Poetare è il risuonare del dire oltre il concetto.
(Carmelo Bene).
Una poetessa sui generis: giovane, altera e sembra scrivere come proveniendo da un altro tempo. Le immagini si dipanano come sorgive, sbocciando una dall’altra in un processo che sembra scaturire da un unico punto d’origine secondo un ritmo preciso, sequenziale ma non causale-discorsivo. Un decorso immaginifico, misterico, iniziatico. Non vi si ravvisa più distinzione tra mithos, pathos e poiesis.
L’Italia riappare quale Ideale d’alabastro, ninfico, sibillino, eco dei passi di Nemesi. Un ritmo decisivo e fatale, trasparente e vibrante in un flusso in presa diretta, aionica. Una poesia ariostesca cioè illuminata da un fuoco vivo ma tenuto a distanza, raffreddato dal suo stesso nitore. Poiesis parmenidea di Nemesi, la dea bianca del Nord greco e iperboreo le cui porte vegliano sull’origine della Notte e della Luce.
Poiesis quasi asemantica quanto appare inattuale. Sembra neo-classica ma non lo è se non nel senso beniano-calassiano di incrocio fra selvaggio e formale. Si percepisce fisicamente l’irradiare del principio delfico d’ordinazione: rta, l’incedere del Rito. Una poesia greca in quanto fotofora e curva, ellittica, dorica. Beatrice quale Ananke, Adrastea.
Il ritorno del kanon: della misura che si autoimpone. In questo simile al poetare della grecista Gabriella Cinti: con loro rinasce il modulo ontico-linguistico dell’inno. Gabriella e Beatrice cantano Poiesis nella forma aulica, epica e verticale dell’Inno dove la paratassi non è frammento ma indica l’ideogrammaticità del balenare della luce uranica, il volo dell’intelletto-intuizione, il fulmine dell’illuminazione, che già Pindaro cantava quale unica gioia che assapora d’eterno quell’ombra di un sogno che è l’uomo. Non uscire dal senso dell’Essere. Ecco il segreto del canto originario, del canto greco.
Come un martello di diamante la parola batta su se stessa, sull’immagine iniziale, sul pensiero d’avvio e continua finchè le scintille iniziano la loro danza…Efesto forgia le armi nuove per Teti e per Afrodite. Questa Poiesis di pone quale processo di appropriazione e riconfigurazione dei temi narrativi e mitici dal di dentro delle loro dinamiche e potenzialità lirico-performative. Si genera così una narrazione mitopoietica e noetica aurorale, sorgiva, cosmotetica che unisce il pathos del senso dell’Etnos con l’originalità della singolarità assoluta della voce clamante. In Occidente solo in Poiesis Etnos può tornare a farsi corpo, a farsi sentire. Non c’è idealità nelle opere di Beatrice. è Arcadia. è il Nomos dell’Apollo pastore che si dà quale canto, sovranità e condivisione come la radice nemein indica.
Ignoto il nome tuo
che riceve onori
pari ad un re,
se non maggiori,
la tua gloria non
sfiorisce coi poteri,
ma come il sangue tuo
versato, come il sangue
tramandato resiste
d’era in era.
Degli eroi la Vittoria
è sposa fedele,
imperitura Fortuna
senza bende sparge miele.
Ancestrale, sempiterno
l’Uomo tu sei
giovinetto, scapolo, sposo o padre
quanti ti piansero
begli occhi di donna
meste lacrime di bimbo
caste preghiere materne.
Il soldato, il guerriero
senza voce, che cantò
la musica della guerra
requiem dei popoli
che, dalla casa polare, un giorno
partiron seguendo
il sole e la ruota
carezzando le bionde
messi coltivate, che profumano
l’agro divino e grasso
di Quirino.
Marte tutti v’ha chiamati
un giorno, il sole
sacrificaste per le
interiora della terra,
labirintiche trincee.
Fanti d’Italia dai bei volti
ora un solo nome vi racchiude
poesia ardimentosa e fiera
di piombo e rosa.
Ricordo, al camposanto
dove il monte declivia nel torrente
gorgogliante, salutando gli avi miei
passavo accanto al funereo talamo
d’un soldato, oggi unisco le mie preci
a quelle d’una italiana
che del marito volle eternare il vigore
dedicando
alla Patria la sua giovinezza
ai campi la sua virilità
al Bene l’intera sua vita
E ancora:
Narrami, cielo italico,
con voce di pioggia
il molle ricordo,
la verginità guerriera
della tua figlia diletta
Roma.
Di lei dimmi l'ardire,
scalda il mio sangue,
o Nube limpida, col suo
ardore sacro,
risveglia nella memoria
delle mie vene l'astuzia
vermiglia e la sua Norma,
svelami il suo segreto nome.
Apollineo Soratte, di pure del
suo sonno augusto che tu
vegliavi, mentre il respiro
del suo seno morbido
scoteva dolcemente i
flutti del mare latino.
Di come l'amasti, Giove,
racconta! di come vivessero
in lei
disciplina ed amore,
di come fosse Giustizia
la tacita dea silente, sua sorella.
Narrami, cielo italico,
senza spergiuro,
che dall'arvo ogni anno
rinasce
con nitore di stella.