L’interesse per Nosy Be (Isola Grande), la principale meta turistica del Madagascar, è nato in seguito a suggestioni di segno diverso fornite da alcun amici, impegnati nella miriade di Onlus attive sul territorio della mega isola. Alla descrizione in cui veniva sottolineato lo splendore del paesaggio e la socievolezza della sua gente, si opponeva l’inquietante immagine del turismo sessuale e, peggio ancora, del traffico di organi. Diventerà, di fatto, un’esperienza che andrà ben oltre le mie aspettative.
Situata poco al largo della costa nord-ovest del Madagascar, Nosy Be conta 60 mila abitanti ed è ricca di spiagge ornate da palme da cocco. Per arrivarci dalla capitale Antananarivo, in cui regna una profonda miseria, sono state necessarie ben 25 ore di taxi brousse (pulmino collettivo) che mi hanno però permesso di avere un immediato spaccato, diurno e notturno, sui villaggi dell’entroterra malgascio. Emblematico è il consolidato e tacito accordo sulla prassi del lasciapassare: a ogni posto di blocco militare il driver consegna un giornale in cui inserisce alcune banconote, equivalenti a una tassa di transito che consente ai militi di arrotondare il magro stipendio. Sul pulmino viaggia anche Julia Bartel, una bella e spigliata ragazza canadese giunta qui per nove settimane di volontariato presso la riserva naturale di Lokobe, nel sud-est dell’isola. Siamo gli unici occidentali del viaggio e diventiamo presto alleati.
La lancia da Ankify (4 euro), una sorta di brousse del mare che parte solo quando è al completo, in 15 minuti ci conduce al porto di Hell-Ville, il gradevole capoluogo situato nell’estrema parte meridionale di Nosy Be. Finisco al Belle Vue Hotel, un lindo albergo in pieno centro, a due passi dal mercato, vicino a negozi, caffetterie, ristoranti, taxi, comodo a tutto. Inoltre, appena fuori a sinistra, c’è un baracchino in cui si cucina dell’ottimo gnocco fritto alla “modenese”, detto opsi. Trovo la reception invasa da giovani uomini appena giunti da Reunion e da Mayotte, dagli atteggiamenti plateali e boriosi, in contrasto con la sobrietà dei nativi. La titolare, Madame Beatrice Noeline, in disparte mi confida: “In quelle isole si danno arie da evoluti. Quando arrivano qui esibiscono una superiorità che non hanno”. Tutt’attorno, una schiera di ragazze in camice bianco, chine, strofinano ogni angolo del pavimento con spazzola, acqua e sapone.
Essere in una bella camera tirata a lucido, nell’isola più esclusiva del Madagascar e pagare solo 8,50 euro a notte è per me cosa inaspettata. Julia occupa la camera accanto e, appena mi muovo, chiede di aggregarsi. Le strade hanno un fascino autentico, grazie al susseguirsi di superbi edifici coloniali dalle tinte tenui, alternate dai colori allegri delle case tipicamente tropicali, con ampie verande e porticati che ricordano le costruzioni sia caraibiche che indonesiane: alcune fatiscenti e invase da umidità e muffe, altre appena tinte e ristrutturate, incorniciate da cascate di bouganville. Un’armoniosa architettura in sintonia con la gente serena e dai modi garbati, mai eccessivi, tanto da rendere il luogo decisamente piacevole e rilassante.
Dovunque mi giri vedo persone di tutte le età che sembrano vivere con gioia tutto ciò che le circonda. Qui si canta ancora per strada con spensierata naturalezza. Mentre cammino noto quattro anziane signore, sedute su una scalinata, ridere fragorosamente di gusto mettendo di buon umore i passanti. Come pure la marea di bambini scalzi e seminudi che, dovunque, giocano liberi e si divertono come pazzi. Sono certamente molto poveri, ma sempre sorridenti. A rendere il tutto ancor più vivace e “pittoresco”, il viavai di curiosi tuk-tuk gialli sul genere tailandese. Resto colpito da una bambina di 7-8 anni, che tiene in braccio un bimbetto di circa 3 anni e dietro uno di 4 anni che la segue. Ferma un tuk-tuk, spiega al driver dove deve andare, contratta il prezzo, dice poi al fratellino di seguirla e salgono. Una scena che rivela la necessità dei bambini di arrangiarsi. On the road si mangia e si beve di tutto, con la banconota di 100 Ariary, che corrisponde ai nostri 3 (tre) centesimi di euro, si può scegliere tra una banana fritta, un’arancia sbucciata da succhiare sul posto, un piattino di spaghetti, un bicchiere di succo di mango e molto altro. La ricarica telefonica di 55 minuti, invece, costa 0,30 euro. Qui un euro vale davvero 100 centesimi!
Giulia e io entriamo al Nandipo in Rue Albert, un locale atipico, arredato con botti in stile bodega di tipo ispanico. Juan, il proprietario di Barcellona, chiarisce che* Hell* non centra niente con la traduzione inglese “Inferno”, ma era il nome di un governatore dell’isola in epoca francese. Il caffè migliore però lo beviamo nel primo banco all’ingresso di sinistra del mercato, dove i clienti usano versare il caffè dalla tazza al piattino per poi berlo raffreddato. Seduti nella minimale caffetteria, osserviamo il piacere del vivere pacato, un implicito elogio alla lentezza per cui ogni individuo sembra essere padrone del Tempo. La nostra attenzione viene attratta dal grande televisore al plasma posto sopra al gate principale del mercato. Viene acceso alla sera per una platea di gente che segue i programmi seduta al suolo. In fondo a Boulevard de l’Independance incontriamo l’Oasis, un arioso locale molto frequentato dai vazha (stranieri bianchi), in cui è possibile mangiare diversi cibi a qualsiasi ora del giorno, compresa la pizza e anche una grande varietà di pasticcini per la colazione.
Il cameriere, che afferma di chiamarsi Giulio, era un animatore turistico e parla italiano. Lavora 6 ore al giorno, tutti i giorni, per 30 euro al mese. Ci racconta che lui appartiene originariamente al ceppo tribale dei Sakalava e afferma: “Siamo l’etnia predominante dell’isola, originaria dell’ Africa. Alla capitale, da dove arrivate, l’etnia dominante è quella dei Merina, di origine asiatica, nostri nemici storici. Loro sono più cerebrali, noi più concreti”. Julia è socievole e parla francese, funziona perciò da calamita. Infatti Marcel, uno skipper francese, dal tavolo accanto ci sente avidi di notizie e decide di intervenire: “I Sakalava sono brava gente, sempre collaborativi, difficilmente si mettono in contrapposizione … venerano le reliquie delle antiche famiglie reali, ma sono noti soprattutto per le loro tombe decorate con sculture lignee in prevalenza dedicate al tema dell’erotismo nelle sue diverse espressioni o posizioni”. Marcel sottolinea come la sessualità sia sempre stata e sia tuttora dominante nella loro vita, tanto da farla diventare oggetto delle loro creazioni artistiche e di culto.
Collego subito questa affermazione alla voce che aleggia circa il turismo sessuale sull’isola e penso che gli occidentali abbiano una particolare propensione a deturpare, con la lusinga del denaro facile, la purezza di questo popolo che vive il corpo come fonte di piacere e fertilità. La sessualità per i Sakalava è infatti una dimensione piacevolmente istintiva e naturale che, assieme alla povertà e alla ignoranza diffuse, rischia di essere strumentalizzata favorendo il turismo sessuale. Dopo tanti apprezzamenti, chiedo quali sono le cose di loro che gli piacciono meno e Marcel pronto: “Sono permalosi, si offendono facilmente, dicono bugie disarmanti e raramente sono puntuali”. Peccati che a me sembrano veniali, comuni tra i popoli dei tropici la cui inattendibilità dipende spesso dalla vaghezza delle risposte, mossi soprattutto dal desiderio di compiacere lo straniero. Non sono puntuali perché non assillati dal Tempo, scandito dall’alternarsi del giorno e della notte e non dall’orologio. L’errore di valutare ogni cosa secondo i nostri parametri, sovente legati alla produzione, all’efficienza e al profitto, purtroppo è molto diffusa tra i bianchi. Da qui nasce la difficoltà a comprendere le ragioni dei loro comportamenti.
Sulle origini dei Sakalava, per me ancora misteriosi e sconosciuti, vale la pena indagare e approfondire, per cui mi documento meglio e scopro che l’origine dei Sakalava risale al XVI secolo, con il regno di Menabe che giunse a controllare gran parte della costa occidentale del Madagascar. Come capitale fu scelta Bengy, sulle sponde del fiume Sakalava. Il regno di Menabe si scisse, dando in seguito origine al regno di Boina, il secondo grande regno Sakalava. Entrambi i regni furono molto attivi nel commercio degli schiavi. Scambiavano bestiame e schiavi in cambio di armi da fuoco, che usavano per rafforzare il loro predominio sulle altre popolazioni malgascie. Erano ottimi navigatori, con le loro flotte di canoe a bilanciere razziavano le Comore e le coste dell’Africa orientale. Il loro predominio fu in seguito gradualmente indebolito dall’ascesa dei Merina e poi definitivamente cancellato dalla colonizzazione francese. La società Sakalava rimane fortemente gerarchica. I riti funebri sono radicalmente diversi fra i nobili, il popolo e i discendenti degli schiavi.
Saluto Julia che inizia il servizio alla riserva e salgo sul taxi collettivo per Ambatoloaka (0.60 euro), il villaggio vacanziero più grande e frequentato dell’isola, distante 11 km. Per far salire più gente, il driver consente alle donne, di qualsiasi età e stazza, di sedersi sulle gambe di un passeggero qualsiasi, per cui capisco che è una prassi normale, anche se avverto che la signora che siede sulle mie ginocchia è leggermente tesa, probabilmente perché sono un bianco. Pochi minuti di pioggia e la strada, già in cattive condizioni, diventa un fiume. Piove dentro al taxi, ma per alzare i vetri c’è solo una maniglia, che ci passiamo tra passeggeri in modo che ognuno chiuda il proprio finestrino. L’acqua ha bagnato le puntine e l’auto si ferma tre volte, l’autista scende, asciuga le candele con molta calma, mentre in auto siamo in attesa, uno sopra l’altro. Nessuno sbuffa o si lamenta, tutti capiscono la difficoltà del driver e ne sono partecipi, per abitudine.
Il paese si presenta come un qualsiasi abitato malgascio, con il suo centro nel bivio chiamato Dar-es-Salam, dove stazionano i taxi. A sinistra la strada è sterrata e in lieve salita mentre, proseguendo dritto, ci troviamo presto di fronte alla strada sbarrata ai veicoli a causa dell’ingresso alla zona pedonale, consacrata al turismo: una sorta di borgo adiacente alla spiaggia che il taxista beffardamente chiama “bum-bum area”, a causa del viavai e del frastuono prodotto da diverse musiche che ha inizio dall’imbrunire. È la movida locale. Qui si radunano alberghi, ristoranti, pizzerie, tour-operator, dive-centre, bar, pub con biliardo e un paio di animate discoteche, ma anche bancarelle con cibi e manufatti locali per gruppetti di turisti di ogni età, in un’atmosfera decisamente paesana. Non ho la sensazione di muovermi in un luogo votato alla perdizione. Nulla ha a che vedere con il big business o il vociare stridulo delle chicken girls tailandesi. Anche qui regna la chiara impronta del torpore morale tipico dei luoghi di frontiera, tuttavia meno fastidioso o imbarazzante che in altri Paesi. Tutto sembra più armonioso, solare, mai eccessivo e riflette il carattere dei Sakalava.
Dai proprietari francesi del Beach Bar vengo a sapere che il locale più noto e frequentato è comunque fuori dal borgo, si chiama Djembe Disco ed è sulla via per Madirokely e Le Zahir Lodge, l’incantevole resort gestito da Antonio e Cesare. Gli stessi francesi mi chiamano per fotografare il loro trofeo, un pesce spada enorme, appena pescato, lungo più di due metri, e poi delegano i camerieri a sezionarlo con un seghetto, direttamente sulla spiaggia. La spiaggia in questo punto non è granché, vedo una giovane coppia di giapponesi e, più avanti, una di tedeschi che si fanno massaggiare da minute e garbate ragazze. Altre camminano con cesti sulla testa pieni di frutti, da proporre ai turisti, quelle giovani hanno corpi statuari, si muovono con eleganza innata e regalano sorrisi smaglianti. Molte le madri giovanissime, forse troppe e tanti bambini soli che giocano ovunque. Pare che qui le adolescenti conquistino la propria identità femminile attraverso la prima maternità, grazie alla quale conseguono uno status sociale.
L’esercizio della fecondità, dunque, come rito di passaggio per diventare donne, mentre i figli crescono sulla strada rischiando di diventare facili prede di malintenzionati. Quando Vincent dell’agenzia viaggi, sulla spiaggia di fronte alla chiesetta del villaggio, mi mostra il punto in cui è stato ucciso un bambino, infanticidio legato al traffico d’organi, rimango decisamente turbato e mi sembra che una grande nube nera attraversi il cielo gettando un’ombra cupa sul quel paradiso. Vincent tiene a precisare: “È gente venuta da fuori, ne abbiamo presi un paio, li abbiamo linciati e dati alle fiamme. Erano francesi”. E conclude: “La punizione inflitta a quei due è stata anch’essa terribile, ma deve essere un monito a chiunque a non riprovarci”. Tuttavia, secondo la testimonianza di tanti altri, l’accusa è successivamente caduta e pare proprio essersi trattato di un drammatico e orrendo errore.
Continua il 17 Luglio.