano i tre lati di una vasta piazza: la Madrassa di Ulug Bek, a sinistra, completata nel 1420 fu università clericale di grande fama. La sua peculiarità decorativa è rappresentata dai mosaici con temi astronomici: per volere del sovrano, appassionato astronomo, oltre a filosofia e teologia, qui si studiavano gli astri; la Madrassa Sher-Dor, eretta di fronte nel 1636, identica alla prima tranne che per la decorazione di tigri ruggenti e volti umani, in clamorosa violazione delle tradizioni islamiche; la Madrassa Tilya-Kori, posta fra le due nel 1660, con gli stessi decori geometrici e una corte interna assai gradevole, sulla quale si affacciano le celle dormitorio degli studenti. L’assolato Registan era il cuore della città, la piazza pubblica dove la gente si radunava per ascoltare i proclami reali, annunciati attraverso botti esplosi da enormi pipe di rame, o anche per assistere a esecuzioni. Annotazione di colore: il guardiano Alì smette di succhiare tabacco: lo sputa per dirmi che nel 2011 anche Albano era qui. Ma nessuno è celebre più di Toto Cutugno. Appena capiscono da quale Paese provengo, in automatico scatta il coro: “Lasciatemi cantareee ... sono un italiano, italiano vero”. Sanno tutte le parole. Sconcertante!
Seguendo il percorso pedonale alle spalle del complesso, in breve si arriva alla gigantesca moschea di Bibi-Khanym, altro armonioso gioiello voluto da Tamerlano. Pare fosse dedicato alla sua moglie preferita, una delle nove, ma le leggende su questa bella principessa mongola si sprecano. Spettacolo dal vivo sul lato destro della moschea, dove si estende il frenetico e seducente bazar agricolo: una torre di Babele brulicante di vestiti dai colori sgargianti, cappelli, scialli e turbanti di ogni gruppo etnico esistente nella regione. Continuando, s’incontra la ripida scalinata della moschea/mausoleo Shah-i-Zinda (“Il re vivente”), un suggestivo vicolo interno con tante tombe di persone vicine a Tamerlano e a suo nipote Ulug Bek (1394-1449). La più venerata è però quella di Kusam Ibn Abbas, il cugino del profeta Maometto che si ritiene sia stato cremato qui. La targa all’ingresso del sepolcro riporta la frase che Maometto disse di lui: “nella natura e nel mostrarsi Kusam è vicino a me più di chiunque altro”.
Tutt’attorno, un curato cimitero sparso per la collina e, più avanti, sopra alla stazione dei bus, una bellissima statua di Ulug Bek avvolta dall’affresco del Cosmo. Tuttavia, a parte questa zona circoscritta facilmente visitabile a piedi, il resto della città è adeguato alle tematiche estetiche del socialismo reale, imposto ai tempi dell’Unione Sovietica. Una costante umana piacevole da vedere, di buon auspicio per il futuro, la quantità enorme di bambini che giocano liberamente dappertutto. Mi affaccio al mega ristorante vicino al Registan e lì mi imbatto in un matrimonio: centinaia di tavoli tondi e tutto è rivestito di bianco; mi invitano a entrare, a ballare sul palco assieme ad altri partecipanti in festa che si muovono al suono assordante di tamburi e tamburelli. Qui resto folgorato dall’invitante sorriso di una ragazza bionda bellissima, con occhi azzurri da sogno, irreali, mai visti più belli … da Guinness! Bella energia generale, che mi fa sentire “come a casa”.
Una volta assorbita l’essenza della città, grazie a una vera scorpacciata di moschee, minareti, madrasse e cupole turchesi, giunge il momento di organizzare il proseguo del viaggio verso il Tagikistan. Mi confermano che la frontiera più vicina, al passo di Pendikan, è chiusa. Così pure i voli per Dushambe sono interrotti per una disputa politica legata al controllo delle sorgenti d’acqua, essenziali per la vita economica dei due paesi. L’unico valico aperto pare essere quello meridionale che passa per Denau. Il treno parte a notte fonda e fa un giro enorme fin giù al confine afgano, a 60 km da Mazar-e-Sharif: scomodo! Non rimane che il taxi collettivo, detto marshuska, che parte dalla spiazzo di Gribnoi Canal: 20 euro per 410 km e quasi 8 ore di giuda a zig zag, causa strade sgangherate, fino al confine uzbeko/tagiko di Granidza. Incredibile ma vero, in entrambe le dogane procedura celere e nessun controllo. La cappa opprimente del regime sovietico pare dissolta.