Ama il mestiere che hai imparato e contentane. Passa il resto della tua vita come chi ha affidato con tutta l'anima agli dèi le proprie cose, senza farti mai tiranno né schiavo di nessuno.

(Marco Aurelio, Memorie)

Una “favola” nel vero senso latino del termine (fabula) l’ultimo film di Francis Ford Coppola, Megalopolis, cioè un grande racconto che solo dagli States poteva emergere e non certo da un’Europa devitalizzata, autodissolutiva e confusa. Gli Usa celebrano le loro radici imperiali e neoclassiche nel ricordo visionario della Roma delle lettere e dei Cesari.

I protagonisti di questo straordinario film futurista e futuribile si chiamano Cicerone, Catilina, Clodio e la lotta per il potere e per la sopravvivenza/reinvenzione dell’Impero (contro le minacce neosovietiche dall’etere) non può che parlare latino e non più inglese, ma pure non può non rievocare il grande Bardo inglese nella messa in scena dei discorsi-spettacolo del potere stesso. Guardando questo film ho pensato alle ragioni della potenza (nonostante tutto) della declinazione liberale dell’Impero, cioè del sistema-Occidente.

Lo stesso pensiero lo facevo mentre ascoltavo Alain Elkann celebrare il genio di Ezra Pound nella presentazione a Brera del suo libro: Il silenzio di Pound. Allora ho capito: il Liberalismo vince nonostante i suoi errori, la sua corruzione, le imposizioni fallimentari e pericolose di un modello unico di sviluppo, il colonialismo totalizzante e il suo vuoto spirituale interno sempre più assordante proprio perché, come l’antica Roma, così la Megalopolis-Babilonia-Roma di oggi (e del futuro) sa meglio di tutti comprendere l’avversario, replicarlo, imitarlo, captarne le energie spirituali e farle proprie.

L’Impero liberale è un immenso specchio fluido e metamorfico che riproduce fedelmente le potenzialità e le virtù dei suoi nemici intrappolandoli nei fantasmi delle loro imitazioni. Gli avversari del Liberalismo così vengono sottilmente indotti a combattere contro fantasmi che sono loro stessi e non il cuore del Sistema odiato che li sopravanza e anticipa (quasi) sempre. La New York-Babilonia del futuro parla latino e di Roma ha compreso quello che l’Europa ha dimenticato: il carisma erotico-politico, la ritualità spettacolare, la messa in scena cerimoniale del potere e di un potere che parla a sé stesso attraverso i suoi colori e le sue masse.

Megalopolis di Coppola celebra l’essenza marziale-afroditica di Roma, i suoi carismi festivi, i fasti lussuosi, l’estetica trionfale e solare, la grandiosità strategica della visione, la replica artistico-narrativa del principio di sacrificio. Così similmente (anche se in una dialettica opposta) il Pound veneziano e misterioso di Alain Elkan che ci regala un testo fuori dagli schemi: un po’ romanzo e un po’ saggio introspettivo e spirituale.

Un racconto paradossalmente incentrato sul tema antifrastico del silenzio e del non detto fino a cogliere in questo silenzio sia il narcisismo proprio di ogni artista-intellettuale sia, a sua volta, una forma di “opera d’arte”. Bersaglio centrato! Possibile che nessuno lo abbia colto prima? No. Ci voleva la poeticità di uno scrittore che ha sempre inseguito l’enigma artistico dell’autorialità, tema a sua volta centrale per la poetica di Carmelo Bene, l’ultimo pensiero sull’Arte che abbia partorito l’Occidente. Se di Pound fai un feticcio o un mero segno di appartenenza ideologica significa che non lo hai com-preso e non ti interessa comprenderlo ma lo vuoi solo sventolare e non assimilare.

Elkann si mostra poeta egli stesso nella sua intima e lirica indagine sull’enigma-Pound e sul tema del “genio”, tema al cui studio ha dedicato tutto il suo lungo percorso di intellettuale, giornalista e scrittore. Elkann diventa poeta lui stesso in una prosa intima, silenziosa, raccolta, sussurrante dove poesia, genio, il mito di Venezia e lo scrittore americano si confondono felicemente in una ritmica musicale e persino subliminale. Pound sta a Venezia come D’Annunzio al suo Vittoriale. Una Venezia-bara, grembo, sepolcro, urna. Questa equazione ci viene regalata dalla lettura di un libro speciale, unico, differenziale, sorprendente, benianamente de-genere perché supera gli schematismi dei generi letterari.

Un’altra intuizione feconda dell’Elkann ermeneuta del genius, del daimon estetico è data dal sottolineare l’ingenuità quale tratto distintivo del vero artista-autore. Sì: l’artifex che innova il mondo è ingenuo, in quanto non gli basta questo mondo, non gli basta sé stesso. Ma anche il Mito è ingenuo e anche il Mostro che abita il Mito e genera/permette l’Eroe si pone ingenuamente nel mondo. Pure le dittature e le tirannie sono ingenue e per questo affrontano l’insostenibilità del presente e l’invivibilità artistica della vita attraverso il proiettarsi nell’irreale, nel fantastico. Le tirannie cercano nell’immaginario una funzione vitale vicaria del reale, inaffrontabile.

Così fa pure l’Arte e così fece Pound nella sua lunghissima ossessione per quella magia nera chiamata “Moneta”, manìa del culto capitolino di Giunone. Pound che pensava bastasse la circolazione per fondare la moneta, cosa possibile solo in una Repubblica aristocratica di artisti-filosofi e non certo nelle passive e inconcludenti masse occidentali prive ormai di ogni pensiero sociale e connettivo. Anche Alain Elkann mi appare a Brera ingenuo e, in quanto ingenuo, poeta e artista nella sua struggente e autentica saudade estetizzante da ermeneuta che rimpiange post-sirenicamente il suo non esser divenuto artista-genius-daimon. Ma questa è già tensione lirica propria della genesi dell’Arte.

Se la Roma del futuro di Coppola assorbe i carismi dei suoi avversari, così anche la penna di Elkan sa captare l’anima sfuggente di Ezra Pound attraverso un ascolto meditativo, una sensibilità sismografica, un eco sapienziale sottile e acuto. Elkan sa reinventare il mito di Pound entrando nelle sue profondità e nel contempo rispetta l’irrapresentabile e l’indicibile proprio di ogni daimon estetico-narrativo. Leggendo questo suo ultimo libro si “sente il silenzio”, si vede Venezia anche quando non se ne parla e si percepisce quasi fisicamente il fantasma dell’inquieto poeta americano. Lo si vede. Un’operazione alchemica di distillazione e condensazione raffinata. Una scrittura abitata da assenze e fantasmi. Sarebbe piaciuta a Carmelo Bene e a Durrenmatt.

Per questo ancora oggi vive l’Impero nella sua versione liberale quale Res Publica politeista delle Arti, delle Tecniche e del Racconto perché è dentro la Tecnica che il pensiero si allena e prende autocoscienza, è dentro i media che il Logos pensa e reinventa sé stesso in forma egemonica ed è sempre dentro il linguaggio che la visionarietà riprende forza e vitalità come nel libro di Elkan quanto nel film di Coppola.

Viceversa i nemici dell’Impero liberale non possiedono la medesima finezza penetrante e sembrano privi della capacità di assimilazione mimetica all’interno delle forze psico-spirituali del proprio avversario. L’artista e il poeta sono ingenui perché entrano in altri mondi e faticano a vivere solo in questo, ci ha ricordato Elkan a Brera, e per questo la critica antiliberale all’Impero liberale ci appare ingenua, superficiale, eccessivamente diretta e per questo scarsamente (per ora) efficace.

Se il futurista visionario Coppola capisce la Roma arcaica meglio degli studiosi e dei neotradizionalisti italiani ed europei non c’è da stupirsi se lo scrittore cosmopolita Alain Elkan sia riuscito a far rivivere dall’interno e tramite il paradosso il mito del “profeta Pound” che affascinò anche Pasolini (ci ricorda Angelo Crespi, Direttore di Brera), mentre appare difficile al contrario che i neotradizionalisti magico-sciamanici di oggi siano capaci di comprendere il daimon del sileno Woody Allen o l’importanza storica del paradossale daimon chiamato Carmelo Bene.