Il secolo XX non ha voluto lasciare, a noi del XXI, nessuno dei grandi personaggi che hanno reso scientifiche e grandi le culture filologica, classica e della storia dell'arte del nostro tempo; così, dopo Guido Barbieri, Augusto Campana, Francesco Della Corte, Margherita Guarducci, Maria Santangelo, Federico Zeri, anche Scevola Mariotti ha chiuso la sua esperienza terrena il 6 gennaio del 2000.
Sulla scalinata della Facoltà di Lettere e Filosofia de «la Sapienza», quel mattino gelido dell'8 gennaio 2000, fu presente sia nella sua veste istituzionale che di fraterno amico, il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi; egli, poi, non potendo essere presente alla commemorazione organizzata dall'Istituto dell'Enciclopedia Italiana presso la Sala della Biblioteca di Palazzo Mattei (8 febbraio 2000), volle fare pervenire all'oratore Francesco Paolo Casavola una lettera. In questa, il prof. Ciampi ricordava «l'illustre filologo e carissimo amico, come il compagno di studi della Scuola normale di Pisa». «Di lui - continuava - molto si è scritto in vita e in morte a ragione: egli era un grande della cultura. Pur sentendo, urgente, l'esigenza di unire la mia voce al compianto di quanti rammentano la figura esemplare di questo studioso, desidero, soprattutto, ricordare l'opera magnifica che lascia alla posterità. A lui, raffinato latinista, dobbiamo l'elaborazione di studi volti ad affermare quanto grande sia stata l'influenza della tradizione classica sulla letteratura italiana [...]. Rimane indelebile il suo messaggio, caratterizzato dalla non comune carica morale e dalla fiducia in quegli ideali di libertà, che rendono l'uomo capace di avere ragione delle tragedie e costruire dalle macerie un avvenire migliore».
Louis Godard lo presentò come lo studioso che «ha segnato profondamente la storia della filologia classica»; e continuò affermando che «la sua grande intelligenza, il rispetto che portava al testo e al documento, la sua capacità di innovare a partire dalle acquisizioni di discipline sorelle come l'archeologia, l'antropologia o la linguistica emergono da ognuno degli oltre trecento lavori dedicati al mondo classico». Il lusinghiero giudizio fu coralmente confermato da tutti i suoi innumerevoli discepoli a nome dei quali portò il saluto estremo Piergiorgio Parroni: «Quanto del suo tempo Mariotti ha dedicato agli allievi e che passione è stato in grado di portare alle altrui ricerche! Ed è stata proprio questa generosità a far sì che egli sia stato nel senso pieno della parola un maestro, anche se si schermiva di questo titolo. [...] Chi si rivolgeva a lui non andava in cerca di approvazioni e di lodi, ma sapeva che il proprio lavoro sarebbe stato analizzato […] con giusta severità, perché Mariotti, sempre così raffinato nei modi, era inflessibile nei giudizi. [...] Il suo orizzonte spaziava dalla letteratura greca alla sopravvivenza dei classici nel medioevo e nell'umanesimo fino all'età moderna, ma non era tanto l'ampiezza delle sue conoscenze a stupire quanto la profondità».
Silvia Rizzo, poi, volle mettere in evidenza che il professore sentiva anche «il bisogno di impegnarsi in prima persona nella poetica accademica» e [...] «a chi gli rimproverava il dispendio di un tempo prezioso […] faceva capire che (era) necessario, in un mondo della politica accademica, nel quale troppo spesso prevalgono le valutazioni ben diverse da quelle del valore scientifico, impegnarsi nei limiti del possibile in prima persona per cercare di far sì che, anche in piccola misura, il cattivo non abbia del tutto la meglio sul buono».
Questi ricordi furono quelli dedicati all'uomo di scienza; ma credo che opportuno sia pure ricordare l'aspetto sociale dell'uomo Mariotti e lo voglio fare con le parole di Luciano Canfora: «In un'epoca nella quale taluni, frastornati da esperienze intellettuali frettolose, ironizzano sul fondamento stesso della critica testuale, Mariotti ha insegnato a generazioni di scolari che l'impressionismo esegetico è solo un traviamento passeggero della ricerca. [...] La filologia è una disciplina intrinsecamente democratica: perché ci trova tutti uguali di fronte al concreto problema di risolvere, indipendentemente dalle gerarchie. Mariotti fu uomo intimamente democratico, il cui abito alla serietà autocritica nasceva dalla sua comprensione piena del mestiere di filologo. Il giovanissimo normalista allontanato dalla prestigiosa Scuola di Pisa per intemperanze antifasciste, ma caro a Calogero, non ha mai smentito se stesso».
Il ricordo di Luciano Canfora mi consente di chiarire al lettore che l’abbandono della Normale di Pisa da parte del Mariotti è patognomonico di un carattere rigoroso con se stesso prima che con gli altri. Riporta infatti Sebastiano Timpanaro:
La mattina del 13 maggio 1940, quando ormai la 'non belligeranza' (dichiarata da Mussolini allo scoppio della guerra tra Hitler da un lato e la Polonia, l'Inghilterra, la Francia dall'altro) volgeva al termine e i giornali e i discorsi ufficiali preparavano l'opinione pubblica all'intervento a fianco della Germania nazista che Mussolini credeva già vincitrice, un gruppo di studenti di Pisa, normalisti e non, andò a fare una manifestazione guerrafondaia a Livorno. Al ritorno di quei normalisti il Mariotti li apostrofò duramente: «Vigliacchi!», e lanciò, in uno scatto d'ira, un corpo contundente, il quale, per fortuna (voglio dire che, altrimenti, le conseguenze sarebbero state ancor più gravi), 'contuse' solo una parete della sala. Anche cosi, lo scandalo era grosso: c'erano gli estremi per un'espulsione dalla Normale, che avrebbe implicato anche la perdita della tessera del GUF (Gruppo universitario fascista) e l'impossibilità di proseguire gli studi in qualsiasi università.
Gentile, per intercessione di Calogero al quale Mariotti si era subito rivolto, ma anche, credo, per quella sua tendenza a una severità non spinta all'estremo di cui abbiamo già detto, fece una lunga paternale a Mariotti, tuttavia non ricorse alla temuta espulsione, ma solo ad una sospensione di tre mesi.
Credo opportuno pubblicare questo documento che, in un momento di esaltazione collettiva della comunità nazionale, dimostra come pure nell’alta dirigenza rimaneva un senso della misura che riusciva a salvare il salvabile. Il Timpanaro infatti evidenzia il clima che trovò Mariotti dopo i tre mesi di sospensione: Quando Mariotti fece ritorno alla Normale nell’autunno del ’40 trovò, a guerra dichiarata, un clima per lui invivibile: i fascisti non nascosero la loro ostilità, lo considerarono perfino (dice ora Mariotti con una certa autoironia) più pericoloso di quanto era il ‘capo’ o uno dei capi dell’antifascismo a Pisa. E Mariotti dette ben presto le dimissioni dalla Normale e si iscrisse all’Università di Firenze. Gentile in quell'occasione gli fece pervenire una lettera nella quale esprimeva il dispiacere per la sua decisione di lasciare la Normale, nonché il desiderio di essergli utile «anche per altra via», esortandolo inoltre a vincere i suoi «nervi renitenti»: l'aspra protesta politica veniva così ridotta a mera crisi nevrotica!
Scevola Mariotti nacque a Pesaro il 24 aprile 1920, insegnò Letteratura latina all'Università di Urbino, passando poi ordinario di filologia classica all'Università di Roma «La Sapienza»; diresse la Rivista di filologia e di istruzione classica di Torino e l'Enciclopedia Oraziana dell'Istituto dell'Enciclopedia italiana «G. Treccani»; si dedicò alla monumentale Storia di Pesaro; fu presidente dell'Ente Olivieri e fondatore degli Studia Oliveriana, una rivista che nei suoi 40 anni di vita ha superato di molto gli angusti limiti della cultura locale; fu presidente della Commissione per l'Edizione nazionale dei testi umanistici, socio nazionale dell'Accademia dei Lincei dal 1992, socio ordinario e pro custode dell'Arcadia, socio nazionale dell'Accademia delle Scienze di Torino, vicepresidente del Centro di studi ciceroniani di Roma, socio corrispondente della British Academy di Londra e della Bayerische Akademie der Wissenschaften di Monaco, socio h.c. dell'Accademia polacca di filologia, dottore h.c. delle Università di Atene e di Budapest.
Mariotti alla Scuola Normale di Pisa fu allievo di Giorgio Pasquali; iniziò i suoi studi con la poesia latina arcaica negli anni Cinquanta: Lezioni su Ennio, 1951, Livio Andronico, 1952, Bellum Poenicum e l'arte di Nevio, 1955; la produzione successiva si orientò anche verso la letteratura latina tarda e la sua sopravvivenza medievale e umanistica. Negli scritti più recenti si accentuò il suo interesse per la letteratura latina tarda (Giulio Valerio, il Pervirgìlium Veneris, testi grammaticali), medievale (Giacomo di Dinant, l'indovinello veronese) e umanistica (la corrispondenza fra Giano Pannonio ed Enea Silvio Piccolomini, i carmi latini di Pico della Mirandola), con incursioni nella cultura del Settecento (La leggenda di Petronio Antigenide) e in quella contemporanea (D'Annunzio). Amo ricordare, per l'emozione che mi trasmise, fra le tante conferenze, il commento al canto VI del Paradiso, tenuto presso la «Casa di Dante» in Roma: faceva il confronto tra passi del libro III dell'Eneide e versi del VI della Commedia; fu un'esperienza indimenticabile.
La panoramica che schiude, sin dalle prime battute della sua esposizione, mostra subito la vastità dell’inedita visione del canto da lui proposta:
Non ho né la possibilità né il desiderio di esaminare completamente il canto oggi proposto alla nostra attenzione e le molte e grosse questioni ad esso connesse: in primo luogo perché me ne mancherebbero la capacità e la competenza, poi per ragioni ovvie di tempo. Perciò ho scelto solo, con la massima libertà, alcuni passi e alcune questioni - di struttura e di stile, di fonti, di testo e d'interpretazione - in cui mi è sembrato di poter portare qualche contributo alle discussioni degli studiosi (in quanto a me note, si capisce: la bibliografia è sterminata). Premetto che la fisionomia complessiva del canto è ben chiara. Al principio e alla fine, in luoghi di estensione pressappoco uguale, ci sono le risposte alle due domande rivolte da Dante a Giustiniano («Chi sei? Perché sei qui?»); al centro un lungo excursus, in forma di 'giunta' alla prima risposta, che occupa da solo quasi i tre quinti dell'insieme. Fatto del tutto singolare nella *Commedia è che l'intero canto consiste nel discorso di un unico personaggio, il che dimostra già il rilievo che Dante vuol dare alle parole di Giustiniano.*
Un'attenzione tutta particolare il Maestro rivolse alla scuola e all'insegnamento delle lingue classiche. Egli fu per molti anni presidente delle commissioni giudicanti del Certamen Ciceronianum Arpinas, organizzato dal Centro Studi Umanistici "Marco Tullio Cicerone" in collaborazione con la Città di Arpino, gara di traduzione e commento dal latino di un brano di Marco Tullio Cicerone. Aperto agli studenti iscritti all'ultimo anno di liceo classico di tutto il mondo, il Certamen Ciceronianum Arpinas si svolge ogni anno in Italia ad Arpino (in provincia di Frosinone) nel mese di maggio. La manifestazione nacque nel 1980 ad opera del preside del Tulliano prof. Ugo Quadrini che riuscì a dare in breve tempo al Certamen, grazie al suo assiduo impegno, una dimensione internazionale. Scevola Mariotti fu presidente della commissione giudicatrice sin dalla prima edizione del 1981.
Personalmente ebbi l’onore di avere il prof. Mariotti oratore nel mio anno di presidenza del Rotary Club Monterotondo-Mentana il 10 ottobre 1987; trattò il tema Attualità dell'Umanesimo latino. Esordì parlando delle ‘discipline superate’, tra cui figurava il latino, che rimaneva comunque elemento essenziale della cultura classica. Volle insistere sul concetto che si dibatteva in quel momento nell'insegnamento secondario, nel quale si combattevano due tendenze: la prima prevedeva un insegnamento di base e successivamente insegnamenti specifici professionali con esclusione del latino; la seconda insisteva invece sui valori generali della cultura che insegnava ai giovani a guardare il mondo da un punto di vista storico e verificare la presenza del passato nel nostro presente: in tali processi il latino diveniva elemento determinante. Con ampi e appropriati riferimenti e citazioni, patrimonio di persona di grande cultura umanistica quale fu, Scevola Mariotti evidenziò il ruolo del latino nel passato. Disse: “La sua importanza meglio risalta se si fa riferimento ad epoche remote in cui i trasporti e le comunicazioni erano pressoché inesistenti. In tali periodi il latino è stata una forza unificatrice sul piano della cultura: è stata la lingua dei testi sacri e della cultura dell'Europa Occidentale”.
Oltre agli occasionali interventi su riviste e quotidiani, vanno ricordate la direzione di una collana di testi greci e latini commentati, una poderosa raccolta di Scritti medievali e umanistici curata da Silvia Rizzo, la realizzazione di un Vocabolario della lingua latina (1966) in collaborazione con Luigi Castiglioni. Per la Sicilia ebbe sempre una particolare predilezione e non mancò mai agli appuntamenti culturali ove fu richiesto. A Catania con la lezione su Ennio tenuta alla Facoltà di lettere dell'Università su invito di F. Giancotti (1967); la commemorazione di E. Castorina nell'Aula magna della facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università. A Enna, ove partecipò al congresso su Conservazione e innovazione nella cultura cristiano-bizantina fra IV e XII secolo (ottobre 1983). A Siracusa: ciclo delle rappresentazioni classiche al teatro greco, rappresentazione delle Supplici di Eschilo (traduzione di G. Di Martino e S. Mariotti); conferenza per il Lions Club su Solitudine, inganno e persuasione nel Filottete di Sofocle (24 maggio 1984); partecipazione al Congresso organizzato dall'Istituto del Dramma Antico su La violenza nel teatro antico (settembre 1997). A Messina: conferenza sul testo di Giulio Valerio presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università; partecipazione al Convegno internazionale La civiltà siciliana del Quattrocento presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università (21-24 febbraio 1982); presentazione di Polyanthema, studi di letteratura cristiana antica offerti a S. Costanza, ancora all'Università (ott-nov. 1989). Né mai fece mancare il suo contributo alle varie miscellanee, organizzate dalla Facoltà di lettere e filosofia in occasione del pensionamento di suoi docenti dell'area classica e umanistica (S. Calderone, S. Costanza, G. Resta, G.A. Privitera).
Scevola Mariotti, fra i tanti doni ricevuti dalla natura, non ebbe quello della fede. Dalla gradinata della Facoltà di lettere, quindi, Silvia Rizzo lo volle salutare con queste parole:
Molti di noi, e lui per primo, non hanno consolanti certezze ultraterrene: la nostra unica laica certezza - e questo è l'insegnamento che lui ci lascia e di cui ha dato testimonianza dal suo letto di morte, quando chiedeva ad alcuni di noi di preoccuparci di eliminare nella ristampa dei suoi scritti un banale errore che credeva di aver fatto - è nella continuità di una ricerca non interrotta dalla morte dell'individuo, nella quale le generazioni lavorano a fianco a fianco e si passano la mano e nell'utilizzo sereno della costanza della ragione per preservare, in un mondo che se ne allontana vertiginosamente, il patrimonio della cultura umanistica che è il retaggio caratterizzante e più prezioso dell'Europa.
Pur nel rispetto più scrupoloso per il suo credo laico, personalmente chiuderei questo ricordo del carissimo amico Scevolino - familiarmente, per distinguerlo dal padre, Scevola - con la certezza che la rettitudine di vita, l'onestà senza compromessi, la dedizione alla scienza intesa come missione, non possano non avergli donato un posto privilegiato in quel paradiso dantesco riservato a quelli che, come lui, amarono il prossimo come se stessi e, soprattutto, non fecero mai agli altri quel che non avrebbero voluto fosse stato fatto loro.