Un luogo, il Terzo, da ricercarsi al di là dello spazio e del tempo. Custodito dentro di noi, da sperimentare connettendoci con qualcosa di più grande che possiamo identificare con il divino, la coscienza illimitata, Dio, il Brahman delle Upanishad, il nostro Sé superiore. Quando accediamo a questo spazio, luogo di salvezza e di guarigione, affrontiamo meglio le difficoltà della vita e troviamo una bussola che ci guida saggiamente nel nostro cammino.
Partendo da questa premessa, l’autrice de Il Terzo Luogo. Il mio educatore Gabriele D’Annunzio Fiorenza Palmerio Gancia ci guida in questa lunga intervista, nella quale racconta le sfide della creazione di un testo che analizza il Poeta da un punto di vista completamente nuovo, trasformandolo in un maestro di vita, in grado di unire “mente e cuore, come il massimo grado di intelligenza che l’uomo possa raggiungere e che oggi più che mai ha il compito di preservare”.
Partirei col chiederle di condivide con i lettori la genesi del volume, la scelta di Gabriele d’Annunzio come centro dell’opera.
Il mio libro nasce, quando non ancora trentenne, iniziai ad interessarmi alle filosofie orientali che per me sono state supporto e sollievo alla mia sofferenza. Dedico questo libro a mia sorella Alessia che si ammalò molto giovane e quando lei mancò, a poco a poco, iniziai ad annotare, sentendo sempre più la necessità di scrivere e di comprendere al meglio tutto quello che avevo letto in quegli anni.
Pongo d’Annunzio come mio educatore per diversi motivi. Prima di tutto, il legame con la mia famiglia. Mio bisnonno, Benigno Palmerio, conobbe d’Annunzio all’Hotel Helvetia nel 1898, fu veterinario dei suoi cani e poi divenne amico e confidente del poeta negli anni fiorentini. Scrisse il libro Con d’Annunzio alla Capponcina. Secondo, ho sentito affinità con il poeta da un punto di vista orientale. Fu il critico letterario G. A. Borgese che, già nel Novecento, affermava che alla base del credo del poeta c’era la matrice indiana. Inoltre, come ultimo motivo, credo che noi sovente tendiamo a dare giudizi sulle persone, molto spesso affrettati e anche sbagliati, perché non li conosciamo profondamente. Assegniamo delle etichette, senza conoscere nemmeno noi stessi! Sentivo l’esigenza di uscire dal mondo del giudizio sugli altri, rivalutando nella figura di d’Annunzio molti aspetti che talvolta a parer mio sono stati trascurati.
“Mi basta la carta, l’inchiostro, la penna per rifare non una ma dieci Capponcine!”.
Non a caso, nell’introduzione, viene citato il momento doloroso della perdita della dimora di Settignano da parte di d’Annunzio, riportando parole che rispecchiano perfettamente la sua indole. Quale pensa sia stato il bagaglio spirituale che d’Annunzio acquisì negli anni fiorentini, anche in virtù di quella perdita?
Credo che d’Annunzio con questa frase ci insegni a non cedere davanti alle sventure della vita e credo fermamente che ci mostri come dovremmo fare affidamento, non tanto sulle cose materiali, ma piuttosto credere nei nostri talenti e nella nostra forza interiore per andare avanti e per realizzare noi stessi. Così d’Annunzio affermava: “Solo accresce la massa spirituale umana colui che ha la forza di diventar quel che è.”
“Bisogna che tu ti rassegni che io passi per un corruttore, pensando che tra cinquant’anni sarò un educatore”. É trascorso ben più di un secolo da questa missiva a Treves. Possiamo, oggi, dar ragione a d’Annunzio?
Assolutamente sì. Questo è un altro importante motivo che mi ha ispirato a scrivere il sottotitolo: “Il mio educatore Gabriele d’Annunzio”. D’Annunzio possiede tanti aspetti su cui varrebbe la pena ispirarsi: l’amore per l’arte, per la bellezza, per la poesia, per la natura e per quel sentire cosmico di unione con tutto il creato. Credo anche che dovrebbe essere fonte di ispirazione per i giovani e per tutti noi, in particolare, per la sua arte d’amare fondata su una visione sacra dell’amore dove l’altro è sempre visto come una divinità, concezione che talvolta oggi purtroppo abbiamo perso.
Non voglio far passare d’Annunzio come un “puro”, ma guardarlo piuttosto come un uomo che sviluppò una sua ars amandi, ispirandosi alle antiche tradizioni orientali che consideravano la sessualità sacra e che vedevano nell’unione d’amore una sorta di ascesi per raggiungere il divino. Dovremmo maggiormente riflettere sulla capacità dell’amore di trasformarci e di realizzare la nostra vera essenza.
Nel libro si accostano, con maestria e naturalezza, l’Oriente, il Poeta, Leonardo, Pistoletto, Mondrian… Cosa pensa li accomuni e possa essere d’aiuto e guida per i contemporanei?
Credo che tutti questi artisti abbiano uno sguardo mistico nei confronti del reale. Là dove la figura dell’artista e del mistico tendono a sovrapporsi perché, relazionandosi ad una dimensione più ampia dell’esistenza, quella proiettata verso l’infinito o il divino, perdono il loro ego e arrivano ad una spaziosità interiore, quel Terzo Luogo di cui parlo nel libro, dove trovano un foglio vuoto su cui creare e, se lo credono, dove possono incontrare anche il divino.
Tutti quanti iniziano la loro arte con la necessità interiore di conoscersi e di approfondire la conoscenza della “verità”. Con questo scopo così profondo si relazionano ad una dimensione più grande, infinita, che permette loro di trovare e di innalzare la piramide spirituale degli uomini, proprio come affermava Kandinskij nel 1912 ne Lo spirituale dell’Arte, trovando molto spesso anche le chiavi del vivere.
Per quanto riguarda l’Oriente, faccio particolare riferimento agli antichi testi indiani, le Upanishad, libri che anche lo stesso d’Annunzio conobbe da molto giovane e che hanno come fulcro del loro pensiero la frase sanscrita “Tat Tvam Asi”, “Tu sei quello” ovvero “Tu sei il brahman”, il divino. Oggi Michelangelo Pistoletto, che identifica l’arte con la spiritualità, iniziò, come ci spiega lui stesso, la sua arte con l’intenzione di conoscersi in relazione all’Infinito, affermando, poco più tardi con il suo magnifico Terzo Paradiso, in modo simile alle antiche Upanishad, “Tu sei l’altro”.
Mondrian fu definito “mistico” dallo storico dell’arte Gombrich e d’Annunzio definì sé stesso “guaritore mistico”. Leonardo da Vinci affermava che la sua pittura, considerata pura filosofia, era il modo per conoscere il divino, “il modo di conoscere l’operatore di tante mirabili cose” e “d’amare un tanto inventore”.
Il Vittoriale non è una casa-museo ordinaria. D’Annunzio è il suo “libro di pietre vive” e il “libro di pietre vive” è d’Annunzio. Tenendo conto di questa “tuttità” (come la definisce la studiosa Paola Goretti), in che modo il suo libro ed i suoi studi sul “terzo luogo” possono aiutare il visitatore ad affrontare la visita con occhi nuovi?
Entrando al Vittoriale si ha l’impressione di accedere a un tempio sacro. I sette gradini all’entrata ce lo annunciano perché il 7 è il numero divino per eccellenza, così come le scritte “Silentium” e “Clausura” che ci ricordano le sale di un antico monastero.
Ogni stanza ci conduce al Terzo Luogo. Dalla Stanza della Leda di Gabriele d’Annunzio, dove avvengono i suoi incontri amorosi, alla Stanza della musica, arte per eccellenza che ci porta al Terzo Luogo, ed infine la Stanza del Lebbroso dove d’Annunzio svolgeva le sue meditazioni sulla morte. In particolare, la meditatio morti, che è un requisito necessario per accedere al Terzo Luogo, porta ad una maggiore consapevolezza, conferendo maggiore significato alle nostre vite.
Il Vittoriale è il Terzo Luogo di d’Annunzio, ma diventa anche il nostro quando lo guardiamo con occhi nuovi. L’amore, la musica e la meditatio morti sono tutti strumenti che ci fanno accedere al Terzo Luogo, luogo di salvezza e di guarigione, dove ritroviamo il nostro vero Sé, diventando così finalmente capitani della nostra anima.
Posso chiederle se sta lavorando a progetti futuri?
Sicuramente proseguirò con la scrittura e la stesura di un nuovo libro perché amo troppo scrivere. Ho poi creato, attinente alla mia attività che svolgo nella gioielleria storica di famiglia, una linea di candele e profumi d’ambiente che ho chiamato “Lavs Vitae” in onore all’amicizia storica tra il mio bisnonno e Gabriele d’Annunzio, ricordando proprio questo libro che era stato regalato dal poeta nel 1902.
Ho utilizzato come logo una croce, la croce dannunziana, spesso usata da d’Annunzio nei suoi scritti, nelle sue dediche e nelle sue lettere il cui significato è di impronta tipicamente orientale perché è simbolo di illuminazione, la realizzazione della nostra vera essenza. Questa croce è formata da una linea verticale e una linea orizzontale che rappresentano gli opposti di cui la nostra realtà è fatta in una continua alternanza tra luce e ombra, tra materia e spirito, tra maschile e femminile. Inoltre, sono poi presenti quattro raggi luminosi che sembrano proprio scaturire dal punto centrale della croce dove questi opposti si incontrano, armonizzandosi in un perfetto equilibrio. É in questo punto centrale della croce che noi dovremmo dimorare, in quel Terzo Luogo di cui parlo nel libro.
Da questo simbolo è poi nata una linea di gioielli che è diventata per noi l’unione tra un antico simbolo del passato, riprodotto con tecniche molto antiche, come la smaltatura guilloché e la satinatura, tutto fatto artigianalmente a mano, con un design moderno, studiato meticolosamente da me e da mia figlia Virginia. Anche la linea è stata chiamata “Lavs Vitae”, perché non dovremmo mai dimenticare di celebrare la vita e, perché no, talvolta anche con un bel gioiello.