Come tutte le persone che amano i viaggi e la cultura, nella mia vita sono stato molte volte a Parigi. Negli ultimi anni poi, ci sono andato regolarmente, per assistere agli spettacoli che mio cugino Patrizio - nota personalità televisiva - vi allestisce ogni autunno nel Centre National de Formation Professionnelle aux Techniques du Spectacle (CFPTS) assieme alla scenografa Mietta Corli.

Lo dico subito: a Parigi preferisco Londra, l’unica altra grande capitale a cui può essere paragonata per dimensioni, storia e irraggiamento culturale e che trovo più varia, vivace e variopinta. Di Parigi non apprezzo il grigiore dei grandi edifici haussmanniani, tutti uguali, i grandi boulervards intasati dalle automobili, l’architettura tronfia e pompière dei suoi edifici pubblici più famosi.

E soprattutto il fatto che nella città, di antico rimane ben poco. Oltre agli sventramenti del già citato barone Haussmann (il maggior responsabile della distruzione della vecchia Parigi), vanno considerate le devastazioni causate dalle successive ondate di idiozia collettiva che accompagnarono le varie rivoluzioni.

Al tempo della rivoluzione francese, per esempio, i giacobini devastarono Nôtre Dame, la sconsacrarono e vagheggiarono di farne il tempio della Dea Ragione, oppure una cava di pietra. L’intero apparato scultoreo venne assurdamente distrutto, le statue abbattute ridotte in frantumi e lasciate a lungo a terra ai lati della cattedrale, finché il materiale venne poi riutilizzato come riempimento in nuove costruzioni. Com’è noto, la cattedrale venne poi fantasiosamente ricostruita nell'Ottocento dall'architetto neogotico Viollet-le-Duc, che ne reinventò anche la famosa guglia.

Nel 1871, durante la Comune, furono distrutte le Tuileries, il palazzo reale, centro nevralgico della storia francese da Caterina de’ Medici, a Napoleone, a Napoleone III, nonché teatro degli intrighi di Richelieu e Mazarino descritti nei romanzi di Dumas. Così come venne distrutto il rinascimentale Hôtel de Ville, poi ricostruito con volgarità di pastiche ottocentesco. Stessa sorte toccò al castello reale di Saint-Cloud nella periferia della capitale e a molti altri monumenti.

Insomma, a Parigi di veramente antico resta ben poco: gli hôtels particuliers (grandi magioni) del secolo XVII nel Marais, che richiamano le gesta dei tre moschettieri, l’Île Saint-Louis, la Sainte Chapelle con l’annessa Conciergerie e porzioni del Quartiere Latino sulla Rive Gauche. Oltre che edifici del periodo romantico oggetto di questo articolo.

Scrive al riguardo di questi ultimi Mario Praz nel suo Il mondo che ho visto (Adelphi):

Parigi conserva una fisonomia 1830: nei profili di certe case della vecchia Parigi tu cogli lo spirito dell'età romantica, e specialmente di quell'anno 1830 intorno a cui si diedero convegno opere che ci appaiono oggi della stessa famiglia. 1830: l'anno di Hernani di Hugo, della Symphonie fantastique di Berlioz, di La Peau de chagrin di Balzac, del ‘Satana’ di Delacroix librato a volo sui tetti aguzzi della fosca città. Case di tutto il Quartiere Latino; facciate in cui i molteplici stadi della fatiscenza si stemperano in delicati grigi e bianchi lebbrosi, in cui la fuliggine, la ruggine, la muffa creano tavolozze da far gola a un Morandi.

Tre i luoghi simbolo del periodo romantico, che ho visitato e che intendo qui descrivere: le case di Victor Hugo, Honoré de Balzac e Eugène Delacroix, oggi trasformate in musei.

La casa di Victor Hugo

Dal 1832 al 1848, Hugo abitò con la famiglia al secondo piano dell'Hôtel de Rohan-Guéménée, al 6 di place Royale (oggi place des Vosges, nel Marais), in un appartamento di circa 280 metri quadrati. La profusione di arredi rivela il gusto spiccato del poeta per la decorazione e l'antiquariato (ho già menzionato Hugo come costruttore e accumulatore seriale nel mio articolo sulle case di Pablo Neruda).

La sala, in damasco rosso, era decorata con sete, porcellane e arazzi, consolle dorate e un grande divano a baldacchino dorato e drappeggiato. Alle pareti, le effigi di famiglia: il ritratto della moglie Adèle, dal volto serio (ma anche quello dell’amante “storica” Juliette Drouet, adorna di un turbante), il busto di Hugo di David d'Angers; il ritratto del poeta con il figlio. In altri ambienti, a testimonianza della inesauribile creatività di Hugo e del suo gusto per la profusione, arredi e decorazioni in stile cinese e giapponese creati da un’équipe di ebanisti seguendo le sue istruzioni e i suoi schizzi dettagliati.

In questa antica dimora in stile Luigi XIII il re della poesia moderna visse per quindici anni. Nel salone che si affaccia sulla piazza, gli Hugo tenevano banco. L’ospitalità era caratterizzata da una grande semplicità. Il poeta aveva la sua corte assidua, devota, piena di venerazione per il maestro. Il salone di Place Royale accolse giganti come Gautier, Musset, Balzac, Vigny, Nerval, Lamartine, Sainte-Beuve, Dumas, Mérimée, Nodier, Berlioz, Liszt, Rossini. Insomma, il meglio della seconda generazione romantica (la prima era stata fondamentalmente anglo-tedesca). “Che incanto, queste serate in Place Royale!” scrisse in proposito il poeta Théodore de Banville, altro frequentatore della casa. Quest’atmosfera fra raffinata e bohémienne si mantiene tuttora intatta.

La casa di Honoré de Balzac

La reputazione di Balzac è nota: si diceva che si fosse rovinato spendendo in modo sfrenato in mobili e immobili. Lo scrittore era un collezionista, un cultore della “bricabracologia”, una scienza di sua invenzione. Balzac ne era cosciente:

Il collezionismo è un demone geloso ed esigente come il gioco d'azzardo (…) I collezionisti non appartengono né alla tribù irrequieta degli artisti, né a quella degli studiosi, né a quella degli scrittori, ma prendono da tutti loro. I loro vicini dicono che sono pazzi. Non vengono capiti e, sempre spinti dalla loro mania, vivono male, facendo lamentare la donna delle pulizie...

(O le mogli, come dico io per esperienza personale.)

A partire dalla metà degli anni Trenta del XIX secolo Balzac cominciò a dilapidare gran parte dei suoi guadagni letterari nell'acquisto costoso di oggetti, spesso di dubbio gusto e provenienza, che non poteva permettersi.

Quella di Passy (già villaggio prima della sua annessione alla capitale nel 1860) è l'unica residenza parigina superstite di Balzac. Lo scrittore vi si rifugiò dal 1840 al 1847, dove concepì il titolo La Comédie humaine e scrisse alcuni romanzi fondamentali di questo progetto letterario: Une ténébreuse affaire, Splendeurs et misères des courtisanes, La Cousine Bette e Le Cousin Pons.

Lo scrittore affittò un appartamento di cinque stanze al piano del giardino. Il giardino esiste tuttora, ma all’epoca non era deturpato dall’orrida (massì, diciamocelo) Tour Eiffel incombente sullo sfondo. Il contratto di affitto lo fece redigere a nome della sua governante, Mme de Breugnol, per nascondersi dai creditori che minacciavano il pignoramento e la vendita giudiziaria dei suoi mobili. Due diverse entrate gli permettevano di fuggire se si fossero presentati.

Nel museo si trovano testimonianze commoventi dello scrittore: il tavolino su cui compose La Comédie humaine , “testimone”, scriveva Balzac, “della mia angoscia, della mia miseria, della mia sofferenza, della mia gioia, di tutto”. E la caffettiera, con cui si preparò le cinquantamila tazze di una bevanda superpotente che riteneva necessaria per stimolare l’ispirazione ma che contribuirono alla sua morte precoce. Molti altri oggetti contenuti nell’appartamento, a causa dei debiti, furono dispersi dopo la morte dello scrittore.

La casa di Eugène Delacroix

E infine, il terzo museo, quello della casa-atélier del grande pittore romantico.

Incantevole è la piazzetta Fürstenberg dove sorge, dietro la chiesa di St-Germain-des-Près, con quattro alberi frondosi che fanno ombra all'ottocentesco lampione centrale.

Il museo, oltre agli spazi luminosi in cui Delacroix dipingeva, conserva diverse opere del pittore tra quadri, oggetti personali, lettere, disegni, la sua tavolozza e una serie di oggetti esotici provenienti dal suo viaggio in Marocco.

Questi ultimi testimoniano di un Ottocento francese come epoca d'oro dell'esotismo e dell’orientalismo artistico. La «scoperta» dell'Oriente da parte del secondo Romanticismo comincia con la splendida raccolta poetica Les Orientales di Hugo (ancora lui), pubblicato nel 1829, ma vi contribuisce grandemente lo stesso Delacroix con i suoi quadri orientalisti che fanno della sua opera un vero manifesto della pittura romantica. Fra le altre cose, nel 1825 dipinse una serie di Odalische la cui intensa sensualità risulta acuita da un raffinato gioco cromatico, l’uso di colori brillanti e una pennellata fluida e vibrante che influenzò grandemente i pittori che lo seguirono (anche Picasso ne fece una versione moderna).

Delacroix, come Hugo, fu uno dei personaggi più in vista del suo tempo e coltivò numerose amicizie (Dumas, Hugo, Merimée, Baudelaire) che frequentarono assiduamente il suo studio.

Per finire

Quasi per caso, nelle mie deambulazioni per Parigi mi imbattei nello studio che Picasso utilizzò per molti anni come abitazione ed atélier al numero 7 di Rue des Grands Augustins, sulla Rive Gauche, a pochi metri dal Lungosenna e non lontano dalla casa di Delacroix.

Una targa sul maestoso edificio seicentesco recita:

Pablo Picasso ha vissuto nell'edificio dal 1936 al 1955. È in questo studio che dipinse ‘Guernica’ nel 1937. Inoltre qui Balzac ambientò l'azione del suo romanzo ‘Le chef d'oeuvre inconnu’.

Il romanzo di Balzac ha come protagonista Frenhofer, un pittore fittizio del XVII secolo, che lavora incessantemente al ritratto di una cortigiana. “La missione dell'arte non è imitare la natura, ma esprimerla”, cioè “cogliere lo spirito, l'anima, la fisionomia delle cose e degli esseri”, dichiara Frenhofer in una concezione metafisica del ruolo dell'arte. Il risultato è un’opera confusa, un maelstrom di colori, linee e forme che, nella prodigiosa descrizione che ne fa Balzac, fanno pensare alla pittura astratta informale che si sarebbe imposta più di cent’anni dopo. Non capito, e frustrato dai suoi sforzi inani di dar forma all’assoluto, Frenhofer si toglie la vita.

E così, in un vertiginoso cortocircuito, Picasso, il fondatore della pittura moderna, si ritrova ad operare nello stesso luogo del suo fittizio predecessore inventato dal genio di Balzac (scrittore eminentemente visionario, e non realista come vollero farci credere Lukács e la critica letteraria marxista). Una cosa così poteva capitare solo a Parigi.

Nel concludere, mi accorgo di essere stato un po’ troppo critico con la capitale francese all’inizio dell’articolo. Scrivendolo, mi sono infatti reso conto di come Parigi, in fatto di risonanze, stratificazioni e richiami culturali, letterari, pittorici resti unica nel suo genere.